Perché parliamo di Radici

Luciana Percovich


Mettersi nell’atteggiamento di ricerca delle proprie radici più profonde è un gesto di riconoscimento e di amore verso la madre-terra che ci generato e nutrito, e di speranza attiva verso il futuro.

Un atteggiamento urgente nel momento in cui la nostra “civiltà” che per brevità chiamiamo “patriarcale” mostra drammaticamente di non avere la capacità né la volontà necessarie per uscire dall’osceno degrado provocato dallo sfruttamento indiscriminato della natura in tutte le sue manifestazioni, terra, acque, aria e creature senzienti.

Sradicate e sradicati come oggi per la maggior parte siamo, galleggiamo su un oceano di problemi e difficoltà, sia materiali che dell’anima.


 

L’archeologa Marija Gimbutas, che ha riportato con forza alla luce un modello di civiltà equilibrato e pacifico che precedette durante il Neolitico in tutta Europa le cosiddette Civiltà storiche, ha scritto nel suo ultimo libro La civiltà della dea:

“Con quest’opera intendo riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non abbastanza metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra visione del passato, nonché la percezione delle potenzialità del presente e del futuro.

L’uso del termine civiltà richiede un approfondimento. Secondo le ipotesi degli archeologi e degli storici, ‘civiltà’ è sinonimo di un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico, di un’economia bellica, di una stratificazione sociale e di una divisione complessa del lavoro. Questo modello è infatti tipico delle società androcratiche (dominate dall’uomo) come quella indoeuropea, ma non si applica alle culture ginocentriche (centrate intorno alla donna e alla madre) descritte in questo libro.

Il Neolitico europeo non è stato un tempo ‘prima della Civiltà’ … ma una vera e propria civiltà nella migliore accezione del termine”.

 

Se il compito che ci troviamo davanti a livello globale è dunque quello di immaginare forme di aggregazione familiare, sociale, economica in grado di continuare e portare avanti – invece che ostacolare – la creazione, è a livello locale che possiamo e dobbiamo prima di tutto mutare lo sguardo con cui passivamente vediamo il degrado che ci cresce intorno e cercare poi di ri-imparare il rispetto e la cura per la terra che ci sostiene.

Un passo indispensabile in questa direzione sta nel conoscere ciò che ci circonda e ciò che è stato prima di questa discutibile civiltà attuale - che non è né l’unica né l’unica possibile – e nell’abbandonare lo sguardo utilitarista sul mondo che ci ha portato fin qui. Nell’imparare a riconoscere quel che è il risultato presente di quello sguardo e quello che è stato prima. E nel prendercene cura.

Ovunque viviamo possiamo trovare intorno a noi le tracce fin qui svalutate di un diverso modo di stare al mondo praticato da chi ci ha precedute nella storia: nei reperti dei musei, negli oggetti di culto e di lavoro, nei ricami e nei canti, nelle feste e nei cibi. E più indietro saremo capaci di spingere lo sguardo, più troveremo i chiari segni lasciati dalle Potnie mediterranee, ossia dalle Signore delle Piante e degli Animali Selvatici che furono per millenni le guardiane simboliche della sapienza e della civiltà che precedette le guerrafondaie culture di Greci, Romani e Cristiani.

Una civiltà che nel Neolitico si estendeva da Gibilterra alla vallata dell’Indo, come ha mostrato un’altra preziosa studiosa italiana, Momolina Marconi, che ha riportato tra noi le profonde conoscitrici delle virtù delle piante e degli animali, dei cicli della vita e della morte, come Maia, Angizia, Mefite, Feronia e tante altre dagli infiniti nomi con cui sono state chiamate in luoghi diversi, e che per lunghi millenni di pace hanno amministrato salute e prosperità.

 


Olivo del Salento

Occorre sapere dove affondano le nostre radici, dove possono trovare nutrimento e ritrovare quello strato sepolto sotto le macerie dei popoli che vennero dopo come conquistatori.

Senza radici siamo come fiori recisi o ceppi di legno buoni solo da ardere.

Vogliamo pensare globalmente ma con i piedi che affondano qua dove siamo, per trarre vita, forza e insegnamento dalla terra.

Riconnetterci alle nostre radici non significa agire in una dimensione miope e astorica, come qualcuna paventa, ma piuttosto riacquistare il senso dell’interconnessione di tutte e tutti con tutto il pianeta. E ridare senso profondo ai gesti e alle scelte che compiamo, o non compiamo, giorno dopo giorno, perché ogni scelta che facciamo momento per momento influisce sul tutto e indirizza in un senso o nell’altro il futuro che verrà.


17-11-2016

 

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