Nicoletta Buonapace D’ora in ora

di Daniela Pastor

 

 

Mi emoziona presentare la nuova raccolta di poesie di un’amica e aver scelto di pormi in modo diverso dal ruolo esercitato per molto tempo. Solo da un mese, infatti, sono in pensione dalla scuola, e per anni e a tante generazioni di ragazzi ho presentato poesie, ma seguendo percorsi noti di critica e di interpretazione. Penso di non essere mai stata ripetitiva, però, perché gli studenti erano diversi, ed io desideravo subito sentire se e come la poesia “fosse arrivata”, che cosa risuonasse loro dentro. Verso l’opera di Nicoletta mi sono posta io come una studente, una corsista della Lud, perché lo sono stata per tanti anni, e qui ho ascoltato le altre donne, ho letto testi, li ho fatti risuonare in me, ne ho scritti. Introdurre la raccolta “D’ora in ora” ha significato, quindi, ripensare anche alla mia storia di corsista all’Università delle donne. Così, mi sono ricordata di aver conosciuto la scrittura di Nicoletta almeno quindici anni prima di conoscere lei di persona, quando mi confrontai con un suo articolo pubblicato sulla rivista Lapis e proposto da Lea Melandri in un corso sulla scrittura di esperienza, nel febbraio-marzo ‘91; riprendendolo dopo tanto tempo, e dopo la lettura delle sue due ultime raccolte poetiche, vi ho ritrovato nuclei tematici di queste liriche.

Di questo testo, intitolato “Scrivere è ricordarsi di sé” , riporterò, quindi, alcune parti (e altre le riassumerò) che ho utilizzato come chiave di lettura della sua poesia.

A volte penso che la cosa più difficile per le donne sia riuscire a basarsi sulla propria voce interiore, darvi credibilità, esprimerla, scriveva Nicoletta, voce che ha il coraggio di associare ad immagini di caos informe, particolare confusione, nelle quali cerca però una configurazione nuova, un disegno, un significato. L’autrice si premura subito di precisarci di non identificare vita interiore con privatezza, soliloquio, solitudine nelle quattro mura di una casa, ma, come aveva segnalato poi Lea Melandri nel commento al testo, con il tessuto di emozioni, di pensieri, più vicino all’esperienza, che è anche, sempre, esperienza sensibile con interlocutore il corpo, la fisicità del nostro essere. La scrittura viaggia quindi in un labirinto, con tutte le sue ambiguità, perché da una parte scrivere è un segreto, ma c’è anche l’aspirazione a scrivere come respirando, spontaneamente, tranquillamente. In fondo, di che cosa si parla?- si domandava Nicoletta- di gente che si incontra, di cose che si vedono, di realtà interiori, di sogni … un mondo percepito però attraverso la realtà di tutto il proprio essere, e non importa se tale unità sia qualcosa di simile ad una forma non ancora compiuta. E in questo atteggiamento di ricerca di possibili significati, in questo labirinto, lei confessava di avere un rapporto contorto con le parole:

a volte, una possibilità di contatto, a volte, strane entità dagli effetti poco controllabili. Ci si può arrestare, di fronte a una parola, come sull’orlo di un dirupo. Quella sensazione che dietro ci sia sempre qualcosa di inespresso, o il significato comunemente dato sfuggisse d’un tratto. E’ come se mancasse la terra sotto i piedi, il tentativo di immaginare, attraverso il ricordo di certe esperienze, quel che forse una parola poteva aver detto. Una scrittura, quindi, che privilegia la notte al giorno, che privilegia il piacere del silenzio, del segreto, per dar voce però a quello che ha attraversato la vita quotidiana.

Nelle liriche iniziali delle due ultime raccolte di poesie di Nicoletta ho trovato versi che mi richiamano tali riflessioni sulla scrittura e in particolare la difficile relazione con le parole. Ecco: tutto da disimparare /mute lettere di sogni soltanto /(non ricordare, non decifrare)… Necessità è abbandonare/ ogni lingua … Nessuno mai ha deposto lo strumento interno che m’intona … al fondo dell’essere, nella prima poesia di Come l’ombra di una nuvola, e nelle successive: Ci sono movenze che soltanto il silenzio anima/l’esitare sull’orlo della tenerezza … le prime parole saranno allora occhi e un gelo/ la prima parola sarà smarrirsi …. Pellegrina dissemino tracce, inconsapevole/ come un respiro- indugio sulla soglia di un pensiero/ nella mente di chi cammina …. e tutto ascoltare, tutto attraversare … Così risuonano parole allo stesso modo d’una rotta/ d’un orizzonte invisibile nel buio privo di stelle/… E non ho mai saputo dire dove nasce una parola /ma seguirla questo sì risalendo correnti d’ombra/ memoria di sillabe nella cassa armonica del corpo.

Benché Nicoletta premetta a Incompiuto requiem, la seconda sezione di quest’ultima raccolta, un’osservazione di Saramago, Che gesto, che parola. Non so, si muore di non averla detta, di non averlo fatto, è di questo che si muore … e inizi proprio D’ora in ora con Impervie lingue d’incerta mancanza/mi conducono a stranite distanze … e in un’altra lirica “ Ascolto un sillabare indifferente”… e ancora fino all’ultimo inciampo di sillabe … ora è solitudine più grande/d’ora in ora un discendere/nell’esattezza del silenzio, mi sembra però che sia il canto nuovo stanato dall’oscurità la novità di D’ora in ora, che introduce l’altro polo della comunicazione già presente nel pezzo su Lapis:

Anche nel più grande labirinto può esistere una chiarezza di fondo che è solo, appunto, seguire la propria voce. Ma è anche vero che la immagino sempre come un’uscita da sé e una consegna agli altri, alle altre ….Nella scrittura ho sempre avuto bisogno di pensare che ci fosse almeno una a comprendermi, una che mi comprende come se fosse me.

E’ la stessa Nicoletta, poi, a citare Simon Weil “ La gioia è il contatto con il mondo”, mentre a Lea Melandri tale osservazione ricordava quell’ essere ascoltata come s’io sognassi di Sibilla Aleramo.

 

Nella precedente raccolta l’io poetico era “sola come l’ombra di una nuvola sulla terra” ; l’altra donna, presente solo in due liriche, era solo un rimpianto : quel tuo sorriso, il viso, il corpo che vibrava d’allegria, il tuo sguardo che mi sapeva erano quel che mi manca, quel che non vedrò più. Nelle altre poesie c’era una solitudine direi quasi eroica di fronte alla natura, ma non quella del pastore errante leopardiano che interroga la luna indifferente alla sua infelicità.

Sognavo la luna appesa al mio polso sottile solo/ per rendere meglio il battito trasparente del tempo/ e rotolare piano sul corpo della terraDi un torrente impetuoso che scendeva, il suo respiro d’acqua confortava il mio silenzio. E’ una natura, quindi, con la quale Nicoletta cerca un legame, come già nel pezzo su Lapis -Posso guardare per ore un bel paesaggio, e tutti i mutamenti di colore che fanno il cielo e il mare. Posso ascoltarlo il mare, fino a interiorizzare quel suono pacifico che fa la risacca in un giorno senza vento. E potrebbe essere vero che il mio corpo ricorda il battito regolare del cuore di mia madre , ma questa è una memoria della carne di cui non so nulla … ma in fondo non è importante. Importante è quella pace che provo realmente e che può conoscere solo chi si è abbandonato a quel tipo di ascolto. Un certo atteggiamento contemplativo è per me la sola fonte di conoscenza che sento venire dal corpo e dalla mente finalmente non separati.-

 

Nella raccolta D’ora in ora, invece, si avverte molto forte la presenza dell’altra, dell’amata che ha dissepolto il silenzio nella voce, dissoda parole perché diano frutto … parole, respiri spaccano il gheriglio … ha ricomposto rovine d’illusioni … con un corpo che sparge un odore di aprile, ricorda le dune fiorite i gigli aperti . E,’ infatti, soprattutto con il corpo della donna che anche la natura appare diversa dalla raccolta precedente, perché la presenza di lei stabilisce nuove relazioni fra aria, acqua, terra. Nicoletta Introduce quindi un proprio spazio visionario che continuamente si confronta e si sovrappone con il reale.

E così è una chiglia insabbiata/la luna sulla riva distesa/e una donna drago danza/… intesse reti di desiderio/ tra le maglie cuce vele/ fiorite d’anemoni rossi/ e cavallucci marini/ e un pugno d’ossa. … Di lei ho presagito le segrete correnti /l’intrepida affinità con le mante alate/la trasognata tenerezza d’una marea/ di pensieri delfini dalla spuma chiara ….Partorisce il mare, e il seno e le braccia … La voce canta un mormorìo di sassolini …. Il suo corpo è una grotta d’azzurrità. Nicoletta ci sorprende sempre, non si sa mai che cosa s’incontrerà a metà di un verso, perché predilige le antitesi, gli ossimori, le sinestesie: così le pinete sono azzurre, nel sole uno schianto bianco, la luce risuona nel sangue, le nuvole contano storie, ma sono anche cieche nel buio, paura d’uccello di passo, un vecchio lupo traccia il sentiero, azzanna la strada, strappa la mano.


In Scrivere è ricordarsi di sé si alludeva all’ intelligenza del corpo:

quello che percepiamo continuamente è la modificazione del vivere nel tempo, non importa se con variazioni micro o macrospiche, rapide o lente. Intelligenza del corpo coincida con il senso di sé. Scrivere è anche il tentativo di immaginare, attraverso il ricordo di certe esperienze, quel che forse una parola poteva aver detto. Se c’è una storia riguarda anche questo: poter riprendere il senso esatto di quel che si è vissuto.

E così l’amante è colei che svelava i sentieri d’infanzia, recitava filastrocche antiche, mescolando miele di sillabe, catturavi le parole dei sogni ( donna o madre, ci chiediamo)? Come scrivevo sopra, Nicoletta mi sorprende sempre: quando sembra abbandonarsi a quella mansuetudine animale in me, che “stana dall’oscurità un canto nuovo/… alle tue labbra dischiuse dal desiderio/ che pronunciavano una sapienza di pace/… avere trovato una via quindi, che l’incontro con l’altra sia anche uno svelamento di verità, una sorta di ricerca dell’anello che non tiene di Montale , ecco che riprende il labirinto, la vertigine, anche nella stessa lirica, per cui posso intuire che nel respiro è il principio del vento/.. un tepore di linfa mi custodisce, che gli occhi di lei siano un colpo d’ali di iridi azzurre, e poi, nei versi immediatamente successivi, cogliere lo smarrimento di chi ammette che il tuo sguardo è la sola corrente che ancora non so discendere … di parlare parole cieche nel sonno/ a ondate sbattono nei sogni. E’ un’immagine poetica forte, per esempio, il ricordo di una lei entrata portando un vago profumo di pioggia, che ricorda l’ingresso della ragazzina nella casa dei doganieri di Montale, ma là, nella solitudine di chi è rimasto solo a ricordare, c’era la speranza di luce (il varco è qui?) mentre Nicoletta sembra volere espressamente chiudere con le suggestioni della poesia precedente (il nido vuoto di Pascoli, le vaghe stelle di Leopardi), per affermare invece la solitudine più grande, d’ora in ora discendere nell’esattezza del silenzio. O ancora Tra i tuoi pensieri ho incontrato /paesaggi di brine rosse gemme rosse/ nel buio calmo delle tue mani/ho posato una risacca di venti … ma conclude con una me straniera a me stessa /mi guardava con i tuoi occhi/…. Ed è un dono inquieto quella strada celata dentro di me, ancora circonfusa /dai bagliori dell’attesa.

Cogliamo tali antitesi anche nel riprendere il senso esatto di quel che si è vissuto, e se, quindi, si ricorda che chi mi educava aveva incanti e parole , si precisa subito dopo che sgranava l’astuzia di un gelido amore … consegnava il mio corpo alla follia./ Non volevo che essere me stessa/ non volevo che una chiara verità … Scrivevo per me un canto di figlia / fin dall’inizio sigillato dal dolore.

Ho già scritto che la poesia di Nicoletta mi sorprende, anche stilisticamente, ma la sorpresa più forte è stata Incompiuto requiem, l’ultima sezione. Nella raccolta Come l’ombra di una nuvola scriveva Non sarò la voce salmodiante /d’un impossibile Divina … un dio ti ha gettato in un moto di disgregazione, un dolore di finitudine insospettata… c’è un dio che danza, maschera di cinghiale … Pan è morto e tutta la terra è in lutto, e anche in D’ora in ora ha precisato che Dio non é il Verbo (Trama d’oscurità d’un dio/ che non conosce parole) ma chiude con un requiem. Dovrebbe essere un canto religioso, ma ci accorgiamo subito che “qualcosa non va”. Mancano alcune parti del requiem classico, e poi il titolo: anche se agli ossimori di Nicoletta sono abituata, requiem di per se stesso evoca cose compiute, finite, e quindi riesce ancora a sconcertarmi questa associazione con l’incompiuto. E poi il kyrie, scritto senza la y greca, è un indicatore che siamo in un altro tipo di canto, in cui non c’è nulla di religioso, ma la negazione di uno svelamento, di una verità. Ritorna quell’eroismo della solitudine nel labirinto della raccolta precedente. All’amata con cui ingenuamente si credeva di trionfare su questa stagione tremante, si dice: sapessi come abbuia il mattino. Il kirie nel requiem classico, viene solo intonato e reiterato..qui invece ci sono lunghe strofe, come un rapper che ci fa viaggiare in una terra desolata, in un paesaggio disumano, allucinato, nell’interminabile ventricolo di macchine/contorcersi d’umane costruzioni/… voci sperdute nel rumore del tempo/… senza grazia mi muove non so quale spettro/aver parola mi sembra un dono di condanna. Se confrontiamo poi il Dies irae con quello classico, vediamo il capovolgimento: in questo nel giorno del giudizio tutto quello che era nascosto apparirà, per Nicoletta, invece, nulla di ciò che è nascosto si manifesta.

Ed io che ero partita in questo percorso personale di analisi della scrittura di Nicoletta da un testo intitolato Scrivere è ricordarsi di sé, mi ritrovo invece nell’oblio: Ho perso il tuo nome che era tutti i nomi/non ricordo il bozzolo di ieri … C’è, in questa poesia, Rex tremendae, un esplicito richiamo a Montale con gli ossi di seppia, e anche con Non chiederci la parola, ma Montale nominava il male di vivere (rivo strozzato, cavallo stramazzato ecc), Nicoletta va ancora più in là, in quest’ansia agghiacciata inerme non so dire il male di vivere. In questo mondo, anzi, in questa fine del mondo senza Dio, continua il ribaltamento della messa da requiem, in cui il recordare è il sedersi alla destra di Dio, l’invocazione a non perdere il cammino … mentre qui si conclude con il ricordo senza rimorso/ di me ignaro motivo di una via. Tutte le immagini dell’ultima lirica ci evocano un percorso difficile, allucinato; vento alla schiena, schiumare di libeccio, l’urto da risalire, il sangue alle ginocchia scala ripida, e questo confondersi cielo, terra, ricordi, interno esterno, stelle nascoste tra i sassi, buca del polipo e della murena, collana di universi levigati da far pendere sopra il letto

Ma, paradossalmente, non mi sembra di essere arrivata proprio agli antipodi in questa visione con ciò che aveva scritto Nicoletta in anni lontani sul suo rapporto contemplativo con la natura, perché mi pare che solo chi possa guardare per ore e ore un paesaggio, cogliere tutti i mutamenti di colore del mare, ascoltarlo fino ad interiorizzarlo, può permettersi poi di accostare alghe seccate al sole con le stelle nascoste sotto i sassi …. Una mia spiegazione al perché non sia compiuto questo requiem la ritrovo ancora una volta nello scritto di Lapis: A volte è solo la possibilità di esistenza di un sogno, che poi non è neppure irreale, a dare un sentimento di continuità tra sé e sé. Cosa c’è di irreale nella difesa della possibilità di continuare ad amare la vita?

 

Bibliografia

Nicoletta Buonapace, Come l’ombra di una nuvola, Torino 2008

Nicoletta Buonapace, D’ora in ora, Livorno, 2014

Nicoletta Buonapace, Icara, Castalia Edizioni, 1984

Nicoletta Buonapace, Scrivere è ricordarsi di sé, in Le scritture d’esperienza delle donne tra finzione letteraria e inizio di una storia propria, dispensa a cura della Lud di un corso tenuto da Lea Melandri nel 1990.


Nicoletta Buonapace
D’ora in ora
Edizioni Erasmo, Livorno,
settembre 2014, pag.62, € 5,9


21-11-2014


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