Del diritto alla felicità


Nicoletta Buonapace


Un laboratorio che si chiamava Emozione e relazione nei linguaggi dell’apprendimento femminile e plurale, da poco concluso presso la Libera Università delle Donne di Milano e condotto da Giuditta Pieti.


Un laboratorio che è stato officina di sentimenti. Un tentativo di leggerli, attraverso le nostre diverse esperienze, i ricordi, i pensieri, intrecciati con storie, miti, favole, a volte immagini. Spesso suggeriti da una parola poetica, quella che ha la capacità di giungere in zone di risonanza più profonde. A me, che frequento, per passione personale, una parola poetica, è sempre sembrato più semplice esprimere un sentimento leggendo un verso che non dirlo con le parole della quotidianità.

Spesso una difficoltà che risiede nella nostra abitudine alla chiacchera, nella quale la parola parlata, il dialogo, non rende il sentire, quel sentire confuso, complicato da ombre e contraddizioni, ma non per questo meno autentico. Anzi, spesso il contrario. Più si annaspa nella ricerca del senso e più la ricerca è autentica. A volte, vale più un balbettio di un intero discorso, perché porta con sé il segno unico e originale di chi gli dà espressione.

E’ difficile raccontare un percorso inanellato di parole chiave, come abbandono, gelosia, nostalgia, noia, arroganza, invidia, ambiguità, odio, solidarietà, ognuna portatrice d’un mondo e d’un’esperienza differente per ciascuna di noi. Eppure educarsi ai sentimenti significa proprio trovare in essi una qualche radice comune, una possibilità di pensiero condiviso.

Più volte mi sono detta, nel ragionare tra me e me, che quello che comunemente chiamiamo cuore, ha una capacità d’intelligenza maggiore del nostro ragionare. Non per stabilire ancora opposizioni tra testa e cuore, pancia e cervello, quanto per dire che un sentimento, qualunque sentimento, non sempre è così immediatamente traducibile, né così facilmente definibile dal linguaggio che abbiamo appreso, a partire dalla nostra infanzia, e via via fino al nostro divenire adulte. Un linguaggio intessuto di storie stereotipate, di convinzioni scontate, di abitudini di pensiero, paradigmi di un ragionare collettivo che non ci corrisponde.

Senza considerare poi la paura del conoscere e del conoscersi. Forse l’aspetto più prezioso di un tale laboratorio è proprio questo: allenarsi a pensare e pensare insieme, affrontando la paura e la fatica che questo comporta. Il pensare è sempre stato opposto al sentire e da questo punto di vista, la tradizione femminile e femminista ha molto da insegnare.

Si aggiunge a questo, che mi sembra un percorso in continuo divenire, il valore tuttavia di una singolarità irriducibile a un pensiero collettivo e al di là di ciò che siamo abituate a pensare in termini di maschile e femminile. Una singolarità i cui confini fanno fatica a espandersi, ma mossa dal desiderio sempre vivo di oltrepassarli. Questo spostamento diviene più semplice se fatto insieme.

Un’idea che mi ha sempre colpito è proprio quella che afferma che quel che non può realizzare il singolo, può realizzarlo il gruppo. Pensare a un gruppo non come un’entità confusa, opaca, amebica, nella quale l’individuo scompare, ma come a un luogo in cui è possibile muovere pensieri ed energie, per un progetto sia personale che collettivo, di crescita e di accrescimento di bellezza nel mondo, può divenire un orizzonte politico auspicabile.

Mi vengono in mente il dolore e le domande e la rabbia legati ai tanti lutti portati da terrorismo, guerre, migrazioni, il senso di veli che coprono teste e altri tipi di veli, che coprono verità scomode, le difficoltà a misurarci con ciò che ci è estraneo, che ci appare come il male, la violenza così drammaticamente presente nei rapporti d’amore, i tanti temi che abbiamo attraversato.

Imparare allora a valorizzare e mettere in luce quei conflitti che muove la ricerca di sé e il desiderio di “cambiare il mondo”, imparare a superare la tentazione dell’esclusione, il ripiegamento o l’aggressione che porta il senso di minaccia, insito al conflitto stesso, riuscire a farlo insieme, trovando un terreno comune in quell’esperienza che è il soffrire, l’amare, il gioire, con tutti i limiti dati dalla nostra comune mortalità, può significare da una parte disporsi a conoscere le proprie ombre, dall’altra mobilitare quelle che sono le risorse di una nuova conoscenza sentimentale per una scuola di convivenza, nella consapevolezza che la pace non è mai pacifica. C’è qualcosa in questo che riguarda le relazioni personali come quelle collettive, il coraggio di divenire ed essere ciò che si è e insieme costruire un mondo in cui ciascuno possa essere e divenire ciò che è.


4-05-2017

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