Quattro
si per un no. E dopo?
di
Maddalena Gasparini

Paola Gandolfi
Il 12 giugno saremo chiamati a dare il nostro parere sulla legge 40/2004
che regola la procreazione medicalmente assistita. Dichiarato inammissibile
il referendum per l'abrogazione della legge nel suo complesso, la vittoria
dei si nei referendum abrogativi parziali otterrebbe un risultato simile:
l'obbligo di ridiscutere le regole. Gli interrogativi e le inquietudini
prodotte dalle tecnologie biomediche (e non solo quelle riproduttive)
possono favorire scelte proibizioniste; eppure è dal riconoscimento
delle difficoltà che nasce il cambiamento e possono venire regole
condivise in grado di garantire le libertà personali e insieme
proteggere da rischi e abusi. Ed è questo che mi accingo a fare,
grazie all'ospitalità del Foglio del Paese delle Donne.
Rammento schematicamente i quattro temi referendari: la natura dell'embrione
- "il concepito" dell'art 1, la legittimità di destinare
alla ricerca scientifica quelli non più richiesti o adatti al trasferimento
in utero, le procedure biomediche che riguardano l'autonomia e la salute
delle donne, la fecondazione eterologa .
L'embrione
e la ricerca biomedica
Malgrado ogni anno in Italia nasca da fecondazione in vitro (FIV) non
più dell'1.5-2 % dei bambini, decine di migliaia di embrioni sono
stati prodotti e immagazzinati, e qualche migliaio non è più
richiesto a fini riproduttivi, o perché il desiderio di maternità
è stato esaudito o perché è stato lasciato cadere
dopo i primi insuccessi.
Per quanto interroghiamo la nostra esperienza di donne, gravidanza e aborto
innanzitutto, non troveremo risposte sulla natura di questo organismo,
certamente umano, certamente vivo e che, per slittamenti progressivi,
è diventato "vita umana", addirittura persona, e non
solo per chi fa proprio il Magistero Cattolico. La sua collocazione nei
laboratori ne fa infatti un oggetto che, pur invisibile, è in grado
di animare progetti, fantasmi, timori, speranze. Se l'affermazione che
"l'embrione è uno di noi" ha bisogno di conferma divina,
l'evocazione di un passato immemore che la scienza definisce embrione,
tocca la sensibilità personale, soprattutto di chi è più
giovane, più vicino al tempo dell'origine. Ne viene un sentimento
di fragilità e dunque una richiesta di protezione. Con abile e
antica mossa, la legge si schiera si per la protezione dell'embrione,
ma dalla madre piuttosto che dai possibili abusi della scienza e dalla
logica del mercato: al "concepito" vengono riconosciuti diritti
come se fosse una persona, alla donna vengono imposti obblighi e divieti.
Mentre ferve il dibattito su quella che io chiamo "metafisica dell'embrione"
(può -si chiedono i neo-aristotelici- essere dichiarato "in
atto" ciò che è "in potenza"?) sta a noi
riconoscere che un embrione in vitro è radicalmente diverso da
un embrione in vivo e che a definirne la sorte non basta l'obbligo del
consenso preliminare della donna che potrebbe accoglierlo in sé
per far nascere un figlio, servono regole condivise; che insomma una protezione
è sì necessaria, finché e salvo che una donna decida
di accoglierlo e accompagnarne il lento, irregolare diventare un altro
da sé, fino alla nascita di una nuova persona.
L'inevitabile distanza che la FIV mette fra noi e il prodotto del nostro
desiderio lascia lo spazio per interventi di cui è necessario definire
modi e limiti: la selezione degli embrioni prima del trasferimento in
utero, il tempo massimo consentito alla crescita in vitro dell'embrione,
gli indirizzi prioritari della ricerca (per esempio migliorare la qualità
di vita piuttosto che la durata, favorire l'attenzione alle malattie giovanili
e alle più debilitanti), l'opportunità che tale ricerca
sia approvata, finanziata e controllata dal pubblico in modo di ridurre
al minimo (ed è già troppo) la dipendenza della ricerca
dal profitto, la necessità di un'Authority che vegli sulla ricerca
e ne garantisca la trasparenza... Su tutto ciò è facile
immaginare che sarà necessario mediare, anche fra donne: non mancherà
chi difende la libertà di commissionare un bebè a misura
delle proprie preferenze o delle necessità di cura di un fratellino
malato e chi evoca l'eugenetica per la conclusione volontaria del ciclo
vitale dell'embrione, chi ritiene non ci sia spazio per il progresso scientifico
fuori dalla competizione di mercato e chi si interroga sul significato
profondo della "donazione" quando si tratta di gameti o embrioni,
chi pensa che a fini scientifici si possa usare solo quel che resta della
PMA, chi teme che cure sempre più sofisticate e costose aumentino
il divario fra ricchi e poveri e chi da voce alla sofferenza che potrebbe
giovarsi delle conoscenze e dell'uso delle cellule staminali.
Il confronto cui ci obbliga la campagna referendaria va ben oltre lo scardinamento
di una legge che già si è dimostrata inapplicabile e ci
interroga sul nuovo significato da attribuire ai valori che ci sono più
cari: la libertà, la giustizia e la diversa coniugazione che assumono
per un uomo e una donna.
Se il liquido seminale può essere donato con un semplice atto masturbatorio,
gli ovociti devono essere prelevati dopo stimolazione ormonale con una
manovra invasiva; se il gesto maschile non è estraneo al piacere,
la procedura sul corpo femminile comporta un rischio di gravi complicanze
nell'1.5% dei casi. Laddove è permessa la commercializzazione dei
gameti, a questa differenza corrisponde un diverso valore economico: poche
decine di dollari per il liquido seminale, qualche migliaio per ovocita
("lo faccio per pagarmi l'università" ha dichiarato una
studentessa americana). Ma in quasi tutti i paesi è previsto un
rimborso spese e di recente la Gran Bretagna ha aperto un pubblico dibattito
sull'opportunità di elevare il rimborso per le donne da 500 a 1000
sterline, mettendo a dura prova tanti discorsi sulla solidarietà
e la relazione fra donne e ricordandoci che sulla differenza ha messo
radici la disuguaglianza. E se alla donazione dei gameti a scopo riproduttivo
si aggiungesse quella a scopo di ricerca o addirittura terapeutico? per
avere una sola linea di cellule staminali embrionali un'équipe
sud-coreana ha avuto bisogno di 16 donne che hanno "donato"
242 ovociti. Anche questa è libertà?
La libertà riproduttiva assume nuovi significati passando attraverso
istituzioni potenti come la medicina e la scienza. L'involontario legame
che si è stabilito fra il "generare" e la speranza di
"rigenerare" i tessuti malati con cellule staminali derivate
dagli embrioni mostra il persistere della fantasia, tutta maschile, di
controllare la vita e le sue origini vuoi subordinano le scelte riproduttive
a leggi feroci vuoi appassionandosi a una scienza che qualcuno vorrebbe
senza limiti.
La libertà riproduttiva
Il gran parlare di embrioni e gameti, uteri e genoma ha ottenuto un risultato,
ratificato dalla legge 40: fare della maternità un percorso che
riguarda l'embrione piuttosto che la donna o la coppia che desidera un
figlio, con l'effetto perverso che a rischio di esclusione siano proprio
i figli in nome dei quali si sono formulati limiti e divieti.
L'inseminazione artificiale per avere un figlio in assenza di un partner
maschile o il ricorso alla donazione di gameti esterni alla coppia ha
rianimato i fantasmi delle ragazze-madri e delle adultere prefigurando
una condanna implicita di quelli che una volta si chiamavano figli illegittimi.
Quando 20 anni fa iniziò la definizione delle regole per la procreazione
assistita, molti paesi decisero di garantire l'anonimato ai donatori di
liquido seminale. Forse inconsapevolmente questa regola corrispose ai
desideri maschili: il donatore poteva incassare il suo "rimborso
spese" senza pensieri e disseminare il mondo di figli propri (del
resto i padri e i nonni l'avevano fatto "per via naturale")
mentre il ricevente poteva tener segreta quell'infertilità che
gettava un'ombra sulla sua efficienza virile. Diverse indagini hanno documentato
che il 75-80% delle coppie che hanno fatto ricorso alla fecondazione eterologa
non hanno informato e non intendono informare i figli della loro origine,
introducendo nelle relazioni parentali un segreto che, per usare le parole
dell'authority inglese (HFEA), "può avere un effetto lesivo
sulle relazioni famigliari e sociali".
Come si sente il figlio, la figlia di un'inseminazione da donatore? Con
questa domanda si apriva la lunga e toccante lettera di una giovane donna
al British Medical Journal (2002;324:797): informata dalla madre, soffriva
di non poter risalire al donatore ("una naturale curiosità"
scrive) e ancor più della difficoltà del padre legale ad
affrontare con lei questo tema. Così mentre alcuni scelgono di
spingere nella clandestinità una scelta problematica, altri paesi
hanno preferito modificare le regole, togliendo l'anonimato del donatore
e impegnando la donna o la coppia a informare il figlio della sua origine.
Organizzazioni su base volontaria o le stesse strutture dove si esegue
la PMA supportano il percorso informativo e, compiuta la maggiore età,
chi è nato da inseminazione da donatore potrà saperne il
nome e chiedere di incontrarlo.
Tenere in conto il vincolo fra origine biologica e legame sociale, seppure
imposto dalla storia, è un modo di riconoscere la trasformazione
in atto e indirizzarla verso la valorizzazione della relazione affettiva,
lontano dalla preminenza del biologico, ancor oggi garante più
della fedeltà femminile che dell'identità di chi nasce.
La fecondazione eterologa, più ancora della FIV, sancisce la separazione
della riproduzione dalla sessualità e la possibilità di
una gravidanza senza partner maschile; la possibilità di risalire
al donatore permette alla figura maschile, la prima "differenza"
che incontra chi nasce, di non essere ridotta alle dimensioni dello spermatozoo.
Molti paesi hanno preferito la trasparenza all'ipocrisia di chi, come
gli estensori della legge 40, del proprio disagio preferisce fare occasione
di proibizione piuttosto che di crescita. Dalle sterilizzazioni forzate
delle donne povere o malate alle "fattrici" della razza ariana,
ogni forma di limitazione della libertà riproduttiva, poco importa
se naturale o artificiale, è una grave limitazione della libertà
personale e un rischio per chi nasce, poco importa se per fecondazione
naturale o artificiale, al di fuori del modello tradizionale di famiglia.
Le scelte riproduttive appartengono alla sfera più intima dell'esistenza
di ognuno e vanno difese con ogni mezzo dalle intrusioni dello Stato.
Del resto, in questo sono ottimista, l'obbligo di aderire al modello di
famiglia prediletto dai nostri legislatori non farà molta strada:
nessun padre surrogato -stato, chiesa o medicina- potrà far la
parte che molti uomini in carne ed ossa -padri e amanti- hanno abbandonato.
La presunta difesa di chi nasce si traduce così nel suo contrario,
ma viene ribadita per giustificare la subordinazione di un diritto costituzionalmente
garantito, la salute delle donne, al mantenimento in vita di un modello
unico di famiglia. E forse non è sufficientemente chiaro che mettere
a rischio la salute delle donne vuol dire aumentare le incognite sulla
salute di chi nasce: il tasso di complicanze perinatali e di malformazione
nei nati da FIV è infatti correlato alla gemellarità (quando
superiore a due) tanto che in molti paesi viene favorito, quando non reso
obbligatorio, il trasferimento di un solo embrione, selezionato per essere
"il migliore". Per quanto i princìpi dell'etica medica
non possano esaurire le domande sollevate dalla PMA, non c'è dubbio
che essi valgano anche per la PMA: il principio di autonomia, o della
libertà di disporre del proprio corpo; il perseguimento del "miglior
interesse" ovvero il diritto alle procedure più efficienti
e meno rischiose, incluso il ricorso alla diagnosi genetica preimpianto
piuttosto che a una diagnosi prenatale che, in caso di anomalie genetiche,
si risolve perlopiù con un doloroso aborto terapeutico.
Il consenso informato, su cui insiste la legge 40, si trasforma in informazione
prescrittiva. L'adozione va segnalata come alternativa alla PMA! confondendo
un atto di solidarietà nei confronti di chi già è
al mondo con il desiderio di una gravidanza e maternità. E' proibito
recedere dal consenso già dato, come previsto in ogni altra procedura
medico-chirurgica, dopo che sono stati creati gli embrioni ed è
obbligatorio il trasferimento di tutti quelli creati: l'assurdità
di quest'ultima disposizione non ha trovato soluzione nemmeno nelle linee-guida
dove non osando proporre il trattamento sanitario obbligatorio previsto
per i gravi malati di mente, non è chiaro cosa ne sarà degli
embrioni residui. Infine l'obbligo al numero chiuso per gli embrioni documenta
l'ignoranza e l'arroganza di chi l'ha pensato; la fecondazione, come ogni
manifestazione del vivente, non segue regole matematiche: non è
possibile prevedere il numero esatto di embrioni che risulteranno dall'inseminazione
degli ovociti e il rischio che non se ne formi nessuno o più dei
tre voluti dalla legge è dietro l'angolo.
Libertà di disporre di sé, tutela della salute, dignità
della persona sono strettamente legate nella procreazione assistita non
meno che in ogni caso in cui le tecnologie biomediche modificano le fasi
della vita, dal concepimento appunto fino alla morte; imporre limiti alle
scelte, invece che regole alle procedure, intacca diritti e valori fondanti
la nostra convivenza.
Articolo
pubblicato sulla rivista il Foglio del Paese delle Donne, numeri
7 e 8 del 2005
22
aprile 2005
|