4 marzo 2011

Maestra reticente

Nicoletta Buonapace


Ho conosciuto Lea all’inizio del 1989, in uno dei corsi che si facevano in Zona 4, una biblioteca dalle parti di Corvetto.
Ero appena arrivata a Milano e fino ad allora, il femminismo era stato per me più una tenace ricerca di parole di donna che fossero “altre”, che non un movimento di piazza e una pratica politica.
Essendo cresciuta in una città di provincia, le mie conoscenze si limitavano a letture, quando ne trovavo, come “Dalla parte delle bambine”, “L’eunuco femmina” e “L’infamia originaria” di Lea, di cui ancora adesso mi chiedo cosa esattamente avessi capito, ma fatto sta che mi aveva folgorato come i primi due. C’è da dire che rispetto a certi libri applico il pensiero di Picasso il quale, più o meno diceva: “Quando leggo un libro sulla fisica di Einstein nel quale non capisco niente, non fa nulla: mi farà capire altre cose.”
Ecco, c’era qualcosa che comunque intuivo e che riguardava me, la mia costruzione d’una visione del mondo che desse un senso al mio disagio, alle mie difficoltà.
Oggi come allora la mia ricerca riguardava la possibilità della verità e della libertà.
Ero inoltre da sempre preda della passione di scrivere, anche se non riuscivo a credere davvero alla mia parola.
Quando ho incontrato Lea, improvvisamente la teoria, l’interesse intellettuale, si sono intrecciati con la passione per l’incontro umano, testa e cuore, come diceva lei, si avvicinavano, il femminismo diventava storia vera, vissuta, incarnato da un gruppo di donne che s’incontravano per interrogarsi, per pensarsi, con la guida di Lea che era ovviamente per tutte e anche per me, facile oggetto di proiezioni: madre e maestra e tuttavia ostinatamente reticente a sostenerne le figure. La volontà di sottrarsi al ruolo di fatto produceva non solo la sua propria, ma anche l’altrui libertà.

E’ difficile essere libere. Significa dare peso e valore alla propria originalità. In questo senso Lea è artefice di questo lavoro quando dà valore alle parole e alle scritture delle donne, perché spinge all’assunzione della propria parola, una parola veritiera, autentica, in grado di svelare la menzogna della storia e dei vissuti.
Dunque la scrittura d’esperienza, come luogo terzo di una relazione che permette il contatto e la distanza.
Eredità della pratica dell’autocoscienza senza i rischi di uno sprofondamento nel sé, senza quell’affidamento ad altre che può compromettere una reale autonomia.
Lottare sempre per questo, con radicalità, sottraendosi alle lusinghe anche di un certo tipo di potere.
Relazione tra sé e il mondo da una posizione di confine, con tutte le ambiguità, ma anche le improvvise prese di consapevolezza che il mantenimento di una posizione del genere comporta.
Soglia tra dentro e fuori. La parola scritta crea distanza, distacco, favorendo una riflessione su di sé e sul mondo, rivelandone le contraddizioni e i paradossi.

Per avvicinarsi bisogna mettere delle distanze, per parlarsi inventare il silenzio. Si congiunge, in grammatica, solo ciò che si pensa, altrimenti, staccato.
Ma tutti sanno che un pensiero impazzito, sgrammaticato e sognante, si aggira tra i campi recintati, sotto le mura squadrate, dietro ogni porta che si chiude, dentro ogni libro che si apre.
” ( I racconti del gelo – Come nasce il sogno d’amore )

Luogo d’intreccio tra privato e politico. Il corpo, la sessualità, l’amore e il suo sogno, le polarizzazioni che portano a una lacerazione della vita intima. Questo mi toccava profondamente, questo sentivo vero.
Si trattava di affinare lo sguardo per pensare certi oscuri disagi come segnali di un ordine funzionale al sistema sociale così come l’ha costruito lo sguardo patriarcale.
Si trattava di valorizzare un pensiero in grado di stare nella domanda, abitare il desiderio di una chiarezza che non teme le sue ombre, allora lo stare tra il sogno e la veglia (pensare come sognando, perché è dai meandri dell’inconscio che sorge la verità per quanto possa avere aspetti spiacevoli, duri, violenti; allora il coraggio di un’esplorazione che non ha paura di scontrarsi coi fantasmi della vita interiore, illuminati però da una ragione che incontra la storia) si trattava di saper costruire segni di autonomia nel pensiero, nel sapere.

Il femminismo, la libertà, diventavano per me l’incoraggiamento a dare peso e valore alla propria singolarità, altre volte all’esperienza d’una faticosa solitudine, che veniva mitigata dalla possibilità del confronto e dalla relazione con le altre.
Dare valore sociale, storico, politico a ciò che tradizionalmente è fuori dalla storia.
Avevo la sensazione di essere dentro la storia, che il mio disagio personale non era solo mio, ma apparteneva, per delle ragioni che era possibile indagare, a tutto il genere femminile.
E nella scrittura si poteva trovare il proprio peculiare sguardo, scrittura generativa di un proprio venire al mondo, fuori dalla dipendenza con chi ci ha dato la vita, per riprendercela e viverla secondo il nostro proprio sguardo.

Del nascere di tanti pensieri ringrazio Lea.
In quanto a lei, alla quale mi sento legata da profonda amicizia, mi piace che sia la sua parola a più precisamente dirla:
Se esistesse un’acqua di sorgente limpida e fangosa, con l’agilità di chi nasce e la lentezza di chi porta il carico di un lungo percorso, mi accontenterei di indicarla se uno chiede chi sono

 

16-03-2011

 

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