Dell’aborto e delle questioni legate alla maternità - legge 194, pillola abortiva, consultori e movimento per la vita, adozione degli embrioni - parlano oggi all’impazzata le massime autorità della Chiesa, dello Stato, della medicina, della giurisprudenza, della cultura e dell’informazione. Tacciono le dirette interessate, le donne che si sono già trovate o che potrebbero trovarsi nella condizione di dover rinunciare a una maternità e quelle che, pur non avendo mai abortito o non avendo più questo problema, ritengono comunque di dover sostenere la scelta delle proprie simili. Più le voci si alzano, da destra e da sinistra, in nome di Dio o della laicità calpestata, per rispetto di una “natura” immodificabile o della libertà delle donne di disporre del proprio corpo, più si allarga la zona d’ombra e di silenzio in cui va a cadere un’esperienza di vita e di relazione tra gli esseri umani che non a caso suscita un interesse così esteso, un così impellente bisogno di definire limiti, concessioni e divieti. Nel momento in cui il loro corpo, e le traversie che l’accompagnano, diventa “pubblico”, le donne spariscono dalla scena, come se si fosse concluso un millenario esilio nell’unica ricomposizione prevista dalle polarizzazioni della storia, tra maschile e femminile, cultura e natura, privato e pubblico, ecc., e cioè l’assorbimento del “diverso”, dell’“anomalo”, del “minaccioso”, dentro l’orizzonte del sesso che ha imposto il suo dominio, e quindi il suo modello di civiltà. Ma come capita quando si è troppo assuefatti al rumore, è il silenzio che finisce per sorprenderci e per farsi ascoltare. E allora viene immediata la domanda: perché le donne tacciono? Perché, anche quando parlano, è così impercettibile la consapevolezza che dovrebbe distinguerle dallo sguardo oggettivante con cui la scienza, la politica, la cultura in generale, hanno guardato alla loro vita, natura senza storia, umanità minore da sottomettere o da proteggere? Perché appaiono così lontane, perse nel mito di una stagione senza ritorno, le appassionate discussioni che portarono all’approvazione della Legge 194, le testimonianze di esperienze vissute, rese nei luoghi meno protetti dalla riservatezza, come le assemblee e le manifestazioni? Ma, soprattutto, per quale inspiegabile ottenebramento, o rimozione, si parla dell’aborto come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso? Che si chieda a gran voce la loro ribellione, come ha fatto qualche illustre ginecologo, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli. Maternità e aborto sono, senza ombra di
dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa,
contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di
violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in
presenza di culture altamente civilizzate.
Limitarsi ad affermare il primato della
donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che
trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto
più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che
di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della
scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti
dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una
nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del
novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa
anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo,
e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il
diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni
che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita
di ognuno. Tra i “valori” su cui le destre, cattoliche e ateisticamente devote, intendono impostare la loro campagna elettorale, campeggia, come già si può vedere, il corpo femminile, il suo “naturale” destino di continuazione della specie, di negazione di sé per il bene dell’altro, di cerniera immobile tra la famiglia e la società, di urna domestica depositaria di tutte le virtù che vengono sistematicamente disattese dalla vita pubblica. Se ci fa orrore e ci riempie di
indignazione che i più accesi sostenitori della guerra e della superiorità
dell’Occidente siano anche gli zelanti San Cristoforo ansiosi di
traghettare neonati fuori dalle infide acque materne, dobbiamo anche
chiederci se, opposto e speculare a questo atteggiamento, non sia la
difesa a oltranza della donna “vittima”, l’insistenza sulla figura materna
e sull’aborto come “questione femminile”, anziché portare l’attenzione,
come sarebbe logico, alla forma che ha preso storicamente il rapporto tra
i sessi. questo articolo è apparso su Liberazione del 27 novembre 2005
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