Una ennesima riflessione sul caso Eluana


di Carlo Alberto Defanti*

 

 

Ho trascorso una decina di giorni lontano dall’Italia ed ero convinto che la tregua richiesta alla stampa dalla famiglia Englaro sarebbe stata rispettata per lo meno durante le feste di fine anno, ma tornando vedo bene che non è stato così: anzi alcuni hanno temuto che la famiglia avrebbe approfittato delle festività per realizzare di soppiatto il trasferimento di Eluana  e procedere alla sospensione della nutrizione artificiale, ovvero – secondo gli avversari più intransigenti come i miei colleghi Gigli, cui mi lega malgrado tutto un antico rapporto di amicizia, e Dolce, che non ho mai avuto occasione di incontrare – alla messa a morte per fame e per sete, ovviamente una morte atroce, crudele e accompagnata da indicibili tormenti, di una persona con grave disabilità il cui futuro è ancora incerto e che magari potrebbe svegliarsi da un momento all’altro stupendoci tutti e dimostrando la fallacia delle nostre conoscenze e punendo la nostra hybris di laici e scientisti impenitenti.
Debbo dire che invidio le certezze che molti hanno o fan mostra di avere. Dal canto mio, ne ho una sola e tenue: credo che l’unico o, forse meglio, il meno fallace strumento di cui disponiamo per navigare in questo mondo complicato è – come canta Figaro nelle Nozze – “la debole ragion”. Cerco di riflettere e di agire con prudenza in modo coerente con le conclusioni cui sono pervenuto, spiegando quel che faccio e perché. Nei miei scritti degli ultimi anni sono contenuti sia una descrizione abbastanza dettagliata, anche se non tecnica, della situazione clinica di Eluana sia i motivi per i quali già nel lontano 1996 avevo formulato una prognosi di irreversibilità. Non sono tornato nei mesi scorsi se non con poche battute sulle critiche di carattere tecnico mossemi da Gigli e da Dolce che, per senza citarmi esplicitamente (nel caso di Gigli), sostengono che non avrei dovuto pronunciarmi in quel senso, che avrei trascurato fatti fondamentali.
Una per tutte: la “scoperta” da parte di Dolce della parziale conservazione del riflesso di deglutizione, scoperta che egli aveva fatto già un anno fa nel corso della sua unica visita ad Eluana (autorizzata dal padre ma avvenuta, credo, senza consultarne la voluminosissima cartella clinica). E in questi ultimi giorni, una scoperta ulteriore (ma perché queste “scoperte” vengono comunicate solo ora?): Eluana non è in stato vegetativo bensì in stato di minima coscienza ed è in grado di provare dolore (NB: sarebbe molto interessante che Dolce ci desse la prova delle sue affermazioni!).
Mi si rimprovera che avrei dovuto sottoporre Eluana a sofisticati esami di neuroimaging che, incidentalmente, non mi risulta che gruppi di ricerca italiani al momento stiano eseguendo. Non intendo dire che non ci siano le attrezzature per questo o che manchino persone competenti in grado di eseguirli, ma semplicemente che, per quel che ne so e per quel che appare nella letteratura scientifica internazionale, nessun gruppo italiano sta lavorando su questo. Ma certo, avrei potuto organizzare il trasferimento di Eluana a Cambridge oppure a Liegi, una cosa complicata ma fattibile.
Come è ovvio, essendo io neurologo, la cosa non mi sarebbe dispiaciuta. Sono convinto che c’è molto da scoprire nell’ambito dei disturbi della coscienza e che le nuove metodiche produrranno avanzamenti importanti sia sul piano conoscitivo (probabilmente non risolveranno ma comunque contribuiranno a chiarire uno dei problemi più affascinanti che esistano, il problema dei rapporti fra corpo e mente), sia su quello pratico, offrendoci criteri di prognosi meno grossolani degli attuali, incentrati sul tempo trascorso dopo l’insulto cerebrale. Nella situazione concreta di Eluana però, dopo un tempo di osservazione così prolungato, i test (che per ora non appartengono alla pratica clinica ma alla ricerca) non hanno alcuna probabilità di aggiungere nulla di utile e per questo non li ho richiesti e sono per una volta in pace con la mia coscienza, ciò che non mi accade spesso. Tra parentesi, Eluana è stata ricoverata per due volte nel mio reparto (nel 1996 e nel 2002), è stata osservata insieme a me da molti colleghi neurologi e  neurofisiologi e peraltro la diagnosi di stato vegetativo era stata posta molto prima che io la conoscessi e dopo un lunghissimo periodi di tentativi di riabilitazione.
I due colleghi su citati mi criticano per non aver tentato le vie naturali per l’alimentazione sfruttando i residui (e quanto mai imperfetti) automatismi di deglutizione, ma tutti i neurologi sanno bene, e mi conforta in ciò il parere del Presidente della SINPE (Società  italiana per la nutrizione enterale e parenterale), che non sarebbero in grado di fornire un apporto nutritivo sufficiente e che esporrebbero Eluana a gravi rischi di broncopolmonite ab ingestis.
In realtà, come è ben chiaro, il vero problema non è di natura scientifica e  le osservazioni dei colleghi neurologi hanno sin dall’inizio avuto un carattere meramente strumentale, cioè sono stati tentativi di bloccare con qualsiasi mezzo l’attuazione del decreto della Corte di appello di Milano. Il vero problema è, naturalmente, di natura morale: la questione di fondo è se il bene-vita sia o non disponibile. Il filosofo e caro amico Maurizio Mori, in un denso libretto sul caso Englaro apparso assai tempestivamente ma lontanissimo dall’essere un instant book, in quanto condensa oltre un ventennio di riflessione, sostiene – e il comportamento degli avversari sembra dargli ragione – che in questo caso cruciale è in gioco un intero paradigma morale (D’Agostino parlerebbe piuttosto di un modello antropologico), che egli chiama ippocratico, fondato sul principio di sacralità della vita (umana), inteso non come semplice divieto di uccidere, ma come rispetto per il finalismo intrinseco e come soggezione di fronte al mistero della vita. Egli sostiene che questo paradigma – che fa risalire ad una antica religiosità precristiana – ha sotteso la pratica medica da due millenni a questa parte, ma che ora viene messo in crisi dall’emergenza di un nuovo paradigma, che Mori chiama provvisoriamente bioetico, nel quale non si riconosce il carattere sacrale/misterioso della vita umana, si distingue tra vita biologica e vita vissuta o biografica e si nega il carattere finalistico della natura.
Non è questa la sede per discutere in modo approfondito di questi temi difficili. La forza e la passione con cui i nostri avversari si battono prova quanto essi ritengano essenziale evitare una sconfitta che di fatto è già avvenuta. Essi paventano che la loro  sconfitta faccia perdere alla medicina la sua dignità, il suo antico ruolo quasi-sacerdotale, apra la porta ad ogni abuso, in particolare alla temutissima eutanasia (anzi, attuare il decreto della Corte sarebbe già un gesto eutanasico) nonché alla non meno temuta eugenica. Non si rendono conto che la loro difesa di una posizione, pur antica e rispettabile, una volta trasposta nel contesto scientifico e politico odierno, è causa del tanto deprecato (a parole) accanimento terapeutico e costituisce  grave ostacolo per lo sviluppo di una medicina attenta alla qualità della vita e al valore, questo sì irrinunciabile, della libertà di ogni cittadino di una società retta da un ordinamento liberale e democratico.

*Carlo Alberto Defanti, medico di Eluana, primario neurologo emerito ospedale di Niguarda, milano.

29-01-09