Esco dalla santapace.org
di Emma Baeri


Milano, 14 gennaio 2006

“Org.”, che nei miei appunti degli anni Settanta stava per “orgasmo”. Ricordate? Vaginale o clitorideo? Vaginale e clitorideo eccetera. Altri tempi quelli, nei quali avevamo capito che l’aborto è l’esperienza femminile della morte, così come la maternità  lo è della vita, che entrambi sono espressioni della sessualità femminile, e per questo liberamente scelti; capimmo anche che la contraccezione è la prima cosa da condividere in una coppia, perché è questione di responsabilità, di lei e di lui.

Felicemente immersa nella santapace del mio anno sabbatico non avevo proprio voglia di rimettermi in movimento per la 194. Insomma, ho sessatatre anni, sette gatti e due piccoli nipoti maschi: non dovevamo parlare d’altro, noi femministe storiche? C’eravamo date il compito di ripensare la vecchiaia, la malattia, la morte, e ancora l’amore, la singolitudine e la solidarietà da investire in una allegra casa di riposo, temi straordinari, appassionanti, inquietanti.

E invece no, non si può, non c’è tempo. Manine benedicenti e boccucce maledicenti di uomini votati alla castità ( ma non dovrebbe esserci un nesso virtuoso tra esperienza, conoscenza e competenza?) hanno deciso di ficcare il naso su quel “là” delle donne dove per la maggior parte di noi non batte il sole, e un parlamento in gran parte maschile, in gran parte genuflesso e riverente si è subito disposto a condividere, a balbettare, a nicchiare, più o meno trasversalmente.

Così una furia laica e anticlericale mi è montata dentro, incontenibile, mettendomi in bocca e in punta di penna parole irriverenti, quelle apprese nei miei anni Sessanta, quando noi dell’Unione Goliardica Catanese cantavamo a squarciagola per le strade vicine all’università una canzone anarchica che diceva “ bruceremo le chiese e gli altari, darem fuoco ai palazzi reali. Con le budella dell’ultimo prete, impiccheremo anche l’ultimo re”. Parole che oggi suonano politicamente scorrette e che fino a ieri mi sembravano fuori moda, roba dell’Ottocento, parole che sono storia, oggi più che mai, quando solo a dire “anticlericale” si rischia il pubblico sdegno, parole che a modo loro raccontano un pezzo della storia civile d’Italia, che canto di nuovo, da sola, ferma ai semafori, con gusto e allegria ( stupore degli astanti).

Che sia chiaro: non voglio offendere i credenti, che anzi rispetto e un poco invidio, perché anche io ho le mie inquietudini spirituali. Come chiamare altrimenti quel sentimento trepidante nel guardare la mia gatta Nenè sperando di rintracciare nella sua grazia aristocratica qualche segno della reincarnazione in lei della mia nonna Emma? O pensare divertita che forse il panciutissimo Sasà accoglie un frammento dello spirito di un canonico illuminista e riformatore che studiai negli anni giovanili? Eccetera eccetera ( i gatti sono sette).

Ma un conto è la spiritualità, un conto è lo spazio del sacro che le religioni storiche ognuna a suo modo copre, altra cosa è questa ossessione patriarcale sul corpo delle donne, questo bisogno di controllare, regolare, dominare il divino femminile del fare la vita. Niente di nuovo purtroppo, anzi un continuum storico, a pensarci ( se così non fosse, addio gender studies!). Per fortuna la storia delle donne è ormai ricchissima di fonti. Fondamentale sarà, quando scriveremo la storia del movimento femminista catanese, riflettere sulla frase detta dalla nonna ottuagenaria di una di noi. Nel 1981 - erano i giorni dei referendum abrogativi della 194 - alla nipote che la informava dell’opposizione del papa, rispose stupita: “ ‘U Papa? E chi ci trasi ‘u Papa ccu me pacchiu?” ( “pacchiu” è una delle voci sicule per nominare l’organo sessuale femminile): una fonte preziosa. Quando ho avuto la fortuna di assistere alla nascita di Lorenzo, solo incanto e stupore ho sentito. E dopo, molto dopo, la frase dell’ottuagenaria mi è tornata in mente: è proprio vero, in quella scena, solo lei che lo ha scelto sa dare la misura umana dell’evento; tutti gli altri non ci debbono “trasiri”, non hanno parole “vere” per dirlo.

Fin qui la premessa. Perché vado a Milano, quindi. Ci vado perché mia cognata Giulia mi ha detto che questa volta ci dovevamo andare. Siamo una famiglia cognatizia, postconiugale, dispersa sul territorio nazionale e internazionale, una famiglia tenuta insieme dal nostro tacito patto di solidarietà, di stima, di affetto. E poi, fino a qualche settimana fa sembrava che a Catania ci fosse “silenzio”; ma era quel particolare silenzio che spesso registriamo tra noi femministe: alcune si incontrano, pensano, dicono, ma non riescono a dirlo ad alcune altre. Sicché quando queste altre si incontrano, pensano, dicono, sono convinte di essere le prime, quindi le prime di prima si seccano un po’; per fortuna questa volta alla fine ci siamo capite e il 14 ci sarà un condiviso presidio catanese in piazza Duomo.

La cosa non dovrebbe finire qui. Si pensa a periodici presidii almeno per qualche settimana ancora, ad appuntamenti ripetuti sulla storia di questa legge, giusto per sollecitare una presa di parola riflessiva sulla sessualità, e per darvi continuità: una volta sola non avrebbe senso. Seminari-laboratori su alcune fonti femministe da organizzare nelle scuole, all’università, al sindacato, ovunque l’esigenza di saperne di più prenda forma in un gruppo di ragazze, di ragazzi. Già, i maschi. Avere due nipoti di questo sesso mi ha posto non poche domande nuove. Quando mia figlia Paola attendeva il suo secondo bambino – storia recentissima – mi disse a mo’ di consolazione: “Sai mamma, noi donne siamo già cambiate. E’ venuto il tempo di allevare uomini nuovi”. Quindi sarò a Milano anche come donna-nonna, per dare forza a un progetto di educazione sentimentale e di convivenza civile anche per loro, per Gabriele e Lorenzo.

Quando negli anni Settanta scelsi di impegnarmi per la legalizzazione e non per la depenalizzazione dell’aborto lo feci quasi d’istinto, fresca delle lotte per l’uguaglianza, l’emancipazione, i diritti, che volevo – che voglio – ostinatamente intrecciare con la mia differenza. La nascita di quello che ho chiamato “movimento femminista delle donne”- per l’incontro in esso di percorsi diversi per storia e pratiche, l’Udi, L’Mld, e una vasta area femminista – non fu occasionale, né a Catania, né altrove. Noi del collettivo dovemmo trovare il tempo di andare in piazza e alle riunioni di coordinamento tra un’autocoscienza e un’altra; le donne dell’Udi avevano alle spalle le lotte per la riforma del diritto di famiglia e per i consultori, e un’importante inchiesta tra le iscritte su sessualità e aborto; l’Mld, che si era molto impegnato nell’autogestione dell’aborto,  era ai ferri corti col partito radicale, del quale rifiutava la sbrigativa equivalenza tra aborto e diritto civile.

Eravamo tutte d’accordo nel pensare che, nell’impossibilità di trascrivere in legge il modo femminista di guardare all’aborto come a una espressione contraddittoria del desiderio femminile di fecondità/maternità, l’aborto “libero, gratuito, assistito” nelle strutture pubbliche fosse un modo per risolvere alcune questioni storiche: sottrarre alla clandestinità la falsa coscienza dei cucchiai d’oro e finirla una volta per tutte col calvario delle donne indigenti. In particolare, mi sembrava che in una città del sud, tradizionalmente caratterizzata da una profonda inimicizia tra i suoi abitanti e le istituzioni pubbliche, le parole “legge”, “Stato”, “consultori”, “ospedale” sarebbero state di più immediata comprensione che non una semplice depenalizzazione: c’è qui ancora tra noi, ancora in me, un sentimento positivo della tutela.

Non tutte però eravamo d’accordo su quello che per ciascuna significasse l’aborto: tragedia per alcune, dramma per altre, violenza per tutte, ma anche, come in Il tormento e lo scudo scrisse laicamente Laura Conti - che nella 194 vedeva un compromesso sulla pelle delle donne - un dramma nuovo, quello delle donne che abortiscono senza dramma: gratitudine eterna per queste parole libere e leggere. La legalizzazione fu quindi un’opzione critica, obtorto collo. Critica soprattutto verso gli esiti più vistosamente difettosi della legge: l’aborto delle minorenni e l’obiezione di coscienza, due iter solo apparentemente garantisti. Tutte concentrate su questi punti, in quegli anni non demmo troppo peso ai primi articoli della legge, quelli sui quali oggi fa leva la riscossa dei conservatori fondamentalisti. Ci sentivamo forti, e pensavamo che l’esperienza dei consultori autogestiti avrebbe stabilizzato per sempre quella temperie culturale caratterizzata da alcune acquisizioni che ci sembravano ormai ovvie, l’autodeterminazione della scelta e la difesa della salute psicofisica delle donne: perché preoccuparci? Oggi è stata la caducità di questa ovvietà a metterci in scacco, ad indurci a uscire dal silenzio, per dire di nuovo una parola corale, udibile, visibile, la parola della libertà femminile, che vola alto, ma a volte così in alto da rischiare di non vedere il terreno sul quale cammina.

Si è parlato in questi giorni, da parte di autorevoli voci del giornalismo femminista, del rischio di cadere nella trappola della parola “diritto”, certamente  inadeguata a dire la complessità dell’aborto.  D’accordo sia sulla complessità sia sull’inadeguatezza, mi sembra tuttavia eccessivo il timore che la parola “diritto”suscita. Se è vero che esso non può, non deve, normare a tutto spiano sui corpi, è pur vero che i diritti costituiscono un argine necessario alla pretesa di negazione della sovranità di questi medesimi corpi, soprattutto in questo momento nel quale assistiamo ad una aperta e spudorata violazione dei diritti un po’ ovunque nel mondo. Insomma, se la 194 ha un merito un po’ nascosto, esso è  quello di essere nella sua sostanza una legge che applica la Costituzione, laddove essa afferma il diritto alla libertà di coscienza e il diritto alla salute per tutti, diritti indiscutibili, inviolabili, costituzionalmente garantiti; che tuttavia vengono facilmente messi in discussione quando si tratta di donne, quando essi si traducono in un’espressione chiara: sovranità procreativa.

Qui, su questo millenario “oggetto”, il corpo femminile,  si interrompe il filo civile tra la Costituzione e la legge, e non c’è scampo; così i nostri corpi di donne fluttuano avanti e indietro, entrano come cittadini nella polis e ne escono non appena diventano corpi della cittadina, in una danza che oggi, proprio e solo per oggi, voglio dire macabra. Ciò avviene secondo me perché la nostra pur eccellente Costituzione si fonda su un’idea di cittadinanza che non prevede il corpo in carne ed ossa della cittadina. Quando ai tempi della Bicamerale feci la pensata di un Preambolo alla Costituzione nel quale inscrivere la differenza senza negare il diritto all’uguaglianza volevo, presuntuosa qual sono, porre un problema: pensavo che sarebbe stato questo il solo modo per sottrarre l’Habeas corpus delle donne al mutevole vento dei governi e dei papi.

Vero è che la Costituzione è a rischio di revisione anch’essa, ma è più difficile porvi mano che a una legge. Se “la sovranità delle donne sul proprio corpo, sia nell’esperienza e nelle rappresentazioni della sessualità, sia nell’autodeterminazione della maternità e nella significazione della relazione materna” fosse diventato un principio costituzionalmente garantito forse oggi sarebbe più difficile prefigurarne la “revisione”. Altri tempi anche questi, e forse un’occasione storica perduta, che Olympe de Gouges ci perdoni. Viviamo in un mondo definito da una rete di diritti, a volte lacerata, a volte una gabbia, fino all’ingiustizia, lo so; ma questo è il nostro sistema giuridico, strappato all’assolutismo dalle costituzioni borghesi: per molti versi sono ferma ancora lì, ai diritti individuali, ma con tutte le invenzioni politiche, sociali, culturali che possano renderli a misura di donne e di uomini nelle loro relazioni.

E’ ovvio che le leggi “ravvicinate”, quelle che pretendono di dare forma ai comportamenti umani più intimi dovrebbero essere leggerissime, quasi invisibili, e che lo scarto di libertà tra la norma e i comportamenti dovrebbe essere proprio la cosa garantita dalla norma. Ripeto: poi c’è la politica, c’è la cultura, le culture, le pratiche sociali, tutti luoghi della possibilità, del mutamento, dell’immaginazione, ma non vorrei le une al posto degli altri, voglio gli uni e le altre, in mutuo scambio di risorse. Dico perciò che la 194, “legge sulle donne” (come la legge sulla violenza sessuale, impropriamente detta “legge delle donne”), ha avuto il merito di essere “cerniera di cittadinanza”, di aprire  spazi di discorsività femminile sul nesso tra individue e legge, tra pratiche politiche e diritto, tra esperienze della sessualità e le loro rappresentazioni, che la semplice depenalizzazione non avrebbe aperto. Spazi nei quali abbiamo parlato sentendoci per la prima volta cittadine in carne ed ossa, seppure in transito verso un nuovo patto di cittadinanza, un parlare pacificamente  “invaso” dalle parole di tutte le pratiche politiche femministe, a partire dall’autocoscienza: un grande merito.

Sembravamo in silenzio, invece parlavamo a bassa voce. Oggi abbiamo alzato il tono e allargato il cerchio, a conferma del fatto che se una legge non può dare conto delle esperienze vitali delle donne e degli uomini, non sempre la sua assenza  rende loro giustizia. Per tutte queste ragioni, e per tante altre ancora, scelgo di uscire dalla mia santapace.org, nella quale tornerò precipitosamente (ma abbiamo deciso di continuare ad incontrarci…)

Catania, 12 gennaio 2006 

 

 stralci di questo testo sono apparsi su Liberazione del 14 gennaio 2006