La Sapienza delle madri alle radici d’Europa.

Testo dell’intervento di Luciana Percovich

al Convegno di Pistoia Matri-Arkè del 4 e 5 ottobre 2014




L’archeologia dell’Europa Antica, prima dell’avvento delle culture basate sul dominio, ha restituito alla memoria una civiltà ispirata all’equilibrio, che poneva al centro la Sapienza delle madri. Nell’architettura delle case, dei villaggi, delle tombe e nella scrittura tutto parla della vita e della tensione a prendersene cura attraverso i simboli del ciclico rinnovamento.


Non è facile riassumere in poco tempo alcuni millenni di storia, e per di più una storia che ancora fatica - in ambito scolastico e accademico - a essere riconosciuta come tale e che pertanto poco è entrata nell’immaginario comune condiviso. Mancato riconoscimento o riconoscimento faticoso che trova le sue ragioni nel fatto che non si tratta solamente di rivedere, antedatandola di alcuni millenni, la cronologia corrente, ma perché viene messa in discussione tutta una serie di presupposti epistemologici che riguardano, oltre l’ambito storico, quello religioso e filosofico.
E, in primis, il concetto stesso di “civiltà” che per noi, paradossalmente, inizia con le guerre degli eroi e degli dèi dell’Olimpo. Cioè con quella parte della Storia, molto più recente, che è la storia dei Padri Guerrieri e Predatori.

La visione occidentale del nostro passato, e delle civiltà altre dalla nostra, si è affermata nell’Ottocento in un clima prevalentemente evoluzionista e fortemente misogino, basato sulla convinzione che l’umanità si sia mossa da un passato indistinto (la “preistoria” dei popoli “primitivi”) ai magnifici esiti tecnologici del presente, seguendo un’ideale linea retta chiamata Sviluppo della Civiltà.
In questa visione, l’Uomo /Maschio ha creato modelli di aggregazione via via “migliori”, sia che si tratti di quelli piccoli come la famiglia, che di quelli grandi come le nazioni o le attuali entità multi o sovranazionali, auto-organizzandosi secondo una “spontanea” struttura gerarchica, quasi fosse l’universale forma iscritta nelle cellule di tutta la materia vivente.

Dopo il lavoro di Marija Gimbutas niente è rimasto come prima nella ricostruzione della nostra storia delle origini. E la definizione proposta da Heide Goettner Abendroth, il titolo stesso di questo convegno, “all’inizio (arkè) le madri”, proprio nell’ambito dell’archeologia del neolitico trova la sua prima dimostrazione.

Tratteggiando a grandi linee la ricostruzione gimbutiana dell’antica civiltà europea, vediamo come per alcuni millenni, che raggiunsero il loro apice tra il 6500 e il 3500 ac, il nostro continente abbia conosciuto una raffinata e complessa civiltà (La Civiltà della Dea), vivendo in insediamenti anche vasti, che non mostrano tracce né di guerre né di disuguaglianze sociali né di genere, dedicandosi alle arti oltre che alla produzione dei beni necessari alla sopravvivenza, sviluppando un raffinato sistema simbolico e di scrittura visiva, collegato alle credenze religiose, in armonia coi cicli della natura e al cui centro stava una figura di donna.

E diventa sempre più verosimile pensare che tutti i popoli della Terra abbiano attraversato in un lungo momento del loro passato una fase matrifocale, evolutasi poi seguendo le linee temporali e le forme proprie delle diverse culture dei vari continenti. Di cui gli studi di Abendroth raccontano la persistenza/resistenza al presente (Le Società Matriarcali).

Narrazioni mitiche e in particolare i miti di creazione al femminile, i costumi parentali deducibili dalle modalità di sepoltura e dalle credenze nell’aldilà, le forme artistiche ed architettoniche, i simboli incisi o scolpiti o dipinti sul vasellame, se studiati alla luce di questa nuova consapevolezza, possono portarci a una visone molto diversa e insieme molto più fondata su come sia avvenuta - solo da un certo punto della storia in poi - la trasformazione culturale in senso patriarcale/androcratico, che ha finito per portarci nella stretta gabbia in cui tutte/i oggi ci troviamo rinchiuse/i.

Nel cuore dell’Europa, nell’area danubiana e anatolica nel Neolitico, prima è fiorita una grande e duratura civiltà pacifica, di tipo sedentario e agricolo, forse quella che il greco Esiodo ricordava come “l’età dell’oro” e che Gimbutas chiama col nome delle regioni in cui fiorì: Cucuteni, Karanovo, Vinca, Lengyel, ecc. Nomi che ancora non entrano nei sussidiari scolastici.

Poi è avvenuto lo scontro con popoli proto-indoeuropei portatori di una diversa organizzazione sociale, nomadi e dediti alla pastorizia, arrivati a piccoli gruppi ma continui in tre ondate successive nell’arco di un paio di millenni: a cavallo, armati, portatori della tecnologia dei metalli duri, organizzati in una struttura gerarchica e guerriera.

“Una società esogamica, patriarcale, patrilineare e patrilocale … orientata sul cielo e sui signori del tuono e del fulmine … con una struttura polare del mondo (giorno/notte, splendente/buio, maschio/femmina)” scrive Gimbutas. Un brusco spostamento di prospettiva, dunque, che ci fa di colpo vedere Greci, Romani, e poi Celti, Germani e Slavi in una luce molto diversa.

Gli insediamenti del Neolitico europeo, tra il VII e il III millennio sono posti su terrazzamenti naturali lungo i fiumi o laghi e sono privi di mura difensive e di fortificazioni; le abitazioni all’interno dei villaggi, anche vasti e articolati architettonicamente, presentano una tipologia uniforme priva di distinzioni di rango (zone di templi o edifici pubblici versus abitazioni povere o capanne). Stesso discorso per le sepolture, in cui gli unici segni di distinzione riguardano gli oggetti propri dell’attività della defunta/o, posti accanto al corpo, oltre alle statuette, quasi sempre di piccole dimensioni che compaiono abbondanti in ogni sito, dei vivi e dei morti, e che noi chiamiamo della Dea: simbolo della concezione olistica della vita, legata al ciclo di vita, morte, rigenerazione e nuova nascita. Segni dunque, lasciati da millenni sui territori d’Europa, di una civiltà policentrica, priva di centri di potere dominanti, sia tra villaggi che all’interno di ogni singolo villaggio.

Scrive Gimbutas: “Non vi sono tracce di aggressione territoriale e l’assenza totale di armi letali implica una coesistenza pacifica tra tutti i gruppi e gli individui” (La Civiltà della Dea, vol. 1, p. 60); e ancora: “arroccare le abitazioni su ripide alture o altri luoghi inaccessibili era sconosciuto in questo periodo pacifico” (ibidem), forma abitativa che invece diventerà il modulo costruttivo dominante del periodo kurgan (ultima parte de La Civiltà della Dea, vol. 2 e Kurgan).

Si coltivavano frumento, orzo, veccia, lenticchie, piselli e lino. Si allevavano pecore, capre, bovini, maiali e cani. Con l’instaurarsi di questa economia basata sulla produzione di cibo, la continuità di tecnologie del paleolitico superiore favorì la crescita delle comunicazioni e degli scambi di ossidiana, marmi, pietre colorate e conchiglie di spondilo e, da un certo punto in poi, di ceramica variamente impressa o dipinta.

Anche la tessitura era ampiamente sviluppata ed entrambe queste attività - ceramica e tessitura, le tecnologie portanti del periodo - erano organizzate e gestite dalle donne, come mostrano numerose raffigurazioni e le narrazioni mitiche.

L’interno delle case è organizzato intorno al focolare, in cui avviene l’alchimia della trasformazione del crudo in cotto, sia che si tratti di cibi che di utensili o statuette. Uno o più focolari e forni sono stati trovati nelle stanze delle case più grandi, che variano dalla forma rotonda a quella rettangolare. La donna governa il fuoco e i suoi molteplici usi.

Un accenno speciale va fatto sulle piattaforme sollevate poste intorno ai forni, dove sono state trovate molte statuette femminili, e ai piedi delle mura delle case, su cui trovano riposo i vivi la notte, mentre sotto di esse spesso riposano le ossa di alcuni morti speciali (bambini, giovani e donne), verosimilmente considerati i guardiani delle soglie tra i mondi. Questa caratteristica è ben evidenziata a Catal Huyuk (6500-5700) in alternativa alle sepolture comuni costruite in spazi destinati a questo uso prevalenti altrove.

La casa man mano si fa più grande e comprende un laboratorio per la trasformazione di tutto ciò che serve alla vita del clan. La cellula base del villaggio è la casa matrilineare, in mezzo alle altre case o capanne destinate a svariati usi.
Case con una doppia stanza a livello di terra adibito a laboratorio e con un piano superiore adibito alle funzioni sacre (che Gimbutas le chiama “templi, aree di stoccaggio comune per frutta e granaglie, secondo il calendario delle feste stagionali” G. 1, p.153) compaiono in quasi tutta l’Europa a partire dal VI millennio.

Mettendo a confronto queste strutture materiali riportate alla luce dagli scavi archeologici con i risultati degli studi antropologici sulle culture matriarcali ancora esistenti, possiamo cogliere molte analogie. Ossia le strutture abitative dei villaggi neolitici europei sono assolutamente compatibili se non addirittura combacianti con le organizzazioni sociali matriarcali.

Il matriclan è costituito dall’insieme di figlie e figli, nipoti, zii, fratelli e sorelle legati da rapporto di consanguineità alla donna più l'anziana, il cui lignaggio di parentele e di conoscenze pratiche e simboliche viene fatto risalire ad un’antenata mitica.

Insieme si svolgono i lavori necessari e quando più clan vivono in uno stesso villaggio vige qualche forma di condivisione e di rotazione dei beni primari, come i campi, i boschi e l’acqua; mentre i mezzi di produzione e/o le competenze tecniche proprie di ciascun clan vengono usati tenendo sempre in vista il mantenimento di un’armonica distribuzione della “ricchezza”, l’evitare l’instaurarsi di qualsiasi tipo di squilibrio nella generale tessitura collettivista ed egualitaria.

Né le figlie né i figli abbandonano la famiglia d’origine, l’uomo si reca nella casa della sua amata di notte (marito in visita) per tornare di giorno ai suoi ruoli nel proprio clan materno. Bimbi e bimbe nascono e vengono allevati comunitariamente dalle madri dalle zie e dalle nonne e la figura maschile per i bambini non è rappresentata dal padre biologico ma dal fratello/i della madre. Gli uomini del clan esercitano soprattutto l’artigianato legato prima alla lavorazione della pietra e poi dei primi metalli (Europa centro-orientale, dal 5.500, rame e oro) e svolgono un ruolo di ponte con gli altri clan e l'esterno più in generale. Il commercio cresce stabilmente tra il 5500 e il 4500, che è anche il periodo di massima fioritura dell’Antica Europa (G.1, p. 138.)

E veniamo infine alle sepolture, che indicano un grande rispetto per la comunità degli antenati con corredi funerari individuali raramente presenti, a parte qualche ornamento o arnese simbolico, associati per lo più con la dea e con la rigenerazione (corna e ossa di cervo, ossi mascellari di cinghiali e maiali, scheletri di cani, teschi e corna di buoi e ossa o ali di uccelli rapaci, statuette di dea). Sulla simbologia di questi oggetti rimando di necessità al libro Il linguaggio della Dea. Non esiste distinzione di rango/ricchezza, ma oggetti simbolici e ornamenti sono riservati a Vecchie e Fanciulle. Tutto ciò cambia dopo la venuta dei Kurgan.

Esistono sia tombe individuali (a forma di uovo col corpo rannicchiato in forma fetale e ricoperto di ocra rossa) che comuni (a tumulo rotondo, a corridoio, a cortile, a utero, a cista in fosso, a forma di corpo femminile e megalitiche francia, penisola iberica, isole britanniche); molto frequente è la sepoltura collettiva di famiglie allargate. Le tombe collettive più grandi vengono usate in successione, a strati. Doppia sepoltura (scarnificazione e raccolta ossa): in questo caso il teschio (talvolta rimodellato in gesso e con occhi occupati da conchiglie) è separato dal corpo e conservato lungo le pareti della tomba o in casa sotto le piattaforme o nelle fondamenta delle mura (Catal Huyuk). La maggior dotazione accompagna le Vecchie (dabu, madri clan) e le giovani fanciulle (bene prezioso per la discendenza e mantenimento del clan). Gli uomini presenti nelle sepolture sono accompagnati da oggetti che testimoniano la loro attività artigianale o commerciale (conchiglie).

In alcuni casi sono state effettuate analisi genetiche sulle ossa come a Lengyel, in Polonia occidentale (4300 ac.) e a Nordhausen, Germania centrale, (3500 ac. ), in tombe comuni da cui risulta la consanguineità di tutti i sepolti, donne e uomini, con la donna più anziana, capostipite e madre del clan, riflettendo nel Mondo di Sotto la stessa struttura del Mondo di Sopra.

E concludo con questa riflessione: siamo la prima generazione che sa qualcosa di più di essenziale rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, che nel passato e nel presente sono esistite ed esistono civiltà radicalmente diverse, dotate di un orizzonte di senso e di valori che riguardava e riguarda tutti gli aspetti della vita e di ciò che è pensabile dalla mente umana, ossia il Simbolico: famiglia, organizzazione sociale, economia, politica, immaginario, credenze sul sacro e sul divino, il corpo, gli affetti, la salute e la malattia, il cibo, l’uso del tempo … perché tutti questi aspetti della vita umana sono strettamente intrecciati.

Questo “di più” non è solo un sapere della mente, è anche e forse soprattutto una conoscenza che cura, le ferite, i vuoti di memoria, di identità, e può caricarci di nuova energia e determinazione.

Oggi non possiamo più dire “il passato rimane sconosciuto”, ma piuttosto “non voglio sapere”. Si tratta quindi di assumere consapevolmente che si sta facendo una scelta, politica avremmo detto qualche decennio fa, da cui derivano delle responsabilità.

E questo, per me, è il profondo insegnamento che ci viene dalle società matriarcali del presente e del passato, una sorta di “ricomincio da tre” e non da zero quando cerchiamo alimento per immaginare il nostro comune futuro.


19-10-2014

 

 

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