LESHEM YIHUD: per la unificazione

Note sul sacro femminile nell’ebraismo

di Anna Brawer

1. Leshem Yihud, cioè per la unificazione - di Dio e della Shekhina, il lato femminile e immanente della divinità - è la formula usata nella tradizione cabalistica, e più tardi hassidica, prima di ogni rito, preghiera o gesto spiritualmente significativo. Il mito cabalista risale alla Spagna del XIII secolo, centro importantissimo di cultura ebraica e trova il suo massimo vertice nello Zohar. Gli yihudim (plurale di yihud) sono una parte rituale fondamentale del grande mito cosmico spirituale, ritualità che trova la sua forma piena circa tre secoli dopo a Safed (in Galilea), il nuovo centro di cultura cabalistica dopo la cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel 1492. Il mito di Dio e della Shekhina e la immensa diffusione degli yihudim che trasformarono l’intero corpus rituale ebraico in una serie costantemente ripetuta di riferimenti a Dio e alla Shekhina, istillarono nei credenti Cabalisti, e più tardi tra gli Hassidim dell’Europa orientale, la convinzione che le loro parole e i loro atti avessero una diretta influenza cosmico - mistica sullo stato della Divinità. Niente avrebbe potuto dare agli Ebrei in esilio una più ferma convinzione e sicurezza riguardo al proprio valore religioso e spirituale e al ruolo che avevano nel mondo. Il pronunciare la formula leshem yhud è volto a dedicare il proprio vivere alla unificazione dell’elemento maschile e di quello femminile della divinità, perché il mondo così com’è pare espressione dell’esilio della femminilità di Dio. Si darà così il proprio contributo alla creazione, che nella tradizione ebraica non è vista come qualcosa di compiuto ma come qualcosa che tende verso il compimento e che coinciderà con l’era messianica, lo shalòm, che è insieme pace e interezza, pace data dalla interezza e interezza data dalla pace: insomma il tempo della concordia nella pluralità e nelle differenze, qui, in questa vita, in questo mondo.

L’aver scelto questo titolo riflette la mia profonda convinzione che leshem yhud esprima bene, in formula, quella che oggi mi pare l’unica via di salvezza per il futuro del pianeta e dell’umanità, cioè la rimessa in asse e in equilibrio del principio maschile e di quello femminile.

Parlare in generale del sacro femminile nell’ebraismo è arduo quanto parlare in generale di ebraismo. Richiede quanto meno alcune precisazioni preliminari: caratteristiche dell’ebraismo sono la sua lunga durata, la sua esiguità numerica, il suo essere per lo più sparpagliato in luoghi di esilio, dunque quasi sempre in posizione decentrata e in condizioni di subordinazione e spesso anche di persecuzione. E’ inoltre caratteristica dell’ebraismo che la sua cultura si condensi soprattutto nei periodi di esilio e dispersione. La fissazione del canone biblico, il Talmùd, la Mishnà, la Cabalà sono compilazioni dell’esilio e della sudditanza, sono identità che si fa scrittura, patria sradicata dalla propria terra. Altra caratteristica é l’assenza di una autorità centrale. Le differenze di dottrina che nel cristianesimo hanno portato a scismi tra gli Ebrei hanno portato a gruppi eterodossi, ma sempre interni ad un contenitore flessibile, delimitato solo dalla visione monoteistica e dal Berith, il Patto, a sua volta legato alle diverse letture che il testo biblico e i commentari sollecitano.

Quando gli Ebrei parlano della Bibbia, della Sacra Scrittura, parlano di Miqrà. La radice della parola è qarà, leggere: il Popolo del Libro pensa e vive la scrittura sul versante della ricezione, delle interpretazioni. E’ questa metodologia di lettura (relazione col testo) l’asse stesso della tradizione ebraica, fatta non solo di Bibbia, come spesso erroneamente si pensa, ma di Talmud e di Zohar e di tutti i commenti e i commenti di commenti, fino a oggi: questo insieme crea la forma mentis e la visione del reale. Proprio perché dinamica, la metodologia si intreccia con il vissuto concreto e storico facendosi dunque elaborazione dell’esperienza, anche nella spiegare l’inspiegabile e donare senso all’insopportabile e insieme si fa esplorazione di come l’esperienza vada vissuta, onde collaborare al compimento della creazione. L’ebraismo legge (vive) la Bibbia in una continua proliferazione di sensi, basata sulla esegesi e interpretazione continuamente dinamiche del testo, rigorosamente inalterabile in ogni suo minimo dettaglio e però, posto questo rigore, luogo di infinite letture compresenti e proliferanti nel tempo, a seconda delle necessità dei tempi, dei luoghi e delle persone, in una evoluzione dinamica e creativa costanti che, conservando lungo i secoli e i continenti l’importanza, centralità e inalterabilità del testo come il significante stesso della realtà (si chiami Dio o il cosmo o la vita) ne elabora liberamente e creativamente il significato sì da renderne sempre attuale il messaggio, volto a guidare quel progetto terreno che chiama "compimento della creazione", l’era messianica del shalòm. La tonalità affettiva e umorale della esegesi di matrice ebraica è fondamentalmente esigenza di non fissare mai il significato – che sarebbe idolatria - in quanto il significato è sempre vivo, funzione di un percorso, di un movimento terreno verso la realizzazione del shalòm. Progetto che può essere ed è stato metaforizzato e declinato in visioni laiche e progetti di sapere che però, di quel progetto, conservano la carica etica e costruttiva di futuro, in quanto legati alla vicenda del tempo, al dissolvere l’eternità dei concetti nella storicità dei processi e del divenire, alla dimensione del fare e dell’operare concreto: l’ebraismo ha sempre stabilito un legame profondo che tra la dimensione del pensiero e la dimensione del fare – fin da quel naasè venishmà, faremo e ascolteremo del popolo di fronte al Sinai (si noti: faremo, poi: ascolteremo) – tra la dimensione del corpo e quella dello spirito, tra la concretezza e l’astrazione, tra l’immanente e il trascendente. Il modello di soggetto a cui aspira la Scrittura interpretata dall’insieme di voci è una persona capace di relazione, adulta e paritaria, in cui si equivalgono domanda e offerta, in cui non si è padroni né schiavi, prepotenti né impotenti, un essere che in quanto shalèm può costruire la pace, shalòm. E’ a partire dagli scrittiti biblici, di generazione in generazione costantemente spiegati e interpretati che si sviluppano la cultura e il diritto e si costituisce l’ambiente specifico.

La scelta di aderire a tali fondamenti costituisce l’adesione al Berith, il Patto che lega il Dio di Israele al popolo e il popolo a Dio, in una fondamentale "reciprocità contrattuale". L’ebraismo non richiede la fede ma l’adesione al Patto: vivere secondo le modalità che la Legge prescrive e tali modalità, parte di quelle interpretazioni esegetiche di cui parlavo, sono dette Halachà, dalla radice lech, camminare, che esprime sin dal nome il concetto di qualcosa che cammina, si muove.

Caratteristica dell’ebraismo è infine, ovviamente, l’idea di monoteismo. Il monoteismo è un luogo mentale di convergenza dove la molteplicità del reale converge verso l’unità, l’unicità del vero. El, una delle designazioni del divino significa verso, direzione, alludendo così ad una forma prospettica di modalità di visione, ad un’idea di destinazione, di movimento. A rappresentare graficamente la visione prospettica potremmo disegnare un triangolo con la base sotto e il vertice in alto.

Quando si parla di divinità, fuori dal contesto di preghiera, in genere si dice Hashèm, il Nome: non si dà dunque alcun attributo di genere. Nel contesto sacro invece la Divinità ha molti nomi. Il più sacro, ovviamente, è il tetragramma YHWH. A pronunciarlo poteva essere solo il sommo sacerdote nel tempio di Gerusalemme nel momento di massima sacralità. Con la distruzione del Tempio si è persa la testimonianza della pronuncia, essendo YHWH l’unica parola nella Bibbia senza le vocali. Nella interpretazione acronima la Y sta per l’elemento maschile, la H è l’elemento femminile, la W è il figlio e la seconda H è la figlia. Senza rinunciare mai al concetto monoteistico, il linguaggio include il genere e le generazioni.

Le designazioni grammaticali riferite alla Divinità nella Bibbia sono sempre al maschile, mai però vi sono attributi fisici maschili. Qualora dei segni anatomici siano inscritti nel nome questi sono invariabilmente femminili, come Rachum o Rachaman, da rechem che significa utero, o come Shaddai. Tutte le matriarche di Genesi ad eccezione di Lea sono sterili, così Rachele l’amata da Giacobbe, così Sara l’amata da Abramo, così Rebecca, moglie di Isacco. E’ solo l’intervento di Dio, con il nome di El Shaddai che le fa diventare madri. La benedizione di Giacobbe a Giuseppe in Genesi 49 può forse indicare perchè "E El Shaddai ti benedirà con le benedizioni del cielo sopra, le benedizioni del profondo sotto, benedizioni di seno e utero": Shaddai vuol dire in ebraico seno.

Mi piace l’uso diffusissimo della presenza sullo stipite della porta di casa della mezuzà, un piccolo oggetto fatto di argento o bronzo, marmo o ceramica che contiene al suo interno un rotolo di pergamena su cui è scritta la preghiera fondamentale dell’ebraismo, la professione di fede nel Dio unico, lo Shmà Israel, Ascolta Israele: sopra la mezuzà il più delle volte è scritto proprio Shaddai. E’ uso corrente imprimere con la mano un bacio alla mezuzà ogni volta che si passa la soglia, la porta rappresentando il luogo di passaggio attraverso cui si entra nella vita. Sebbene Shaddai in questo contesto venga generalmente interpretato come acronimo di Shomer Dlatoth Israel, Guardiano delle Porte di Israele, a livello subliminale è alla parte femminile e materna della divinità che si fa omaggio. A livello subliminale se abbiamo scordato la divinità materna, l’importanza e la potenza della madre. Se abbiamo scordato quel segno grafico che affonda nei millenni a significare la porta di accesso alla vita, il triangolo con il vertice in giù che riproduce la forma del pube. Non so immaginare forma più perfetta della stella a sei punte che unisce l’antico segno delle religioni materne con quello rovesciato dove si è persa traccia dell’aspetto materno della divinità, per esprimere in forma grafica il concetto di yihud, di unione di Padre e di Madre, né icona più perfetta a unire alto basso, cielo terra, destra sinistra, e neppure, potendo la stella a sei punte inscrivere e circoscrivere il cerchio all’infinito, saprei trovare forma più perfetta a dire l’uno.

Riassumendo:

  • l’ebraismo è monoteista, la complessità converge verso l’uno

  • l’uno implica sia il maschile che il femminile

  • l’ebraismo è fatto di interpretazioni dei suoi testi e tali interpretazioni sono volte al progetto messianico di shalòm, pace e interezza.

2. Nel suo splendido studio The Hebrew Goddess, Rafael Patai scrive della presenza costante e ininterrotta del culto della Dea canaanea Asherah presso gli ebrei della Bibbia, a partire dall’ingresso in Canaan verso il 1200 a.c. e fino al re Giosia (circa 800 a.c.) che ne rimuove la statua dal tempio di Gerusalemme - dal Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme! - e fa distruggere ogni suo luogo di culto. Mentre mostra l’esistenza del culto e la lotta ingaggiata contro Asherah e gli altri dei da parte dei profeti, la Bibbia non fa menzione della Shekhinà. Il ben documentato studio di Patai mostra però delle metamorfosi interessanti in parallelo alle vicende di Asherah. Nel testo biblico la Shekhinà appare solo come verbo, shakhàn, abitare e indica l’abitare di Dio nella nuvola, nuvola che è la "gloria", cioè luce, energia che scende sul Tabernacolo del deserto che infatti si chiama mishkàn, come poi scenderà nel Tempio di Gerusalemme sul monte Sion. E’ solo con l’esilio che compare il nome Shekhinà.

Scrive la Rabbina Leah Novickin in Encountering the Shekhinah, the Jewish Goddess:

"La Shekhinà è una concezione distintamente giudaica e contiene degli elementi teosofici che si evolsero dopo la distruzione dei grandi templi di Gerusalemme. Finchè gli Ebrei vissero una vita agricola, c’era meno bisogno di definire la Shekhinà come sorgente di tutte le cose in natura. Il processo di definire i suoi attributi – come lo sviluppo della sinagoga e il libro di preghiere – venne con l’esilio degli Ebrei dalla loro terra. La Shekhinà è definita, negli scritti giudaici tradizionali, come "l’aspetto femminile di Dio" o la "presenza" del Dio infinito nel mondo. E’ introdotta nei primi commentari rabbinici come la "immanenza" o "l’abitare" del Dio vivente, il cui ruolo come la forza vitale animatrice della terra è quello di bilanciare la divinità trascendente".

3.Ho avuto la fortuna di crescere in Israele. Il Tempio è distrutto da millenni, così non ho partecipato ai Regalìm, i pellegrinaggi delle tre grandi festività stagionali: Shavuòth per esempio - che nella Bibbia è festa delle primizie e che, nella tradizione rabbinica, è basata su Esodo 19:1, sul fatto cioè che i figli di Israele vennero al Sinai nel terzo mese - è diventata la commemorazione di quando al popolo, ai piedi del Sinai, è stata data la Legge, la Torah.

Spiega Scholem in La Kabbalah e il suo simbolismo: "La prima codificazione della legge religiosa e del rituale ebraico, è riferita quasi esclusivamente alla vita di una società caratterizzata da una produzione sostanzialmente agraria e cerca di sviluppare e ordinare le disposizioni della Torah in rapporto con la vita agraria (disposizioni sulla mietitura e spigolatura, sulle primizie, sull’anno sabbatico)…Ma questa connessione viene progressivamente a mancare con la diaspora degli Ebrei. Proprio i riti che sono fondati su questo rapporto diventano obsoleti poiché le relative prescrizioni della Torah sono considerate come norme che dipendono dal paese, la cui esecuzione – vale a dire - dipende dal soggiorno in Israele, mentre non ha nessuna validità oltre i suoi confini. Così il rito dell’ebraismo acquista nella diaspora la sua forma peculiare, paradossale che si basa sulla sostituzione dell’anno della natura con l’anno della storia…. Il rito naturale si trasforma nel rito storico, che non rispecchia più il ciclo dell’anno naturale ma lo sostituisce con il ricordo storico, che determina in larga misura l’anno liturgico."

Così la Festa delle Primizie diventa festa del Matàn Torah, commemorazione di quando è stata data la legge.

I miei genitori venivano dall’Europa. Mia madre dall’Italia - con un nome spagnolo però - perché i suoi antenati e dunque i miei erano stati scacciati dalla Spagna nel 1492. Mio padre veniva dalla Galizia, Polonia, unico sopravissuto della famiglia sparita, assassinata chissà dove nella Shoà. L’ebraismo diasporico che aveva sostituito il rito naturale col rito storico era di nuovo in terra di Israele. Ho ancora inscritta nella pelle la sensazione sensuale di Shavuòth, quando da scuola partivamo, le bambine vestite di bianco, i bambini con pantaloni blu e camicia bianca e tutti avevamo una coroncina di fiori sulla testa e un cestello di cartoncino bianco con frutti e fiori sulle spalle. Mi è rimasto il ricordo di un profumo inebriante di violacciocche, di frutta, di fiori, delle danze in cerchio e dei canti (salenu al schichmenu, /hevenu bikurìm/ mikòl haaretz baanu/ roshenu aturìm ….– i cestini sulle spalle/ portiamo le primizie / da tutto il paese veniamo/ i capi incoronati…). Certo non avrei saputo dare il nome di Shekhinà a quella sorta di estasi che mi prendeva in mezzo alla sabbia tra i miei compagni nel mare di profumi e di canti sotto il cielo blu.

Scrive Louis Jacobs in The Jewish Religion: a Companion:

"Poiché tutta l’idea di Shavuòth come celebrazione della Torah è uno sviluppo più tardo, non vi sono rituali in quel giorno per esprimere tale evento….Tuttavia, durante i secoli vennero introdotti degli usi. E’ consuetudine mangiare latticini, infatti la Torah è paragonata al latte, poiché nutre sia i molto giovani che i molto vecchi e perché, se tenuto in recipienti d’oro il latte inacidisce – un monito alla studioso di Torah di non inorgoglirsi."

Come mi pare trasparente oggi la catena simbolica e associativa! La sacralità della terra, di cui si santifica con rito solenne la capacità di dare frutti (Shavuòth come ho già detto era uno dei tre grandi pellegrinaggi annuali al Tempio di Gerusalemme), la sacralità della terra e anche il suo essere viva, di qui l’esplicito comandamento che la terra, essere vivente, come gli esseri umani deve avere il suo sabato, sicché ogni sette anni andrà fatta riposare. Non vi si coltiverà nulla.

E’ uso a Shavuòth leggere il libro di Ruth, Ruth la moabita, a cui il canone dà un intero libro della Bibbia che porta il suo nome. Ruth da cui discende David, Ruth da cui quindi, secondo la tradizione, verrà il Messia.

Non avrei saputo dare il nome di Shekhinà a quello che sentivo a Shavuòth semplicemente perché non avevo mai sentito quel nome. Eppure vivevo in Israele e andavo a una scuola moderatamente religiosa. I miei antenati di parte materna venivano dalla Spagna luogo di origine e prima diffusione della Cabalà e mio padre veniva dalla Polonia, terra di Hassidim, dove la vita, quasi sempre miserrima, ogni settimana veniva sollevata dalle miserie e ognuno era immerso nella sua luce dalla presenza della Regina del Sabato...