20 settembre 2014
Cura, tempo di vita e lavoro extradomestico: quali cambiamenti nel rapporto tra i sessi e tra le generazioni?

 

E' tutto diverso e tutto tremendamente uguale

di Elena Negro

il tempo delle donne

 

1. ringraziamenti

Ringrazio tutte voi della Libera Università delle Donne per avermi invitata a questo incontro.
Mi fa molto piacere essere qui perché il tema di cui discutiamo oggi emerge quotidianamente nella scansione delle mie giornate, come immagino lo sia per moltE e moltI della mia generazione, ma non so quanto altrettanto frequente sia la possibilità di confrontarsi e riflettere su questo argomento in un contesto pubblico, per chi -come me- non si occupa di questa tematica da un punto di vista professionale.
Riflettere su cosa raccontarvi è stata un'occasione per ripercorrere criticamente il mio percorso di vita e inaspettatamente vi ho trovato delle nuove letture che hanno messo in luce alcuni aspetti che non avevo prima d'ora messo a fuoco.
Quindi di fatto oggi imparo cose nuove e di questa opportunità vi ringrazio.

C'è un altro motivo per cui sono particolarmente contenta dell'incontro di oggi, un motivo di carattere personale, che mi emoziona molto, ed è che per me la LUD è stato da sempre un LUOGO e uno SPAZIO in cui personale e politico si intrecciano e producono sapere condiviso.
Quella pratica che ho scoperto con consapevolezza durante gli anni della formazione all'università ma di cui sono stata testimone inconsapevole negli anni dell'infanzia. Una visione e una pratica che mi accompagna da sempre grazie ai miei genitori che mi hanno trasmesso quegli strumenti culturali di analisi critica e politica con cui leggo il mondo che mi circonda.
Quindi anche per questo oggi qui per me si intrecciano ancora una volta personale e politico e questo mi dà un senso di compiutezza, di soddisfazione che fa emergere un sentimento di appartenenza.
Ritrovo quella sensazione di collettivo e di costruzione condivisa del sapere che ho scoperto essere un filo rosso che mi ha guidato nelle scelte della vita. So che può essere una ovvietà detto qui per voi che mi ascoltate e che avete fatto proprio questo principio, ma per la mia generazione – credo di non sbagliarmi- non è così scontato.


2. il tema: cosa voglio dire

Sono qui per raccontarvi il mio percorso di vita ma mi prendo qualche minuto per fare 2 brevi considerazioni.

La prima che parrebbe provocatoria ma non lo vuole essere è in realtà una domanda: perché non proviamo a chiedere direttamente a LORO, agli uomini, che cosa pensano del lavoro di cura, del tempo di vita dedicato alla cura e alla crescita dei figli, ma anche del lavoro produttivo?
Agli uomini della mia generazione, intendo, che sono un campione comunque ristretto della popolazione: 35/55 anni, residenti in aree urbane, con figli, con un impiego (prevalentemente, ma non necessariamente perché oramai sebbene non sia molto diffuso ci sono delle coppie in cui gli uomini che svolgono prevalentemente il lavoro di cura e le donne che dedicano il loro tempo al lavoro).
A generalizzare e rendere assoluta l'esperienza singola c'è sempre il rischio di banalizzare e distorcere la realtà. Quindi contestualizziamo: è alla mia generazione che rivolgo questa domanda, ma è la mia generazione anche il punto d'osservazione per riflettere insieme a voi oggi.
Quindi, perché non lo chiediamo agli uomini?

  • per consuetudine? Se si parla di donne si parla SOLO TRA donne ?

  • non la reputiamo NOI donne una questione che interessa il mondo maschile?

  • oppure riscontriamo una mancanza di interesse DA PARTE MASCHILE a confrontarsi su queste tematiche?

Non so rispondere, ovviamente, in modo esaustivo ma penso che valga la pena rifletterci. E penso che nelle ragioni per cui noi non poniamo questa domanda anche agli uomini ci sia un po' di tutto questo.

La seconda considerazione che vorrei fare è di carattere generale sul termine “conciliazione”: conciliazione di cosa? Di cosa stiamo parlando? Dei tempi, dei progetti di vita, di cos'altro?
Ci stiamo interrogando se si può spingere il termine conciliazione verso l'orizzonte della dimensione di coppia e all'interno delle relazioni affettive. Io così ho capito.
Quindi si tratta di una prospettiva di conciliazione “al quadrato”, che include almeno due progetti di vita, più tempi e più sfere esistenziali (lavoro retribuito, lavoro domestico, aspettative di carriera, soddisfazione personale, accudimento e crescita dei figli, socialità …). La novità qui è l'inclusione del genere maschile in questa visione e in questo processo. Bene, io credo che questa inclusione sia possibile e doverosa, che sia una buona chiave di lettura per far emergere una questione irrisolta.

Il lavoro domestico è stato ormai parzialmente scaricato sulle collaborazioni domestiche, che essendo regolate da transazioni di denaro, si discostano dallo statuto informale del lavoro di cura.
Ritengo invece che il tema si ponga con forza in presenza dei figli, nel desiderio di madri e padri di partecipare attivamente alla loro crescita, mantenendo un tempo per sé. E questo apre un conflitto: tra tempo per sé, tempo per il lavoro, tempo per la famiglia, tra sé, carriera e figli, tra madri e padri.
E' questa la questione irrisolta. Si tratta di un conflitto che matura all'interno della coppia genitoriale. Un conflitto che può avere diverse forme di risoluzione ma che ritengo riguardi prevalentemente la sfera personale, famigliare, senza riuscire a collocasi su un terreno collettivo.

La conciliazione è un tema importante, centrale, resta però una questione privata e non ha la forza di trasformarsi in questione pubblica e politica. Questo è il punto.

Personalmente io vedo intorno a me un desiderio espresso da parte del genere maschile di condivisione del carico della responsabilità lavorativa e di accudimento, che è anche il frutto di uno scarto culturale e di una maggiore libertà che hanno gli uomini di esprimere la loro paternità sotto nuove forme.
In questa epoca di crisi questo desiderio di condivisione si scontra con un sistema arcaico del mondo del lavoro che permette poca flessibilità e che non favorisce un'impostazione del quotidiano su basi condivise. Basterebbe impostare il lavoro su basi più eque e garantire meno ore di lavoro, ma per tutti. Invece chi lavora lavora “troppo” e chi non lavora non trova lavoro.

E' una questione politica ed economica, ma anche culturale. La conciliazione diventa terreno di contrattazione all'interno della dinamica di coppia quando c'è consapevolezza, volontà e capacità di condivisione dei ruoli. Allora conduce ad una parziale ridefinizione dei tempi e dei ruoli, ad una riconfigurazione del progetto di vita sia femminile che maschile. Qui si aprirebbe tutto un capitolo sulla volontà di mettersi in gioco nelle relazioni, sulla capacità di cambiamento, sull'educazione a modelli culturali e sociali diversi nel quale non mi posso addentrare ma che ritengo essere molto importante in questo discorso.

Questo è quello che posso dire a partire dal mio punto d'osservazione, che avendo tre figli copre una casistica abbastanza ampia di famiglie con figli in età scolare. In molti casi, forse nella maggior parte, la conciliazione non viene tematizzata e resta ancora unicamente una questione femminile, che si inserisce prevalentemente nel progetto di vita delle donne. A me sembra che le donne mie coetanee stiano tornando a frequentare l'ambito domestico e le relazioni di cura. Lo fanno per ragioni diverse, forse questo è il dato interessante: lo fanno per necessità, per convenienza, per scelta. Chi invece è orientata al lavoro delega in modo significativo l'impegno della cura, ai nonni, alle babysitter, ma anche ai padri. Conosco poi chi si divide moites moites, ma con grandi sacrifici.

3. Note biografiche

Ora vi racconto la mia esperienza. Ho 43 anni, vivo a Milano in una zona semi centrale, con il mio compagno e i nostri 3 figli. Ho studiato antropologia, una disciplina che all'epoca in cui mi sono laureata era ancora poco conosciuta in Italia, almeno fuori dall'ambito accademico. E' stata per me una scelta culturale e non professionalizzante. Mi è sempre piaciuto studiare ma non mi sono mai riconosciuta come un'accademica e quindi a me è stato subito chiaro che non avrei intrapreso la strada universitaria.

Ho continuato a studiare specializzandomi in un settore molto di nicchia e iniziando a fare ricerca da libera professionista in istituzioni pubbliche e in aziende, ma anche in università, su progetti di ricerca applicata: mi sono occupata di quello che all'epoca veniva chiamato 'sviluppo locale del territorio' con una forte competenza pluridisciplinare (legata all'antropologia economica, alle scienze turistiche, alle questioni di genere, al no profit, alla museologia, al patrimonio culturale …). Ho lavorato in Italia e all'estero per una decina d'anni, vivendo in posti diversi e spostandomi frequentemente. Insomma un inizio di carriera quasi canonico. Sempre con lavori a progetto e a termine, senza trovare un posto fisso, un impiego costante.

Da un punto di vista professionale in Italia la figura dell'antropologo / dell'antropologa non è riconosciuta. Avrei potuto trasferirmi all'estero, sarei potuta restare in Francia, in Inghilterra o in Svizzera e allungare la lista dei cervelli in fuga, ma non me la sono sentita.

Nel mio progetto di vita non c'era il desiderio di una famiglia o del matrimonio: mi sono formata e specializzata e tra i 20 anni e i 30 ero orientata a spendermi sul fronte lavorativo ed intellettuale. Poi invece è successo che ho conosciuto quello che ora è mio marito. Per entrambi è stato forte il desiderio di un figlio e abbiamo voluto garantirci una situazione direi “a lungo termine”, quindi ci siamo VOLUTI sposare. Proprio con l'idea di “fare famiglia”. Mi sono sempre stupita di come questa scelta sia avvenuta così facilmente.
Prima rivoluzione.

Seconda rivoluzione: 9 anni fa è nata la mia prima figlia, Meme. Me la portavo ovunque. Nella fascia. Anche a lavorare. E ho continuato a lavorare, cercando -e in parte trovando- una forma di conciliazione con il mio compagno favorita dal fatto di avere entrambi una discreta flessibilità dei tempi di lavoro. Con Dede, nato dopo tre anni, questa configurazione non ha più funzionato: dopo la maternità sono stata io a volermi concentrare su quello che stava cambiando intorno a me. Forse anche dentro di me. Per ridurre l'impegno e il tempo da dedicare al lavoro ho cambiato IL lavoro, ho abbandonato il pendolarismo e mi sono dedicata alla costruzione di una realtà professionale qui a Milano. Secondo figlio, terza rivoluzione, che ha significato più spazio alla dimensione materna e lavoro più flessibile rispetto alle MIE esigenze di maternità (perché nel frattempo ho scoperto che mi piaceva stare con i miei bambini). Quindi ho lavorato qualche anno facendo un lavoro molto appagante sotto il punto di vista professionale, senza però riuscire a garantirmi uno stipendio adeguato.

La crisi in questo non mi ha aiutata e i finanziamenti garantiti dai bandi pubblici si sono ridotti progressivamente. A questo punto abbiamo investito sulla famiglia e due anni fa è nato Ioio . Terzo figlio. Scelta di fare gruppo, di dedicare il tempo alla qualità della vita famigliare, alle relazioni come risorsa. Quarta rivoluzione. Non avendo io una prospettiva di lavoro solida e avendola il mio compagno, insieme abbiamo fatto la scelta forte di restare una famiglia monoreddito per questi anni. Ciò significa che ora io mi dedico maggiormente ai figli e al lavoro di cura, mentre lui si dedica maggiormente alla sua crescita professionale, nella consapevolezza che nei prossimi anni, quando sarò io ad aver bisogno di più tempo per il lavoro, invertiremo i ruoli.

Intermittenza e fasi alterne, questo è il motto: abbiamo impostato la conciliazione sul lungo periodo. Nella scelta di maternità e di genitorialità ho contemplato la crescita dei figli come impegno, senza voler abbandonare per questo un percorso professionale. Nella scelta di non lavorare ha pesato maggiormente la qualità del lavoro (per me mancante in questo momento) e l'opportunità -unica- di accompagnare da vicino i figli nella prima parte della loro vita.

Non mi sento nemmeno costretta nel ruolo della madre, moglie, casalinga, e non intendo e rinunciare al lavoro per sempre, che invece considero insindacabilmente non solo un diritto ma una forma di indipendenza, realizzazione e presenza nella vita pubblica. Mi considero una precaria, ma non aspiro ad un posto fisso (probabilmente non l'ho mai fatto) e sono più a mio agio nella libera professione. Tra la mia collocazione professionale e quella di mio marito, io nel mondo del lavoro sono l'anello più debole (in questo però gioca più il tipo di professione che il genere) e questo ha sicuramente influito sul mio percorso e la mia attuale situazione. Realisticamente ho un anno per reinserirmi, portandomi dietro tutta l'esperienza che ho fatto e sapendo che farò tutt'altro.

Non lavorare implica avere meno soldi a disposizione e questo significa anche ridefinire i propri bisogni, per quanto possibile, senza passare dal mercato. E' una sfida non facile, anche educativa. Come lo è impostare la famiglia su una netta divisione di genere. Ne sono consapevole, ma non credo di star riproducendo e trasmettendo un modello famigliare tradizionale anche se in alcuni momenti emerge con forza il peso della divisione dei compiti.

Vorrei concludere citando a memoria uno spezzone del video “Dove stiamo andando” realizzato dalle giornaliste della 27esimaora e pubblicato sul sito internet “Il tempo delle donne”.
Ad un certo punto una donna, toscana, più o meno della mia età, viene intervistata insieme a sua figlia, più o meno dell'età di mia figlia, e più o meno dice:

non so dove si sta andando,
sono consapevole che sto camminando e vado dove mi porta il cammino.
So però che voglio essere una persona libera e coraggiosa”.

 

 

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