Barbara Mapelli, Etiche eccentriche. L'uscio stretto della normalità Rosaura Galbiati
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Preparandomi a parlare di un libro ricco di stimoli, tra cui riflessioni poetiche, inizio in media res con un verso richiamato nel testo, indicativo del contenuto: “Cercheremo un'armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi come due gocce d'acqua”1 Qui l'assoluta capacità del linguaggio poetico di arrivare dritto al punto senza spiegazioni e senza giri di parole, e certo questo frammento di Wislawa Szymborska citato nel libro arriva a segno: cercare un'armonia… la diversità che è, in fondo, sintonia se non addirittura uguaglianza, oppure, secondo una differente interpretazione, un’uguaglianza che non esiste nemmeno tra due gocce d'acqua, che è un miraggio. Trovo la stessa duplice possibilità di interpretazione anche nell’azzeccato sottotitolo del libro. Che eccentrico significhi lontano dal centro, divergente, è abbastanza chiaro, ma in quanto a uscio stretto della normalità mi chiedo: è stretto perché comprime l’individuo o perché l’appartenenza alla cosiddetta normalità in realtà è un accesso così limitato e vincolante da non valere per nessuno, rispetto alle molteplici possibilità dell’esistente in continuo mutamento? Credo che entrambe le interpretazioni siano possibili, ed è bello che ce ne siano altre, che si moltiplichino i significati. Bello, com'è bello questo libro, che non vuol dire facile e forse nemmeno perfetto. Dico bello perché apre a qualcosa di significativo, a una ricerca che fa sentire più speranzosi e forse più felici, a fronte di chiusure progressive che, con il contributo dell’età, sembrano castigare prospettive e aspettative in limiti angusti. Mi succede spesso di appassionarmi solo procedendo in un libro, perché leggere è come entrare in una caverna: prima si vede poco o niente e man mano si rivelano i dettagli mentre si infittiscono i punti di domanda, che magari poi s’illuminano. Succede che, quando accetti di farti domande su un argomento, poi l'argomento ti viene a cercare e non ti lascia facilmente. L'ho già scritto in una breve recensione per il sito “Cassina che legge”, un gruppo di lettura che frequento: questo libro è capace di sciogliere zone irrigidite del pensiero, come fa la mano del terapeuta che sblocca parti anchilosate. So di non aver ancora detto perché e nemmeno sono entrata nel contenuto, ma ci arrivo. Prima vorrei riportare un'espressione letta da qualche parte che mi riconduce al testo, riguarda il “farsi traditori della compattezza etnica”. Non ricordo da dove ho preso questa citazione di Alessandro Raveggi - credo da un articolo sulle migrazioni -, ma l’ho ricondotta ai pensieri che mi frullavano in testa durante la lettura del libro, la prima, perché poi ce n’è stata una seconda e so già che ne seguiranno altre a distanza di tempo. “Traditori della compattezza”, quella che si richiede quando ci si appella alla norma, quando la normalità assurge a legge che indirizza, governa e intanto relega ai margini, e qui entro in tema, lo faccio in maniera soggettiva senza nessuna pretesa di recensire, in un dialogo con me stessa e, a distanza - ma neanche troppa -, con l'autrice e con gli autori. Per i tanti anni di psicoanalisi che mi hanno aiutato a uscire da una fase buia della vita, accolgo con affetto e convinzione molte parole contenute nel testo che spesso suscitano una reazione repulsiva in altri: fragilità, squilibrio, emozione, divergenza, spaesamento, dipendenza, trasformazione personale, interrogazione perpetua, incertezza, transito, fluidità. Ce ne sarebbero ancora, tutte hanno in comune il connotato dell’indeterminatezza, anche di una certa instabilità, così diversa dalle maschere di imperturbabilità e nettezza che fanno sentire “normali” e vorrebbero coprire e perfino negare difficoltà e differenze. Come i libri precedenti di Barbara Mapelli, anche questo propone riflessioni importanti a partire dall'ottica e dalla pratica femminista come capacità critica di pensare e proporre un mondo nuovo. Noi della LUD ci abbiamo creduto. Nella prima parte, “L’imperdonabile femminismo”, l’autrice ne sottolinea un aspetto a volte trascurato: la sua persistenza. Mi convince molto dove si dice che” i veri cambiamenti devono agire nel profondo, nella critica perpetua ai valori e alle credenze che dominano le vite personali e sociali, private e pubbliche”, con la precisazione che il femminismo è un fenomeno così complesso che non può essere chiuso in un unico orizzonte di senso, che continua a rinascere e svilupparsi. Mi persuade ancora di più quando parla della principale virtù del movimento delle donne, la meno dichiarata e forse la più vera: il fatto che realizza ”la parte migliore di sé, la più rivoluzionaria, nell'intimità di ogni donna o persona che la pratichi o cerchi di farlo”. Anche in questo caso mi risuona l'insegnamento psicanalitico per cui “il vero cambiamento è quello che non si vede nell'immediato […] una straordinaria trasformazione dei soggetti che muta le coscienze, l'insieme dei valori e le competenze di lettura del reale”. Non per niente, la pratica dell’inconscio che si era diffusa nella seconda metà degli anni ‘70 si era concentrata su un lavoro di trasformazione e liberazione di sé stessi attraverso l'impegno narrativo e di interrogazione profonda nei gruppi di autocoscienza. Penso proprio che quell’esperienza prima, e la psicanalisi poi, abbiano lasciato una traccia profonda e, soprattutto, mi hanno convinto che la vita è una specie di laboratorio dove ci si trova alle prese con sempre nuove prove ed esperimenti, anche dai risultati spiazzanti. Chi si sente arrivato e pensa di saper tutto, credo che rischi la supponenza. Vorrei sottolineare ancora un punto di questa prima parte, dove si ricorda che gli orientamenti sessuali non binari e i transiti di genere, benché non più classificabili come patologie e parzialmente riconosciuti, vedono il perdurare di atteggiamenti ostili. E dice Barbara che è proprio il contatto con la diversità - così è successo a lei - che avvia il pensiero di sé e della propria biografia “disseminata di scelte spesso dettate dall’adesione alle norme di genere, ai pregiudizi che si sono fatti regole riconosciute nel vivere comune solo per la loro pervasività, dovuta a ripetizione”. Ancora una volta un richiamo alla necessità del pensiero critico, dell’apertura. Nella parte seconda “Normati e normali”, si entra più a fondo nel tema della supposta normalità che di sicuro non abitua a individuare aspetti autentici di vissuti, relazioni e contesti, ma trova piuttosto la sua patente di verità nella continua ripetizione e tendenza a costruire una società di persone “perbene”. Ricordo che questa parola usata in famiglia mi infastidiva fin da bambina, forse ora capisco perché, capisco che norma e normalità hanno una storia, con caratteristiche di ambiguità che ancora si impongono nel contemporaneo, spesso oltre i limiti della nostra consapevolezza. Il ragionamento continua passando dai concetti di inclusione - secondo Barbara residuo del pensiero colonialista - di nominati e di nominanti, coloro cioè che ritenendosi normali etichettano le persone con un'unica caratteristica che li descrive per intero: l'omosessuale, l'autistico, il neuropatico… L'idea mi richiama il libro “Identità e violenza”2 di Amartya Sen, il quale sosteneva il concetto di identità multipla per ogni persona e mi aveva convinta nel periodo in cui si faceva un gran parlare di identità, razza, nazione, temi dibattuti e, come al solito, oppositivi e divisivi. Diffidavo della categoria di identità, allora molto diffusa, che aveva la pretesa di definire in modo irrevocabile un individuo o un gruppo; io la percepivo come una sorta di trappola e sentivo che era invece fondamentale prendere atto di “possedere molte distinte affiliazioni” e di essere “persone diversamente differenti”3, non uniformate in un unico gruppo compatto. Inoltre, nel libro si dimostrava che la presunta identità univoca conduce spesso alla violenza - come era esplicitato nel titolo - e la storia dei conflitti religiosi ed etnici lo dimostra, mentre oggi difendere l’identità nazionale insieme ai confini diventa un pretesto per non accogliere. Il libro, soprattutto nella terza parte “Etiche eccentriche” invita alla perplessità come pratica virtuosa e a rimanere sulla soglia in un atteggiamento di ricerca che non prevede approdi certi e conclusioni definitive. Per me molto accattivante è dove si parla di immaginazione come risorsa per la vita, come abilità e pratica che mette insieme esperienze e pensiero in “un dialogo intimo con sé, ma che può aprire alla trasformazione, a passaggi di letture del mondo, delle situazioni e delle persone più veritiere e complesse”. Un'altra parola cardine è attenzione e non manca una breve riflessione sul linguaggio che deve mostrarsi attento a ogni diversità e richiede di assumersi la responsabilità etica delle parole. Questa parte del libro si concentra sul concetto di vita morale che, come sostiene Laura Boella, “inizia molto prima della volontarietà e dell'obbedienza a una norma”4. La morale prima della morale è una delle tante locuzioni in corsivo nel libro che hanno un loro fascino e una loro pregnanza, coniati da Barbara Mapelli o mutuati da altre pensatrici, sono un condensato di pensiero. Oltre a quelli già richiamati, aggiungerei testimone modesta - per indicare il pensiero critico rispettoso e dialogante che non giudica - il più di due, l'eterosessualità impensata, la libertà situata, tutti termini diffusamente spiegati e ripresi poi nelle conclusioni. I tre contributi di Giovanni Burgio, Mauro Muscio e Claudio Nader che inframmezzano il libro alternandosi alla scrittura dell’autrice, sono molto importanti; sono stati scelti in una logica di arricchimento e ancora, coerentemente, come attenzione alla pluralità dei punti di vista. I tre uomini si occupano a diverso titolo di sessualità e di questioni di genere, ognuno esprime in modo differente la maschilità in dialogo con il femminismo, rispetto alla norma eterosessuale, al binarismo e all'essere minoranza. Mi fermo qui, ma potrei continuare perché gli apporti e gli incroci con le riflessioni che aprono porte sono davvero tanti, e queste porte ne aprono sempre di nuove in quella “Continua ricerca” che dà il titolo all'ultimo capitolo del libro. Ho iniziato con Wislawa Szymborska e finisco citando un suo frammento poetico molto noto: “Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte che ho dato”5. Mi sembra che anche queste parole segnalino come, di fronte alla complessità, il modo più autentico sia riconoscere la propria parzialità nelle risposte che si possono offrire: una umiltà intellettuale che accetta la vastità dell’infinito indagare.
Rosaura Galbiati, 29 agosto 2025
1 Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Adelphi 2009 2 Amartya Sen, “Identità e violenza”, Laterza 2006 3 ibidem 4 Laura Boella, Neuroetica. La morale prima della morale, Raffaello Cortina 2007 5 Wyslawa Szimborska, Appello allo Yeti,1957 edizione italiana Scheiwiller 2005
Barbara Mapelli, Etiche eccentriche. L'uscio stretto della normalità prefazione di Micaela Castiglioni con scritti di Giuseppe Burgio, Mauro Muscio, Claudio Nader ETS, 2025, pagg158 € 17
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