6 maggio. Diversamente occupate in sciopero.
Noi non siamo mai spente

 


Che significa per noi scioperare? Bloccare una produzione, un servizio? Disertare un luogo? O dare riconoscibilità di quel blocco e di quell’assenza? E quando si lavora da casa e non si ha un luogo da boicottare, una scrivania da abbandonare agli occhi di qualcuno che possa vederla vuota?

E come? Andare in giro con un cartellone sandwich con su scritte tutte le attività che svolgiamo, comprese quelle che non ci vengono remunerate, oppure tutto quello di cui la precarietà ci priva, in termini di esistenza, non di sola stabilità contrattuale, di diritto al welfare, di progettualità, di senso di sé. Come fare quando si lavora da casa e non si ha un luogo da boicottare, una scrivania da abbandonare agli occhi di qualcuno che possa percepire fisicamente il fastidio di vederla vuota, quando lavorare dalla distanza è un po' come lavorare 'da nessuna parte' e la pressione di dimostrarsi continuamente presente, continuamente produttiva è ancora più insistente, soffocante.
Potremmo fare tesoro di tutte le forme di sciopero che pratichiamo quotidianamente, quando interrompiamo la moltiplicazione degli impegni e degli sforzi richiesti dall'esterno per dedicarci a qualcosa che ha senso per noi e per noi soltanto. Quando lavoriamo a qualcosa che vada oltre la semplice tutela dei diritti acquisiti o la loro estensione, ma proviamo a ri-declinare cos'è lavoro, cos'è diritto, cos'è cittadinanza, cos'è reddito.

Alzare la posta in gioco, è a questo che dovremmo puntare , senza accontentarci delle concessioni che potremmo strappare nell'immediato.

Oggi scioperiamo. Un blog non sarà aggiornato, un giornale non avrà notizie, in un convegno mancherà una voce. Forse la nostra assenza non sarà codificata come sciopero, perché non è sommabile “in quantità” all’assenza di altre nello stesso luogo di lavoro, mentre “in qualità” saranno colleghe e colleghi a sopperire alla nostra mancanza, oppure saremo noi stesse a dover fare doppio lavoro domani.

Il vuoto non si percepisce. Ma il lavoro non è riducibile ad un articolo mancante, ad un’ora di buco per una classe, a un assistente in meno per un anziano, a un centinaio di telefonate non partite da un call center (anche se gli articoli mancanti di tutti i precari lascerebbero a secco centinaia di pagine, le ore di assenza di tutti i supplenti, lavoratori del sociale, operatori telefonici paralizzerebbero letteralmente  scuole, ospedali, call center).

Comunque manca qualcosa. Manchiamo noi. Niente opera di conciliazione sulle tensioni interne all’ufficio, niente suggerimenti al capo sotto pressione, niente consigli alla collega accanto o che lavora da remoto, niente aiuto a chi non riesce a tradurre una frase oppure a darle un senso compiuto. Niente di tutto quel lavoro invisibile che al lavoro portiamo e che non sta nel contratto, né in busta paga: corpi, talenti, relazioni, entusiasmi.

Al lavoro ci stiamo tutte intere e tutti interi. I nostri diritti non possono essere ridotti al compenso per l’articolo scritto o per le singole ore di lavoro prestato o alle provvigioni sui contratti conclusi, semplicemente perché non siamo macchinari sul cui utilizzo le aziende possano accordarsi, puntando al ribasso il prezzo da pagare per ogni ora d’uso, senza alcun onere quando sono spenti.

Noi non siamo mai spente.

Diversamente occupate blog

6-05-2011

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