La storia, l’autobiografia, l’immaginario della nascita

Maria Bacchi


 

Quando nel 1975 il femminismo ha fatto irruzione nella mia vita, ero una giovane e combattiva militante della sinistra radicale molto preoccupata dei rapporti non sempre sereni fra Partito del Lavoro d’Albania e Partito Comunista Cinese e di quelli, difficilissimi da costruire, tra Partito e Masse.
Una vita tutta maiuscola -e, a distanza, anche un po’ ridicola- nella quale la mia intensa vita affettiva e sentimentale doveva restare sullo sfondo dei miei pensieri, come la letteratura, la poesia, la musica e tutto quanto aveva nutrito la mia infanzia e la mia adolescenza. Il Sessantotto aveva prodotto anche qualche ottusità e una certa ignoranza.
Persino la ricerca pedagogica, alla quale ero stata educata e sulla quale avevo studiato, non poteva occuparmi più di tanto: ero una maestra a tempo perso. A scuola mi divertivo, ma l’Orizzonte era un altro, soffiava il Vento dell’Est, l’Oriente era Rosso, e i bambini cinesi un fenomeno più rilevante di quelli italiani.


Ho opposto non poche resistenze alla rivoluzione che il femminismo portava nella mia vita, ma rapidamente la ventata delle donne mi ha scompigliato i pensieri, ha toccato le viscere, ha imposto un disordine travagliato e gioioso.
L’esito immediato è stato l’emergere improvviso di ciò che era latente: il rapporto con la bambina e l’adolescente che ero stata; il bisogno di una solitudine introspettiva che riannodasse i tempi della mia vita e mi rimettesse in rapporto con me stessa. A partire da me: fatale intuizione politica ed epistemologica che ha rivoluzionato vita e saperi.

Le bambine e i bambini con i quali lavoravo non erano più lo svago dall’impegno della rivoluzione come professione, ma soggetti incarnati che mi parlavano con un linguaggio antico e noto; la materia viva e reattiva di un lavoro che diventava scoperta e ricerca. Le loro tracce materiali, le loro parole, l’ordine imprevedibile dei loro discorsi diventavano il nuovo ordine del discorso attorno al quale occorreva costruire una teoria che non si discostasse dalla vita e dai corpi.
Il Movimento di Cooperazione Educativa, la sua strana e magnifica gente, le ‘maestre’ e ‘i maestri’ su cui mi ero formata - Maria Montessori, John Dewey, Jerome Brunner, Makarenko e Vygotslij e, vive e attive, Egle Becchi e Clotilde Pontecorvo, alle quali va ancora tutta la mia gratitudine affettuosa- dovevano incrociare le loro autorevoli voci con quelle delle mie piccole maestre e dei miei piccoli maestri, i miei scolari. Che mi imponevano continue revisioni di ogni assetto teorico e disciplinare. Incominciava il tempo della “danza pedagogica”.

Ho poi incontrato, grazie a Paola Di Cori, la Società italiana delle storiche e, tra tutte le storiche che la abitavano, Emma Baeri, scapigliata e geniale, irridente e sorridente, indisciplinata e colta. Ancora sospinta dal “vento barbaro” che “soffia sui declivi” di Piazza Armerina, galoppava tra i noccioleti della sua infanzia anche quando scriveva pagine coltissime e vivide sul Canonico De Cosmi, che tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’ Ottocento poneva uno sguardo divergente sui sacri canoni della teologia dogmatica e sulla nuova filosofia dell’Illuminismo.
Ed Emma, scrivendo, si infilava nella sua vita e, con geniale impertinenza, gli si immaginava interlocutrice e parente, intrecciando ricerca autobiografica e ricerca storica con la libertà che il femminismo aveva contribuito a consolidare nella sua natura di “storica impostorica”.
Negli anni in cui la nostra amicizia e il nostro dialogo fiorivano entrava nella mia vita Dinushi, nata nel 1986 in Sri Lanka, adottata a pochi mesi da una coppia mantovana, prima bimba di pelle scura a entrare, in anni di esplosione leghista, nella scuolina elementare dell’Alto Mantovano nella quale insegnavo. Fu amore a prima vista. Tutto nella pratica didattica mia e di Elida, la mia collega di Tempo Pieno, era centrato sulla soggettività dei singoli bambini: le loro conoscenze spontanee, il loro immaginario linguistico, storico, spaziale; la loro percezione e la loro conoscenza soggettiva dei fenomeni sociali, del corpo, della nascita, dei generi così come le loro pratiche spontanee di scrittura, di poesia, di musica e d’arte: lì si sarebbe incardinata successivamente la conquista e, se mai, la destrutturazione delle discipline.

La scuola era casa e laboratorio, e tutto poteva fluire e diventare materia di discussioni, spesso interminabili, quasi sempre accuratamente registrate e trascritte dalle maestre per poter restituire ai bambini le loro stesse parole. Dinushi ascoltava molto e molto taceva. La diversità della sua pelle e della sua storia doveva fare i conti con la storia di ognuno dei suoi compagni e delle sue compagne; le traiettorie degli sguardi reciproci non erano sempre benevole. Lei si proteggeva col silenzio e con un suo modo geniale e felino di impadronirsi di tutto quanto la scuola le offriva per costruirsi un suo patrimonio metodologico ed espressivo personale. Teneva, nel tempo libero, una sorta di registro segreto sul quale annotava tutto quanto accadeva a scuola e lo riconvertiva in un suo personale itinerario di ricerca e osservazione su se stessa e sul mondo, con tanto di valutazioni su maestre, genitori e compagni.
Passava anche molte ricreazioni a esplorare la mia borsetta in cerca di tracce di quella vita femminile adulta che andava sempre più strettamente intrecciandosi con la sua. La guardavo divertita: rispettavo il diritto inviolabile alla reciproca curiosità. Quando, alla fine della terza elementare, mi ha regalato il suo registro segreto, mi è parso che il suo magnifico dono mi risarcisse delle mille perquisizioni alle quali mi aveva sottoposto.

Emma entra nella vita della mia classe in quel periodo. Durante una delle sue visite a Mantova viene a conoscere le bambine e i bambini; nasce un’immediata simpatia reciproca, una forte curiosità; si intrecciano domande e racconti sulla vita, sulla storia, sui rapporti tra maschi e femmine, tra umani e gatti. La relazione continua in un fitto scambio epistolare: lei ci invia lettere e fotografie; Catania ormai è uno dei ‘nostri’ luoghi dell’anima, lei ce la racconta e i bambini la disegnano a tinte vivacissime; l’Etna erutta storie e la storica “dai capelli color peperoncino” diventa una figura stabile nelle nostre relazioni ‘sociali’. Dinushi continuerà a scriverle anche dopo che io non sarò più la sua maestra. Al centro della nostra triangolazione dialogica ci sarà il tema della scoperta della vita sentimentale di una preadolescente inquieta e quello dei rapporti fra maschi e femmine.

Ma il problema più urgente di Dinushi era, e per certi versi resta, la sua nascita lontana, da una mamma dalla pelle “cioccolatina” come scriveva lei. Ci abbiamo lavorato con metodo.
Prima di arrivare alla storia vera e propria c’era da attraversare un lungo itinerario sulla storia di ognuno di loro, su quella della nostra classe, sulla storia delle loro famiglie: immaginazione, immaginario, fonti, interrogativi interagivano continuamente producendo un terreno fecondo per la costruzione di un rapporto vitale tra presente e passato.
In prima e in seconda lavoravamo a lungo con bambine e bambini sul loro immaginario di nascita, su quel luogo dell’origine abbandonato nel venire al mondo. La nascita come linea d’ombra, perdita e inizio (cfr. Oltre la linea d’ombra), esilio e conquista. Doppio esilio e doppia conquista, nella storia di Dinushi; doppia avventura per le strade del mondo, la sua.
Quando, poco più di un anno fa, è in procinto di diventare a sua volta mamma, vive un momento di ripensamento globale, per certi versi anche doloroso, della sua vita: il suo corpo di donna e quello della sua mamma di nascita, chissà dove; le sue radici; il tema del sangue e delle ‘eredità di sangue’; il timore dell’inadeguatezza. Come è da sempre nel suo stile, Dinushi trova un modo singolare di elaborare questo nuovo passaggio della sua vita: si rituffa nella sua infanzia, riprende in mano le molte tracce che, fortunatamente, lei, le sue maestre e i suoi genitori avevano conservato e si mette a scrivere di getto una sorta di saggio autobiografico che (ancora un regalo di valore inestimabile) mi dona prima della nascita del bimbo.

Vi leggo, con struggente gratitudine:

La scuola nella costruzione della mia identità è stata quasi come una seconda nascita, quando si nasce infatti si piange, ci si rende conto di essere, si esce allo scoperto, non si è più protetti dal mondo esterno come quando lo si era nel ventre della mamma.

Io stessa, in un testo del novembre del 1992 scrivo:

La mia vita, quella vera è incominciata quando ho cominciato le scuole, perché mi piace studiare e fare la mia vita in pace e scrivere le cose a cui penso molto.

L’incontro con altri bambini ha segnato la presa di coscienza vera e propria con la diversità e con i suoi aspetti più dolorosi, ho scritto

Io sto male con: Diego e Riccardo perché sanno solo prendermi in giro e certe volte sono così arrabbiata che vorrei ritornare nel mio paese e Riccardo me lo ha anche detto di ritornare nel mio paese

Questa rabbia, questo dolore, questa sofferenza è sempre stata ricondotta alla mia pelle e la manifestavo attraverso queste parole:

Io sono diversa dagli altri perché sono nata in Sri Lanka e questo mi disturba un pochino.

Io ho sognato di avere la pelle bianca e mi ha fatto triste, però se ho la pelle cioccolato mi fa valere poco.

Queste esperienze negative, che hanno provocato amarezza e dispiacere, devo però ammettere che non mi hanno fatta rinchiudere in un’incubatrice di silenzio, timidezza e riservatezza, anzi il confronto con i miei compagni mi ha spronata a farmi conoscere ed amare, da questo testo si evince particolarmente:

All’inizio ero timida perché avevo la pelle non uguale agli altri però ho il naso, la bocca e gli occhi, è bellissimo avere la pelle diversa dagli altri.

Ma il ragionamento di Dinushi va oltre. Partendo da se stessa, affronta con lievità, ironia e passione un nodo cruciale nelle politiche identitarie che hanno devastato il Novecento e le guerre del secondo dopoguerra. Scrive:


SANGUE E RADICI

Come mi ha scritto la mia amica Maria in una delle sue lettere, sento anch’ io di avere una mente libera e anticonformista, sarà per questo motivo che io non concepisco tutta questa storia del sangue e delle radici comuni. Sono elementi che ritengo siano stati esasperati nel corso della storia, tanto da diventare cause di guerre e morti atroci.

Ne voglio provare a dare un’interpretazione personale.

Innanzitutto vedo sangue e radici come un’ imposizione, alla fine noi non possiamo scegliere se essere figli di una persona piuttosto che di un’altra, così come non possiamo scegliere le nostre origini e il luogo nel quale siamo nati. Io mi sento in tutto e per tutto cittadina del mondo, sulla carta d’identità sono stata categorizzata come nata in Sri Lanka con cittadinanza italiana, ma posso dire che durante il mio viaggio di nozze sono stata negli Stati Uniti e mi sono sentita straordinariamente figlia della città di New York, dove non ero mai stata e dove non riuscirei mai nemmeno a guidare la mia auto. Ma girare per le strade della Grande Mela mi ha dato la sensazione di essere nata in quel posto e di poterci restare tutta la vita. Questo per dire che noi partiamo con una eredità, ciò che sta prima di noi, ma che dobbiamo andare ben oltre, essendo ciò che ci sentiamo di essere e facendo ciò che ci sentiamo di fare. Nella maggior parte dei casi essere nati in un certo luogo impone determinate tradizioni, una religione, un codice di comportamento, questo impedisce all’individuo di nascere totalmente libero reprimendo un’eventuale cultura personale più originale e creativa.

Il sangue, a mio parere, implicherebbe fin da subito una selezione, una scelta, una preferenza nei confronti di chi, con noi, lo condivide. All’interno della società, gli individui attuano continuamente processi di selezione, si è portati a sentire più vicine le persone che hanno certe caratteristiche caratteriali, con le quali entriamo più in sintonia, con le quali abbiamo maggior feeling e per le quali proviamo stima e fiducia, io scelgo la persona con la quale ho costruito e conseguentemente alimentato il rapporto sulla base di una condivisione reciproca. Scegliere sulla base del sangue persone che nemmeno conosco, che sento distanti, con le quali non ho dialogo e delle quali non ammiro niente non ha il minimo senso.

In virtù di questa selezione, di questa scelta, il sangue porta all’egoismo, cioè non do il mio aiuto, il mio sostegno la mia solidarietà incondizionata a chiunque ne abbia bisogno, non sono più in grado di essere un persona altruista, con lo sguardo proteso nei confronti dell’altro in generale, al contrario creo dei confini, innalzo dei muri, delle barricate, mi rinchiudo nel gruppo di coloro che condivide il mio sangue, i miei geni e non importa che ci siano amore e rispetto.

Sulla base del sangue si nutrono aspettative, per il solo fatto di essere figlio di … devo corrispondere a determinati canoni, per il solo fatto di essere figlio di un bravo musicista o di un imprenditore affermato allora la mia strada dovrebbe essere già segnata ed è per forza quello il percorso che dovrò intraprendere, la mia carriera futura, anche se non so minimamente cosa sia un accordo o non o non mi riescono i conti nemmeno usando la calcolatrice.

Aspettative deleterie che portano a odiare ciò che ci viene imposto, se stessi e la propria famiglia solo per il disgusto che comporta farne parte. A questo punto tanto vale essere figli di nessuno e crescere maturando i propri interessi, vivendo appieno le proprie passioni, cercando autonomamente il proprio percorso attraverso le esperienze vissute senza condizionamenti.


“tanto vale essere figli di nessuno” afferma; ma nella prima parte del suo scritto, dedicato a Leo che deve nascere, Dinushi mostra con chiarezza di non essere e di non volere essere “figlia di nessuno”, elenca con minuzia le madri e i padri elettivi che hanno lasciato segni nella sua vita; costruisce la propria genealogia e da lì parte per proiettarsi come donna nella maternità; con passione, libertà e consapevolezza.


Note informali

Nello scritto faccio riferimento al libro di Emma Baeri, I lumi e il cerchio, Editori Riuniti, 1992.

Ho sviluppato in numerose pubblicazioni le riflessioni sulle mie pratiche pedagogiche e sull’approccio biografico e autobiografico alla storia. Di quanto io, Dinushi le sue compagne e i suoi compagni abbiamo fatto racconto nello scritto Oltre la linea d’ombra. Racconti di nascita fra autobiografia, storia e immaginario, in Scritture bambine, a cura di Egle Becchi e Quinto Antonelli, Laterza, Bari, 1995; e negli articoli Vorrei essere una rosa dolce, un coltello; Scritture di silenzio e La mia vita, quella vera, comparsi sui numeri 23, 28 e 31 della rivista Lapis.

Il testo, Caro Leonardo, di Dinushi Losi è ancora in fase di rielaborazione e ha, a mio parere, tutte le caratteristiche di un libro. Sicuramente meriterebbe di essere pubblicato.

 

9 ottobre 2014

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