Gianna Beltrami

Gianna ci ha lasciate il 17 Aprile 2021

La ricordiamo con due scritti che ha prodotto per il corso di Scrittura del gruppo Ricordi

 

Incontri impossibili

(Una giornata lenta e monotona ma poi verso sera…)

Inizialmente avevo scelto per un incontro impossibile il personaggio Berlusconi, ma ho cambiato idea. Perché ritengo impossibile un incontro con questa persona? Certo non ho alcuna propensione verso di lui che mi appare disgustoso e poi come potrei incontrarlo, nella realtà, se gira in aereo o in macchina blu o sepolto tra i 40 gorilla della sua scorta? Eppure…

Lo stimolo mi era venuto guardando la TV e sentendo che il cavalier (macché cavaliere) Silvio Berlusconi si era comprato un’altra “ casetta”, la bellissima villa settecentesca “Gernetto” a Lesmo. Avevo avuto un moto di rabbia: il Gernetto mi aveva ospitato durante la guerra nel collegio delle suore Marcelline che erano sfollate lì. Su Berlusconi avevo buttato giù una bella pagina che poi, guarda caso, sono riuscita a “smarrire” nel computer e alla fine avevo già deciso di non scrivere più nulla e di fare l’uditrice ai nostri incontri quando improvvisamente mi colpì il personaggio scelto da Rosanna, la monaca di Monza.

 

Mi sono sposata nello stesso locale di palazzo Marino dove lei Marianna De Leyla è nata, nel dicembre 1575. La famiglia De Leyla era ricca e potente, palazzo Marino apparteneva alla madre, Virginia Marino. Marianna (la monaca si chiamava così ma Alessandro Manzoni l’ha chiamata Gertrude) vagiva nella sua culla tutta trine e merletti e sembrava lo specchio della fortuna: titolata, bella, ricca e sarebbe anche diventata famosa seppure per fatti negativi. Sua madre era una ricca vedova con diversi figli e la nascita di Marianna dal secondo matrimonio non l’ha molto allietata ma, a quei tempi, nelle famiglie ricche i figli se li succhiava il personale di servizio. A un anno le muore la madre di peste (mica roba da ridere) e il padre subito volò in Spagna per risposarsi e scordarsi del tutto la povera (nel senso di sventurata come la definisce anche il Manzoni) figlioletta che intanto era caduta nelle grinfie della zia paterna, una marchesa che ci teneva ai conquibus della nipote e infatti se li cuccò. Così Marianna a 16 anni fu spedita in convento senza dote ma con la puzza sotto il naso che le veniva dalle sue nobili origini e infatti in convento la chiamavano “signora” invece che suor Virginia.

Fino a quel momento aveva perso solo potere ricchezza e libertà, il che se vogliamo non è poco.

Ma come cantava Laura Betti nella sua canzone “la fortuna mai m’abbandona” dove elencava i suoi dolori, i mali per Virginia non finirono lì: il monastero di Monza dove stava in clausura confinava col palazzo di un nobile signorotto Gianpaolo Osio che il Manzoni chiamerà Egidio. Questo Osio era uno sciupafemmine affetto anche da voyarismo e se ne stava spesso alla finestra a immaginare le bianche carni delle giovani suore nascoste sotto le uniformi religiose. (Dicono che il “non ti vedo” sia un fattore eccitante per l’eros anche se ora la nostra civiltà occidentale un po’ birichina ama svestire le donne come si è visto anche recentemente nella sfilata della consigliera regionale Minetti.)

Gianpaolo riuscì ad agguantare una delle allieve educande nel convento e la nostra Gertrude lo denunciò alla famiglia della ragazza alla quale per altro fece un gran sermone sul perché e sul percome ci si comporta da brava signorina pudibonda. L’educanda fu riportata a casa dai suoi genitori e intanto il conquistatore cominciò a scrivere lettere seduttive a Gertrude che, a poco a poco, si lasciò lusingare e alla fine cadde come una pera.

Egidio entrò da una finestra nella cella di Gertrude e come si conviene a un nobile signore la violentò. Così nacque una relazione tra i due (poi nasceranno anche due figli ammazzati e seppelliti). E alla fine della storia arrivò anche la punizione del cardinale.

Suor Virginia è proprio un esempio al negativo di quel che dovrebbe essere una donna. Subisce sempre tutto: l’esser diseredata, rinchiusa, violentata, lascia che le ammazzino i figli. Va bene, di possibilità di scelta ne aveva poche - anche in fatto di legami amorosi - ma è così debole da non aver nemmeno coscienza del suo comportamento.

Io non voglio assolutamente confrontarmi con lei e nemmeno la condanno per la vita che ha condotto, ma semmai per l’arroganza del suo atteggiamento, in contrasto con un grande vuoto, da povero essere fragile come piuma e in balìa di eventi terribili. E mi fa soffrire che comportamenti così ancor oggi possano (debbano?) esistere nell’identità femminile. Ma che dire se la consapevolezza di sé a volte è così dolorosa !


(È difficile raccontarsi, ma ci proviamo…)

E’ difficile raccontare Gertrude, per la lontananza dei tempi e dei costumi, ma è più difficile raccontare di sé: nonostante questo, m’incontro con suor Virginia.

Ci sediamo al tavolino di un bel bar di Monza: oggi non fa scalpore una monaca al bar.

E’ uscita dal convento di nascosto, lei fa tutto di nascosto. Ma anch’io, per venire a Monza, ho preso la macchina di mio padre e non ho la patente.

Gertrude è una donna alta, segaligna, coperta dal velo e dalla tonaca nera, pallida, con grandi occhi celesti. Anch’io sono vestita di nero, il colore che mi piace, adatto a tutte le occasioni e capace di livellare l’età e la classe sociale. Ma io ho una bella abbronzatura da lampada.

Ordiniamo, lei un bicchiere di latte, io un bicchiere di vino bianco fermo.

Ci guardiamo di traverso.

“Allora che mi dice?” le chiedo.

“E’ lei che ha voluto vedermi, la mia storia la sa già, è stata anche scritta e commentata. La sua non m’interessa, le persone non m’interessano, non ho sentimenti da sprecare”.

“Invece la sua storia m’intriga. E’ stata scritta ma io voglio la sua versione. Anzi la smetta di fare “la signora” anche qui con me”.

“Signora sono nata e non posso far l’ancella di nessuno, nemmeno di Cristo”.

“Va bene, allora stia su come il lupo della favola, superior stabat lupus. Ma mi spieghi, perché fa la signora e poi ubbidisce a tutto e a tutti?”.

“La mia non è obbedienza né sottomissione, la vita mi ha sbattuta su una strada e io devo camminare e percorrerla. No, non equivochi sull’esser sbattuta sulla strada, non mi sento né sono una puttana. Sbattuta sulla strada lo dico per chiarire che il mio destino non mi piace e mi ha rovinato anche il carattere. E lei cosa fa di se stessa? Crede di riscattarsi e di sollevare il mondo ribellandosi? Crede che basti?”.

Così le racconto un po’ di me ma con parsimonia.

E’ difficile parlare a una donna così dura frutto di regole e di sregolatezze.

Sto quasi per mettermi a piangere, sulla sua vita non sulla mia, quando vedo scendere sul suo viso una lacrima. Quasi urlo. Lo sapevo, le corazze camuffano e nascondono le identità. Che ci sarà in questa monaca? Lo scoprirò mai?

La prendo sottobraccio e la riporto vicino al suo convento.

“A presto” le dico pensando che invece potrebbe essere “A mai più”.

 

(Scopro tra noi differenze e somiglianze)

Invece la incontro di nuovo. Appoggio in terra vicino al muro del convento il cestino che ho con me. Mi accosto al muro dal quale agilmente lei si cala, la tonaca allargata come la ruota di un pavone.

Mi viene spontaneo salutarla abbracciandola ma lei si scosta. Cosa mi è venuto in mente, lei è una che se la tira e non accetta confidenza.

“Torniamo al bar?”

“Ma no, camminiamo nel parco, è così colorato d’autunno. Anche il giardino del mio convento è bello e fiorito, ma a una monaca di clausura non è consentito provar piacere nemmeno davanti a un fiore”.

E Osio? Penso, ma è un argomento difficile da trattare, devo aspettare ad affrontarlo se mai riuscirò a farmela un po’ amica.

Camminiamo a piccoli passi come fanno i monaci quando meditano, lei lo farà per abitudine, io perché ho paura d’inciampare. Mi verrebbe anche spontaneo appoggiarmi al suo braccio.

Stiamo in silenzio, un silenzio dolce e in qualche modo comunicativo, che non può durare, sono venuta per farle domande dirette e non per tentare interpretazioni.

Cammina diritta, rigida e sicura avvolta nella sua lunga tonaca nera. Oggi io sono vestita di bianco, pantaloni e blusa. Accostate sembriamo una pedina del domino.

“Anche quando vivevo a casa mi era vietato di godere il parco, troppo pericoloso, potevo esser rapita”. Penso a quanta libertà ho invece avuto io da bambina prima di finire in collegio dove tutto era regola e in regola e dove mi era vietato soprattutto dire che ero appena stata battezzata.

Sembra mi abbia letto nel pensiero: “Crede in Dio?”.

“Direi di no, ma il discorso è molto lungo”. “Ha ragione, io credo a quello che mi hanno fatto credere, lei avrà potuto farsi le idee girando a vedere come va il mondo. Io invece sono stata murata nella testa molto prima che nel convento. Sono di marmo, è importante per non soffrire. Nemmeno Cristo è riuscito a convincermi del valore della sofferenza”.

Stiamo tornando verso il muro, lei nota il mio cestino. “Aveva portato una merenda? La regola m’impone di non accettarla”.

“ No, niente merenda. Qui c’è un gattino per lei, provi ad accarezzarlo, forse per un momento uscirà dal suo guscio di marmo”.

La vedo scomparire col mio cestino. Speriamo che non mi faccia fuori il micio.

Separate dal muro restiamo vicine e lontane, simili e diverse, entrambe col nostro pesante bagaglio di vita.

Adesso al bar ci vado io. “Per favore, un bicchiere di bianco fermo”.


(Scegliamo insieme un oggetto che sia il simbolo di questo incontro)

Oggi arrivo al convento di Monza particolarmente leggera. Ho attraversato il parco in bici godendo una beata solitudine oltre agli odori e ai colori della natura. Appoggio la bici al muro e la vedo, spettrale, aggrappata come un uccellaccio nero alle sbarre del cancello, a braccia larghe, il viso contratto in una smorfia dolorosa. E’ un’aquila in gabbia, ferita senza ferite visibili.

Avverte una presenza e subito si ricompone assumendo tutta la sua alterigia. Chiama una monachella e le impone con durezza di aprire il cancello e di consegnarle la chiave.

Esce dal convento come una primadonna sul palcoscenico e mi viene incontro. Sarà fragile come l’ho vista il giorno prima o dominante come in questo momento? Sarà entrambe le cose.

“Che vuole ancora da me? Lei chiede troppo” mi dice.

Solleva leggermente la tonaca per camminare meglio, è disinvolta e ha ripreso totalmente il suo stile di comando.

“Signora” le dico, per farle capire che è così che la sento.

“Ma va là” ride e adesso sono convinta che lei sa nascondersi comunque, sia nella debolezza dolorosa che nell’alterigia.

Chi è mai questa tipa, questa monaca da principato o, se vogliamo vederla senza il costume, cioè la tonaca, questa persona? Comincio a pensare che di costumi sappia nasconderne parecchi.

Non so da che parte raggiungerla. Tanto per dire qualcosa le chiedo come sta il gatto. “Ah sta benone, l’ho lasciato libero appena giù dal muro. Libertà, gli ho dato quello che io non avrò mai, ho fatto una gran buona azione. Ma a lei interessa? Lei non cerca buone azioni in me, mi vede come una strega, un’ammazza-bambini, una Medea d’altri tempi.”

Allora non è così scema e ignorante come vuol apparire, ma forse non vuol apparire affatto e le va bene star nascosta nella sua tonaca e nel suo convento. Vuol mescolare le carte per non farsi etichettare, tanto l’hanno già fatto Manzoni e il seguito di benpensanti che lodano la donna zerbino, quella che si annulla e così sembra un nulla.

Ma io sono qui per capire non per giudicare e glielo voglio dire.

“Si sbaglia di grosso, Signora. Io non sto dalla parte di nessuno, né da quella della legge né da quella della religione, né tanto meno da quella della gente cosiddetta perbene. Ma non sto neanche dalla sua parte, che del resto non so quale sia. Io non voglio subirla come personaggio”.

Mi guarda incredula. “In un mondo dove regna il senso di colpa è facile per una donna assumersi tutta la colpa oppure…”.

Si sta trastullando con la chiave del cancello passandola da una mano all’altra. Osservo per la prima volta le sue mani, le dita lunghe e sottili forse nobili ma incallite da qualche lavoro che fa.

Eccolo il nostro simbolo, la chiave: la sua per uscire dal muro che la blocca e ripara, la mia per avere accesso a lei, a quel pastrugno di donna che è.

 

(Interviene a turbarmi o ad aiutarmi in questa mia nuova avventura una persona della mia famiglia)

E’ da un po’ di tempo che non vado al convento. A Monza però ci sono andata per il mio divorzio: ha certo un significato che io mi sia sposata dove suor Virginia è nata e mi sia divorziata dove lei è vissuta. Anche se il matrimonio e il divorzio non riguardano lo stesso uomo. Vedi, anche tu non sei una santarellina, anzi sì sei una santarellina che si nasconde nelle regole. Al mio matrimonio mi sono divertita parecchio. Palazzo Marino era pieno di spose in ghingheri e io ero vestita così stracciosamente che il funzionario ha scambiato la mia testimone, con tanto di cappello a larga tesa, per la sposa. Ma io ero vestita di blu con una vecchia camicia di seta e una borsettina nuova di zecca per rispettare il detto che nel matrimonio ci vuole “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo e qualcosa di blu.” Allora poi - non so se la regola è tuttora vigente - per il rito del matrimonio civile non occorreva scambiarsi le vere e così non le avevamo, o meglio il mio lui ha dichiarato che gli era inutile perché non l’avrebbe mai portata e io avevo quella del precedente matrimonio. Terminata la “cerimonia” abbiamo raggiunto una panchina, credo ai giardini pubblici. Insomma un matrimonio nemmeno coi fichi secchi, ma ne ho un bel ricordo perché eravamo contenti di esserci presi gioco dell’istituzione. Al divorzio ero invece cupa anche perché dovevo ammettere che ”meno male che abbiamo questa istituzione!”. Mi sono portata appresso la tia Sarita forse perché mi ricordava un po’ suor Virginia che non avevo affatto dimenticata ma osservavo da lontano come con la lente di un cannocchiale o come un’adozione a distanza. La tia Sarita, sorella di mio padre, era la pecora nera della sua famiglia. Alta e segaligna, con gli occhi cerulei come la monaca, vestiva sempre penitenzialmente di scuro con tuniche fatte a mantella e tutto-coprente. Parlava pochissimo e quasi sibilando. Era considerata la pecora nera della sua famiglia ma in realtà la sua famiglia l’aveva castrata in ogni modo e adesso lei si sentiva indegna ma nello stesso tempo in fondo in fondo al suo debole cuore io penso che la detestasse. Doveva esser stata una bellezza di ragazza, certo non esuberante e impetuosa perché il suo carattere era mite, riservato e fragile e non aveva mai avuto spazio per far valere le sue ragioni e nemmeno per far sentire la sua voce. Si era innamorata, corrisposta, di un giovane uomo bello e colto e benestante nel quale la sua famiglia aveva trovato un grave handicap in quanto era un figlio adottivo e quindi le aveva impedito la relazione. Per anni si era logorata la povera tia per questa storia di amore impossibile e quando è morta teneva ancora nella borsetta la foto di lui. Più tardi, per aiutarla negli studi. le hanno affiancato una suora canossiana e qui la storia si è conclusa con un battesimo segreto e il desiderio di farsi a sua volta suora. Quando il padre lo seppe apriti cielo. Così si è andato definendo il suo ruolo di angelo tutelare dei genitori e questa è stata la castrazione più dolorosa e più lunga perché è durata tutta la vita. Ho portato con me a Monza la tia per farla uscire dal suo guscio e anche per farle vedere il convento dove stava la signora che aveva una vita assimilabile alla sua. Eccolo lì il convento, le suore ci stanno murate vive. La tia è inquieta e non vuole trattenersi davanti al cancello. “La signora almeno ha vissuto una storia d’amore” mi sussurra. Bella storia! Ancora quel sogno d’amore messo a etichetta del baule in cui ficchiamo dentro di tutto. Non so se le sue parole mi turbano o se mi aiutano a capire che le donne possono venir fregate comunque, nel 500 come nel 2000, ma adesso è venuto il momento di saperne di più sul legame di suor Virginia con quell’Osio.

(Capisco che la situazione richiede un brusco cambiamento da parte mia)

Per parlare di Osio voglio lasciare la monaca il più possibile nel suo habitat e così cambio totalmente il mio luogo d’incontro, vado io nel convento di Santa Margherita. Con il travestimento di una tonaca, di notte, inquieta come un topo, entro dal cancello che la Signora è venuta ad aprirmi. Ci dirigiamo subito nella sua cella dopo aver attraversato lunghi e gelidi corridoi e il parlatorio con un’enorme grata dalla quale l’esterno e l’interno comunicano. Mi pare di sentire fruscii, saranno i pipistrelli.

La cella ovviamente è buia e non riesco a distinguere i pezzi di arredamento che Gertrude si è portata da casa. Al tatto riconosco una sedia in pelle su cui mi guida del resto la Signora. Si sente l’ansimare dei nostri respiri, entrambe facciamo una cosa vietata.

La suora si butta sul letto, il contesto potrebbe sembrare quello di uno studio di psicoanalisi ma è sempre facile equivocare sui contesti.

Comincio alla larga. “Signora volevo vedere l’ambiente in cui lei vive ma è buio pesto e devo continuare ad immaginarlo. Le piace la sua cella?”.

“L’ambiente non mi può importare di meno, sono piuttosto le persone con cui abito a infastidirmi. Sono tutte mezze calzette, suor Lucia e suor Ottavia e suor Benedetta e suor Caterina vengono dalla campagna, sono proprio rozze. Osio è il solo al mio livello.”

Mi chiedo se la ragione della sua storia con Osio abbia a che fare con l’ambiente aristocratico da cui provengono entrambi, ma mi pare che la violenza dimostrata dal tipo possa essere invece un valido motivo per respingerlo.

Sembra che mi abbia letto nel pensiero. “Lei penserà di Osio che è un aristocratico violento. E’ una persona eccezionale, invece, pieno d’interessi e di capacità, se mi tratta male è colpa mia, con lui io non sono la Signora, con lui io non valgo niente e mi tratta brutalmente come merito.”

“Certo nessuno le ha dato un po’ di autostima, di solito sono i padri che confermano il valore della figlia femmina il suo… ”Adesso non mi tocchi anche la mia famiglia, sono io ad essere una Signora di carta, non l’ha capito? Sono come quei pupazzi delle giostre su cui tutti possono tirare le palle”.

Non posso neanche vedere la sua espressione, qui sono al buio e in un luogo dove non so muovermi. Suor Virginia mi irrita molto quando fa la vittima ma capisco che è più autentica così di quando fa la Signora. E poi con me non attacca.

“Vuol restare nel suo brodo, allora ci stia. E si tenga stretto quel suo Osio che la lascerà nelle peste e se la squaglierà come una lepre alla prima difficoltà. Mi faccia uscire da questo posto, subito.”

Mi sembra interdetta, forse ha un presentimento: sta pensando a quando il suo Osio verrà ricercato e lei finirà condannata e rinchiusa in una celletta con porta e finestra murate, nella casa delle convertite di santa Valeria in Milano dove erano ospitate le ex prostitute. Anch’io penso a quel suo stare più murata che nel suo convento ma penso anche che, quando ebbe finito di scontare la pena, volle continuare a vivere fino alla morte, e cioè per altri 28 anni, nella casa delle convertite. Come dire: io sono una merda e merito di continuare a punirmi per questo.

Mi sfilo la tonaca appena fuori dal cancello e vorrei sfilarmi anche dalla storia di questa donna.


(Come possono un paio di scarpe far cambiare direzione a scelte e pensieri)

Da “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi ho imparato un gioco che faccio sempre quando vado in tram; osservo le scarpe di un viaggiatore e poi immagino il resto della persona e la sua vita. Oggi il gioco si è fatto un po’ più difficile perché le classi sociali si sono mescolate e anche i giovani con gli adulti, gli sportivi con i sedentari, le donne con gli uomini. Però certe regole valgono ancora, per es. se vedi un paio di mocassini la persona che li indossa non è certo un ragazzo mentre se vedi un paio di scarpe Nike devi osservare se sono taroccate perché in questo caso le porta solo un tamarro.

Pensando a questo gioco, divertente e poco impegnativo, mi viene in mente che non ho mai osservato le scarpe della monaca coperte del resto dalla lunga tonaca. In questo momento Gertrude è seduta di fronte a me in parlatorio e nasconde i piedi sotto la sedia, in un atteggiamento timido. Poi improvvisamente accavalla le gambe come ad affermare una libertà e spregiudicatezza di atteggiamento. Le vedo benissimo i piedi lunghi e sottili come le mani, calzati in una scarpa-pantofola di velluto nero come quella che poi useranno le domestiche friulane. Mi ispiro ancora al gioco e le chiedo se posso offrirle in dono delle calzature che non uso più, per lei o qualche altra monaca.

Dopo qualche giorno mi presento nuovamente in convento con una valigia e, con molto orgoglio, le dispongo in terra in semicerchio le mie scarpe. Non so perché mi sono permessa questa confidenza e nemmeno sapevo di possedere tante scarpe: stivali, stivaletti, ballerine, décolletès con tacchi vertiginosi, scarpe da tennis, sandali, scarpe da ballo comprate quando avevo frequentato una scuola di danza. Forse è per fare un test alla monaca o meglio un tentativo di test perché, se “l’abito non fa il monaco”, ancor meno lo fa una scarpa!

La Signora è visibilmente sconcertata e si china verso terra con uno sguardo che accarezza tutte le scarpe. “Tutte per noi?” chiede a conferma, “anzi per me perché solo io ho un piede lungo, come il suo del resto”.

Alla fine, titubante come un bambino che teme di sbagliare, solleva un paio di scarpe rosse da ballo, con un tacco serio e l’abbottonatura con cinturino e bottone. Le indossa sui suoi piedi slanciati e nudi e si alza diritta e sicura, sollevando leggermente la tonaca per scoprire l’effetto. Rosso e nero, due colori un po’ stridenti, prepotenti entrambi.

Sembra che le scarpe abbiano dato il via a gesti e movimenti liberatori. La Signora si mette a volteggiare accennando a passi di danza e il parlatorio sembra diventare un salone da ballo come quello del “Gattopardo”. Ma la ballerina è sola e il ballo non la scuote né la trasforma. Siamo sicuri? Osservo il suo viso, ora è quasi solare, con un accenno di sorriso compiaciuto. Le scarpe rivelano un aspetto sconosciuto, godereccio, come se avesse finalmente conquistato il suo corpo e anche se stessa.

Anch’io cambio direzione ai miei pensieri, non voglio più tentare di capirla ma voglio godere con lei questo momento magico e sereno, un altrove quasi felice. Non la sento più come persona in conflitto, avverto solo la sua grande vitalità. In questo momento non è più la Signora, né suor Virginia, né una donna in preda alla passione e al sacrificio.

Improvvisamente però il rosso della scarpa mi evoca il sangue e mi trovo a fare i conti con l’uccisione dei suoi figli. Come può passarci sopra senza morirne, come farà a rimuovere un dolore così grande? O forse è una sublimazione del sacrificio? Dopo tutto anche santa Rita da Cascia ha chiesto a Dio di far morire i suoi figli per impedire loro di commettere il peccato di vendetta verso chi aveva ucciso il loro padre.

(Ora mi sembra di essere più a mio agio)

Dopo questa storia delle scarpe il mio rapporto con la monaca è letteralmente cambiato. Non m’interessa più capirla e in un certo senso anche carpirla in quella sua poliedrica personalità. L’accenno al ballo e al godimento spontaneo del suo corpo mi ha avvicinato a lei con empatia e me la sento vicina tutta quanta insieme, così com’è e mi trovo davanti solo ad un’altra donna come me con tutti i suoi tormenti ma anche con il suo piacere. Mi ricordo quando mi citavano il proverbio “prima il dovere e poi il piacere” : io ho sempre sostenuto il contrario perché il dovere spompa e quindi ti freghi anche la possibilità del piacere.

Adesso io e la monaca sediamo al solito bar di Monza e ci facciamo entrambe un bicchiere di bianco secco. Adesso possiamo stare insieme alla pari, trovare identificazioni che ci accomunano.

E sentirci entrambe a proprio agio, ognuna nel proprio abito ma insieme.


( Sbircio da una porta socchiusa, ciò che vedo mi dice che qualcosa di buono ne potrà venire)

Approfittando della nuova piega della nostra relazione chiedo a Gertrude di accompagnarmi dall’oncologo che ha lo studio affacciato sul parco di Monza. Naturalmente scateno le rabbie della famiglia: figli, marito, sorelle: “Ma perché vai con un’illustre sconosciuta invece che con uno di noi che ti ha a cuore?”.

Me ne sbatto, almeno questo piccolo atto di autonomia in una vita diventata solo dipendenze e limiti.

Lo studio è al pianterreno, ben arredato e la sala d’attesa ha una grande vetrata dalla quale si vede uno squarcio del parco e le serre oggi aperte al tepore del sole che illumina fiori variopinti.

Una porta della stanza dà direttamente sul parco ed è socchiusa. Do una sbirciatina: su alcuni alberi di latifoglie dai rami spogli e quasi scheletriti vedo un cespuglio di vischio e tordelle e altri uccelli che ne mangiano le bacche bianche mature.

Bella pianta, il vischio che non ha radici affondate nella terra, anch’io non ho i piedi per terra, ma nemmeno per aria! E poi è sempre verde e risalta sugli alberi brulli dell’inverno.

La voce della segretaria mi toglie dallo sguardo incantato sul vischio.

Al medico appaio in buona forma ( per forza con tre dita di fard!) e anche i referti degli esami che gli porto “sono abbastanza buoni”.

“Allora, mi chiede, cosa facciamo?”.

Sono io a dover rispondere. Adesso questa totale autonomia nella scelta in cui mi lascia mi mette un po’ in crisi. Al diavolo il protocollo! No, non voglio fare più chemioterapie, voglio stare un po’ meglio, avere spazio più che tempo per vivere.

“Allora l’aiuterò con qualche rimedio naturale, prima di tutto con estratto di vischio”

Sorrido a me stessa, stupita e felice per la mia sbirciatina di poco prima in sala d’attesa.

Uscendo dallo studio io e Gertrude andiamo al solito bar ma oggi io ordino una bottiglia intera di

Marquis de Languiche del 2007.

Cin cin! Beviamo alla vita, alla morte, all’amore, all’amicizia e a tutte le cose che ancora ci possono capitare.

Poi ci tuffiamo nel traffico, la monaca verso la non-pace del suo convento ed io a prendere un treno e raggiungere la non-pace della mia casa.



Gianna Beltrami e Barbara Mapelli


Il viaggio

 

Il viaggio! Come pensare a un viaggio con tutto quanto comporta di entusiasmo e curiosità quando dai miei “dì cadenti” (Machbeth) aspetto solo l’ultimo e definitivo?

Guardo al passato, allora. Viaggiare è stata una grande esperienza, per conoscere me stessa e gli altri.

Se faccio una sventagliata tra tutti i viaggi che ho fatto –e mi sento spocchiosa a dire che ne ho fatti tanti – non voglio fare scalette di gradimento. Sarebbe sbagliato, come quando si chiede a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà.

Ho fatto viaggi organizzati, in coppia o con amici o in gruppo, con tappe prefissate o alla ventura e tutti hanno avuto un senso e un godimento. Un solo viaggio ho fatto completamente da sola, nelle Marche, ma una mia sorella, per una serie di contrattempi, ha viaggiato sola in India (più brava di me !).

Non sono affatto un’organizzatrice e ogni viaggio con mete scelte sempre a caso era un macello. Avevo comunque un grande entusiasmo perché mi aspettavo sempre incontri e vicende impreviste e però non ritornavo mai completamente soddisfatta perché durante un viaggio incappare (inciampare) in luoghi e storie è qualcosa di parziale rispetto alla realtà. Per esempio perché mi sono accorta di patire le vertigini quando ero sul Colorado al Grand Canyon e non quando sono salita sui Due Gemelli a New York? Oppure perchè mi era sembrato piccolo l’aeroporto di New York ( Kennedy) e poi ho saputo che era uno dei tanti scali di un unico aeroporto?

E nei viaggi ci sono anche storie assurde, una volta ci siamo trovati senza alloggio notturno in un paesino di Creta e abbiamo accettato di dormire in una specie di catapecchia su tavolati dai quali secondo me avevano appena alzato gli asini. Era un luogo squallido, senza corrente elettrica e pieno di gechi sulle pareti. Nel mezzo della notte bussano alla porta ed era una ragazza francese che cercava il suo violino (lo ha trovato sotto uno dei cassoni e si è fermata anche a dormire quando ha visto che non occupavamo tutto lo spazio dei tavolati).

Solo verso la metà dei miei viaggi ho imparato a fare il bagaglio. Nei viaggi più lunghi dovevo portarmi roba per il caldo e roba per freddo e pioggia ( mare e monte, mi dicevo) e avevo anche il problema inverso quando rientravo da un viaggio dato che riempivo il mio trolley come il pancione di una gravida raccattando tutte le cose più interessanti o bizzarre in cui mi ero imbattuta (sassi semi rami sabbie conchiglie oggetti libercoli stoffe eccetera eccetera).

Ho imparato a portare con me i capi più cenciosi che avessi al momento (ne ho sempre a valanga) e dopo l’uso li lasciavo.

Anche con le scarpe non è stato facile organizzarmi perché ho sempre male ai piedi e ai tempi dei viaggi facevo chilometri a piedi.

E’ dal 2007 che non faccio più viaggi, l’ultimo è stato nel Laos. Adesso non posso nemmeno reggere il viaggio su un tratto di tram! Ma non facciamo bilanci e viviamo di rendita!

Direi che stati d’animo contradditori prima di un viaggio non ne ho mai avuti perché predominava in me il desiderio di andare, di non essere più qui a Milano e avevo tante aspettative e curiosità. Non ho mai preparato un viaggio sulle guide che leggevo solo dopo aver visitato i vari luoghi (naturalmente ne avrei persi un sacco se non avessi avuto qualche compagno di viaggio che si era organizzato esattamente al mio opposto).

Un po’ di notti fa ho sentito alla radio (24 ore) Sandro Veronesi che parlava del suo ultimo libro “Viaggi e viaggetti”. Il titolo mi è piaciuto e me lo sono fatto comperare . E’ il primo libro che leggo di questo scrittore e non sono affatto d’accordo che si tratti di “un grande libro di viaggi” come indicato nella copertina. Ci manca il cuore e lo stupore e ho concluso, sempre spocchiosa, che i miei diari di viaggio sono più piacevoli e divertenti. Beh, adesso dopo tanti piagnistei e banalità voglio mettermi in viaggio, con voi.

Le prime impressioni di viaggio richiamano ricordi

Eccomi pronta: periodo di attesa e di aspettativa. Il tempo dilata le dimensioni. Quello che inizio è un salto nel buio, da un trampolino di immaginario progetto al terreno solido di una realtà.

Le prime impressioni sono pregiudizi come quando s’incontrano persone sconosciute e si crede di incasellarle subito e subito ci si sbaglia. Adesso devo superare la separazione dal mio mondo quotidiano, dai rapporti affettivi in particolare e poi posso lasciarmi andare a un altrove.

No, non mi ritrovo in ricordi o raffronti.

Ho letto-non so dove- un pensiero che mi sono trascritta “Il passato s’intrufola come un gatto randagio nel presente, lasciando impronte di ricordi sparpagliati.” E’ così: i ricordi mi affiorano adesso, in un presente di non vita, e non quando godevo il piacere del viaggio.

Cosa posso farci? Abbandonarmi allo sparpagliamento dei pensieri come sul lettino di uno psicoanalista.

Prendo l’antibiotico e mi ricordo quella volta in Australia quando ho dimenticato la borsa con tutti i farmaci di mio marito e una gentile signora del luogo è volata in macchina a prelevarmeli nel paese vicino all’aeroporto. E’ una vicenda striminzita ma dice la generosità e la disponibilità di quella sconosciuta.

Guardo l’erba del prato nel cortile della mia casa e ricordo un colore verde intenso bello da essere inimmaginabile, delle risaie in Cina.

Vedo alla TV Passepartout e mi ripasso tutti i musei che ho visto ( è un esercizio che faccio anche per addormentarmi in alternativa alla recita di poesie e filastrocche e all’uso di due radioline con auricolari ) e subito ricordo lo splendido museo di Shanghai nella piazza della Repubblica di cui avevo ricevuto una cartolina dell’anno prima e il museo non c’era ancora!

Ascolto un concerto alla radio e sento ancora quello che abbiamo goduto alla Filarmonica di Berlino.

Ormai piuttosto isolata e privata di una socialità che si esprime prevalentemente al telefono evoco tanti compagni di viaggio persi lungo la vita come le mollichine di Pollicino.

Chiusa nelle mie stanze, affacciata alle finestre, prigioniera della mia fragilità, penso agli spazi immensi dei deserti africani e vorrei avere le immagini calde e flessuose delle dune piuttosto che lo spettacolo di grandi case e di infinite automobili.

E il ricordo delle savane con tanti bellissimi animali mi irrita alla vista solo di cani ( e relativi escrementi).

Una notte, in Brasile, ho viaggiato su una piroga nel buio totale assecondata dai canti delle rane e di altri animali e aggirata dagli occhi gialli dei caimani. Ecco, ho viaggiato in barche, navi, aerei, elicotteri, treni, pulman, auto, a cavallo, sull’asino, sull’elefante e sul cammello. Sono fortunata di tutti e tanti ricordi di viaggio e forse adesso potrei viaggiare ancora con il pensiero e con il sogno. Invece oggi il mio mezzo di trasporto più utilizzato – si fa per dire perché esco pochissimo da casa-è l’ascensore (dove però per fortuna non incontro quelle signore dal puzzo di urina pubblicizzate in TV).

Il tutto, anche quel che scrivo, è fuori da ogni emozione e poesia.

Sono fuori tempo, fuori luogo e, forse, …fuori tema. Va beh! Namastè (è il saluto indiano a mani giunte sul petto).

Una strana conoscenza

Carissima Lia, ieri ho ricevuto la tua lettera che mi ha fatto molto piacere anche prima di aprirla e di leggerla. La tua scrittura mi ha rievocato subito tanti anni intensi della nostra giovinezza e della nostra amicizia

e mi ha fatto un regalo di emozioni gradevoli. Non ci sentivamo da un bel po’ di tempo, chissà perché, e malgrado ciò ci ritroviamo con facilità. Mi capita con diverse carissime amiche e in un periodo in cui godo il calore degli affetti mi fa bene riprendere contatti cari un po’ persi.

Sto benino in questi giorni ma non combino nulla, non ce la faccio a fare niente perché non ne ho la forza e spesso sono molto avvilita per questo.

Da te sento con piacere, ma senza invidia o rimpianto, che sei in viaggio con tuo marito. Mi è sempre sembrata una bella consuetudine fare dei viaggi col proprio compagno perché il viaggio è un interessante mezzo per conoscere paesi e costumi nuovi ma anche per riconquistare un po’ il rapporto con il proprio partner che ha bisogno di tempi e di spazi che la routine a volte rende difficili.

Qualche volta anche la malattia può far bene alla comunicazione amorosa, ma non è il mio caso.

Ma anche l’amore non è un percorso eterno e rettilineo, come del resto la vita e un viaggio.

Ti ricordi quando tantissimi anni fa siamo state insieme a Stintino in Sardegna e per rendere potabile l’acqua si metteva l’anguilla nel catino dell’acqua piovana? Adesso Stintino non ha più nulla di quel luogo incantato e bianco che abbiamo gustato allora. E sono tanti i luoghi visti in passato che non sono più gli stessi come se il turismo- e non solo il nostro tempo della vita- ne avesse cancellata la magia.

Quando rientrerai a casa avremo tanti pensieri da scambiarci, anche sul tuo viaggio ma soprattutto su di noi. Prova a pensarci, il viaggio ti solleva dubbi e incertezze, anche se sei di carattere granitico, e ti prospetta una diversa, anche strana, conoscenza di te stessa.

Ti abbraccio tanto Francesca

Mi trovo ad affrontare un evento imprevisto che mi mette ansia

Adesso sono sdraiata sul divano dove trascorro la maggior parte delle mie giornate. Il mio gatto Chili – mio nipote Nicolò lo ha chiamato proprio come la salsa messicana- è steso sopra di me e mi gratifica del movimento “del pane”, che a volte fanno i gatti specie se precocemente svezzati, nel simulare un impasto che in realtà evoca l’allattamento. E’ un gesto che riserva solo a me, come il fare le fusa e anche mordermi, ma io non lo apprezzo molto perché mi buca con le unghie qualunque cosa io indossi. Se è valida la pet- terapia è evidente che il mio gatto la pratica su di me e non io con lui.

Adesso però mi tolgo dal presente e precipito nel viale delle rimembranze.

Gli eventi imprevisti durante un viaggio sono frequenti anzi fanno parte del viaggio stesso che è contatto con situazioni nuove, con ambienti diversi dal nostro, con tanti aspetti del vivere che non conosciamo. L’ansia collegata all’evento, appunto perché prevedibile, nel viaggiatore non nel turista che ha la guida risolvi-tutto, smuove le risorse per risolvere meglio il problema e dispone alla sua soluzione. E poi si aggiunge il destino, la fortuna…

A Jasper in Canada una mattina, alla partenza, abbiamo perso il pulman perché non ci siamo accorti di aver cambiato stato e quindi fuso orario. Ridiamo della nostra ignoranza, telefoniamo alla società dei pulman e in cinque minuti arriva un pulman gratuito tutto per noi!

In Giamaica abbiamo fatto l’autostop e siamo saliti su un motocarro e dopo un po’ l’autista ci ha fatto scendere e pretendeva una somma di denaro enorme e ci minacciava in un luogo deserto e senza mezzi di trasporto. Più che l’ansia ci ha logorato la lunga trattativa.

Nella Valle della Morte, un deserto della California, si è guastata l’auto su cui viaggiavamo e non esistevano ancora i cellulari: la sorte ci ha aiutato perché nel deserto più assoluto è passato un indiano che con la sua macchina ci ha trascinati fino alla riserva dove viveva e dove, altro fatto miracoloso, c’era un meccanico.

E storielle così ne avrei tante. Forse non ho mai dato peso all’ansia durante un viaggio anche se sono tendenzialmente ansiosa: quando una delle mie figlie non ancora adolescente ha cominciato a girare per Milano in bici ed io facevo molta resistenza a questa cosa, lei mi sgridava “ Per la tua ansia non puoi impedirmi di vivere!”Così l’ansia non l’ho più affrontata, ci ho convissuto, come ogni madre, con eroismo.

Mi sembra di essere sola, se pure circondata da persone : la solitudine che percepisco avvia alcuni nuovi pensieri

Lo dice anche il poeta “Ognuno sta solo sul cuor della terra…”

E’ vero, ognuno si trova solo di fronte alla propria vita di cui è l’unico protagonista e responsabile nonostante le interferenze e le variabili che ci giocano. Come l’attore che svolge la propria parte.

Sul palcoscenico della vita però non siamo mai soli, un girotondo di amori, amici, parenti, la famiglia (varia e diversa non quella Barilla), i colleghi, i collaboratori, i superiori, eccetera eccetera, ballano con noi. Gli altri sono il corollario del tuo io.

Anni fa Iva Zanicchi cantava “La mia solitudine sei tu…”perché ci si può sentire soli anche quando si è immersi nelle più intime ed intense relazioni.

Personalmente non ho mai avvertito il senso di solitudine, caso mai ne ho sentito il bisogno. Ma è difficile che io possa sentirmi sola , anche qui, in questo viaggio con voi, dove sento molto vivo il volermi mettere in gioco, in confronto e in condivisione, in un percorso guidato ma anche libero, senza interessi e invidie.

Il viaggio non è solo quello geografico. Quello in noi stessi è il più difficile e complesso, quasi sempre ci si nasconde.

 

Un colpo di fortuna mi aiuta a risolvere una situazione difficile

Il mio gatto ha vibrisse folte e forti. Le vibrisse del gatto sono un po’ come il navigatore delle automobili e quindi dovrebbero predisporlo a viaggi avventurosi . Ma il mio gatto è pauroso e non si avventura fuori dalla porta, solo anni fa in montagna quando c’era un’impalcatura sulla casa se ne usciva la notte e rientrava la mattina e non so cosa combinasse in tutte quelle ore di libertà. In compenso gli piace molto camminare e accovacciarsi sulle sottili ringhiere dei balconi, tanto per tenermi alla pari con l’ansia che mi danno i figli.

Non so se i gatti siano capaci anche di viaggi e avventure interiori, ne dubito perché non hanno consapevolezza del tempo e delle cose che accadono e dei rapporti.

Tutto questo è per dire che non posso confrontarmi col mio gatto né per un viaggio nel mondo né per quell’altro più complicato dentro di me.

Forse anche i viaggi nel mondo li facevo per costruire dentro di me una cartografia dell’animo, non era solo ricerca di luoghi e fatti e persone ma un approccio meno schematico e usuale al mio io.

A proposito di approcci mi viene in mente quello inusuale con l’Australia: all’aeroporto di Melbourne ci attendeva la mia amica Federica -che ora vive lì-, ci ha accompagnato a depositare i bagagli e ci ha promesso una visione fantastica della città. Era luglio, lì era inverno ma era pieno di mimosa in fiore. Federica ci ha condotto all’hotel Hyatt sugli ascensori che portano all’ultimo piano del grattacielo. Erano indicate le toilettes ed è proprio dai cessi che abbiamo goduto uno spettacolo d’incredibile bellezza e luce. E’ stato il nostro incontro con l’Australia.

Ma torniamo al mio viaggio interiore. Se guardo alla mia vita mi sembra un otto volante, su e giù, colpi e batoste e risollevamenti e poi ancora colpi. Non mi ricordo più quale scrittrice abbia scritto che la vita non va guardata nei suoi tratti ma nel suo insieme, nella sua composizione, come vedere disegnata sul terreno una cicogna guardando dall’alto di un aereo. Non mi piace fare bilanci, li considero schematici e moralistici. Mi piace cercare di capire le cose in modo dinamico. Ho vissuto una vita intensa, questo è certo e questo adesso mi fa sentire ancora di più il pattume di questi giorni nei quali nessun otto volante può più correre.

Quanto alla fortuna, una grande fortuna l’ho avuta a pochi giorni dal matrimonio con Enrico. Lui era bello, tenero, affettuoso e aveva un’anima da poeta. Così io l’ho conosciuto ed amato. Ma improvvisamente è scomparso ed io credevo di annegare nel dolore. E quando ho saputo che si era tolto la vita sono impietrita e non potevo crederci. La montagna russa rotolava giù rovinosamente eppure sono sopravissuta e il tormento nel tempo è diventato liberazione, anzi fortuna.

Mai valutare un fatto per se stesso, bisogna arrivare a comporre quella famosa cicogna!

Mi sento trasformata sotto molti aspetti mentre altri, che restano uguali in me, mi accorgo di percepirli con più lucidità

Ho messo la storia con Enrico come esempio efficace seppur traumatizzante della teoria di Karen Blixen sull’opportunità di valutare una vita nel suo insieme guardando dall’alto, cioè un po’ a distanza, ma a me resta sempre l’impressione di cogliere solo una parte delle cose. Magari mi si sono composte solo le zampacce della cicogna invece dell’armonioso corpo ad ali spiegate. Del resto mi viene in mente quando su un piccolo aereo ho sorvolato a Naska in Perù le figure tracciate sul terreno misteriose e incomprensibili anche nella loro esecuzione. Così è la vita misteriosa e incomprensibile anche se credi di aver raggiunto la piena consapevolezza delle cose e dei fatti e dei rapporti.

Mi sento trasformata? Forse solo deformata, dalla vecchiaia dalla malattia dalla perdita di energia.

La lucidità non mi serve, mi servirebbe il sogno, il desiderio di sentirmi in volo leggera verso una luce e non oppressa dai macigni che rotolano su di me. Sbagliava anche Leopardi “incolume il desio, la speme estinta”. Le analisi sono troppo spesso crudeli.

Guardo dalla finestra la gente che ha premura e si affanna. Tra poco è Natale e tutti si vorrebbero più buoni e meno soli, almeno per un giorno. E credono di prepararsi a buoni propositi, a buoni cambiamenti. Sperano di essere più lucidi di fronte alla propria vita. Hanno l’impressione di potercela fare.

Oggi è l’anniversario di un mio matrimonio. Sono passati più di quaranta anni e come ogni anno il mio ex mi manda un messaggio, “Ciao bella, pensa che potremmo essere in viaggio insieme. Che pirla!” Lui fa bilanci ma solo per la voce avere.

Anch’io do un’occhiata alla mia storia, al mio viaggio. Ma ho letto non so dove in uno scritto del poeta Franco Loi che“ci vuole un cuore solido e pieno d’amore per percorrere in parole la propria esperienza senza esserne sommersi”. Non mi sento solida e nemmeno piena d’amore.

Va beh, buon viaggio, vita, quel che è stato è stato, sarà quel che sarà.

Sulla via del ritorno

Mentre sistemo sopra una libreria il mio quaderno rosso sul quale annoto cose fatti e detti della LUD, gli occhi mi cadono sull’album di foto dell’ ultimo viaggio che ho fatto, nel 2007 perché poi mi hanno diagnosticato il primo tumore (sono stata alla grande anche con i tumori, non solo con i matrimoni!) e di viaggi non sono più stata in grado di farne.

Il Laos mi aveva affascinato perché avevo trovato ancora spazi inesplorati e una natura rigogliosa e incolta. Il fiume Mekong che avevo già conosciuto in Cina e che sapevo causa di gravi inondazioni mi è sembrato qui solenne e maestoso avvincente nella sua grandiosità benché di acque nere opache e limacciose. Avevamo fatto anche un percorso su una barcaccia per raggiungere un monastero dove un monaco buddista col suo sari arancione mi aveva spruzzato un’acqua sacra che mi avrebbe protetto la salute. Infatti appena rientrata a casa i santoni della medicina mi hanno subito diagnosticato il primo tumore!

Una foto dell’album documenta la mia salita alla collina di Phusi con 500 gradoni sconnessi stile Inca -alti e stretti-, una salita affannosa per ammirare il tramonto del sole sul Mekong , un sole grande e rosso come non ho mai visto altrove.

E un’altra foto mi colpisce, una bottiglia di un intruglio liquoroso nel quale come saporito additivo ci sono uno scorpione e un serpente invece della ruta o del gènepi.

Sotto la foto annoto che il mio schifoso compagno ha osato bere l’intruglio come già in Brasile aveva leccato da un albero grosse formiche bianche. Quanto a schfiltoserie però devo ricordarmi quando, sempre in Brasile, vincendo la mia repulsione, ho accarezzato un anaconda che secondo l’omino che l’aveva raccolto, ha gradito la mia carezza.

Ed ecco che ritorno qui, anzi in me.

Cerco di mettere a posto il viaggio di tutta una vita ma è un puzle impossibile da ricomporre. I percorsi non si conciliano nonostante la mia volontà di farli combaciare in quella famosa cicogna.

Ma forse va bene così e non si può dare un ordine alla vita.

Sono d’accordo con Fania Cavaliere “… perché l’anima umana non patisce le contraddizioni, anzi, forse è strutturalmente antinomica… a dispetto degli sforzi quotidiani con cui la maggior parte di noi

si affanna a credere coerente la propria.” (Il novecento di Fanny Kaufmann, pag.164)

 

21-04-2021