Riteniamo utile proporre questo intervento di una pensatrice femminista inglese che ci invita a riflettere sul nostro rapporto con le "altre" donne, sullo sguardo che rivolgiamo a quelle che incontriamo nelle strade delle nostre città e provengono da lontano; "noi" e "loro" prese in un vecchio gioco di specchi che l'ideologia patriarcale propone in forme rinnovate e aggiornate.


I volti svelati della buona meticcia
di Nirmal Nuwar

Da il manifesto del 22 giugno 2003


Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule sono tutti sotto i riflettori. E' a queste figure che si volge lo sguardo dei media, delle agenzie di governance globale e locale, dei professionisti del capitalismo in stile multiculturale, degli accademici e degli attivisti.

Ciascuno di essi ha un proprio motivo particolare per guardare e cercare. Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di regolare quei corpi il cui lavoro è necessario ma la cui cittadinanza (umanità) è rifiutata. E poi c'è la pretesa incessante di scorgere chi sta dietro al turbante, al velo, al pizzo, a quella pelle non-bianca; il sospetto alimenta pericolo e risentimento.

Mentre alcuni di questi corpi sono accusati di arrecare distruzione alla terra promessa, altri - e spesso gli stessi, sebbene con sfumature leggermente diverse - vengono celebrati perché evocano un paradiso tropicale. Colore e aroma avvolgono le metropoli in una fanfara etnica. Black Cool, Asian Cool: di qualunque cosa abbiate voglia, è lì per essere consumata. E casomai pensassimo che la vita metropolitana è facile, c'è sempre il rumore della violenza (razziale, sessuale e sul lavoro) a sorprenderci con periodiche rivendicazioni di giustizia. Tanto gli attivisti quanto gli accademici sono attirati dalle città, le città globali, perché è qui che l'incommensurabile si concentra. Il fascino è qui, perché non è possibile sapere quali novità emergeranno dal sangue, dal sudore, dalle lingue, dagli odori e dai suoni che si mischiano insieme.

I corpi delle donne di colore che lavorano negli sweatshops di East End a Londra, le collaboratrici domestiche nelle case, negli uffici e negli aeroporti delle città globali, le dita che si muovono «agili» fra i circuiti elettronici nelle zone di libero commercio, l'ibrida gioventù metropolitana che indossa il sari e le scarpe da ginnastica, e specialmente coloro che ci narrano storie con l'eloquenza delle loro parole, sono in grado di catturare l'attenzione degli accademici come mai prima d'ora.

Si pensa che il mistero della nostra condizione globalizzata risieda proprio lì, nel corpo della «donna nera», la «donna del terzo mondo» e la donna tribale «subalterna». Ha avuto luogo una trasformazione notevole, per cui queste «altre» donne sono passate dal non avere riconoscimento in nessun luogo della sfera pubblica all'essere ovunque. La gente non ne ha mai abbastanza di loro, o forse dovrei dire di «noi».

Viviamo un tempo in cui per coloro che vagamente si definiscono di «sinistra» è divenuto urgente stringere alleanze politiche attraverso i paesi e all'interno di questi. Si riconosce ampiamente che abbiamo bisogno di connessioni globali che ci aiutino a esercitare pressione e a destrutturare i nodi strategici del potere. Le linee di potere attraverso il mondo sono così intrecciate e pluridimensionali che è importante che vi siano vettori di connessione politica altrettanto elaborati, se non di più. Non v'è dubbio che sia necessario un dialogo capace di parlare dentro e attraverso i nodi della differenza. E tuttavia, una cosa è l'impegno nella costruzione di dialogo, cooperazione e alleanza, altra cosa è il modo in cui onoriamo questo impegno. Quando ci sporgiamo all'esterno e cerchiamo connessioni, è fondamentale riflettere sullo spirito che anima tutto questo. Quando coloro che risiedono nelle nazioni più ricche si sforzano di costruire un dialogo coi meno privilegiati, dobbiamo chiederci: come può il Nord avvicinarsi al Sud? Occorre interrogare il carattere delle energie e delle emozioni attraverso cui si formano punti di contatto nell'ambito dei circuiti politici. In un periodo in cui diviene un imperativo assoluto forgiare un arcobaleno di coalizioni che lavorino con donne di colore, donne subalterne, che vivono nel Sud, diventa altrettanto urgente chiedersi: su che basi avete invitato queste donne a parlare? Esiste una struttura di rappresentazione di queste figure che esercita un impatto profondo sulle forme in cui queste donne sono invitate a far parte di gruppi politici, iniziative creative o forum accademici. Le rappresentazioni sono all'opera tra luoghi diversi, e i movimenti politici radicali non ne sono immuni. E sebbene esistano importanti variazioni fra i diversi spazi, emerge una notevole comunanza nei termini in cui viene loro garantita la coesistenza.

Ci sono delle tendenze molto problematiche rispetto al modo in cui «noi» siamo invitate a partecipare al tavolo, alla piattaforma o al corteo. Se accettiamo che il momento dell'emergenza è anche il momento per emergere, allora è tempo di ripensare su quali basi la donna subalterna (assumendo questo termine come indicativo di una figura ampia ed eterogenea) sia chiamata a partecipare. E ancora, in un intenso momento di riflessione dovete chiedervi - come organizzazione, gruppo o individui: che cosa state cercando nel corpo di questa figura? Che cosa scegliete di vedervi? Che cosa volete sentire? State ascoltando veramente o percepite solo l'eco delle vostre fantasie? Che cosa le è consentito di essere nel vostro interessamento verso di lei? E' su tali presupposti che questo contributo invita tutte le organizzazioni, politiche o di altro genere, a considerare in primo luogo su che basi alle femministe nere, alle donne subalterne o del terzo mondo sia resa disponibile una posizione di parola, e poi che cosa si cerchi in particolare dai corpi di queste donne; in altri termini io chiedo: «che cosa andate cercando?». Le risposte a queste domande sono nell'osservatore. E' colui/colei che guarda a doversi interrogare.

In una serie di lavori intitolati «Album Pacifica», Mohini Chandra - un'artista che gli spostamenti familiari hanno condotto in India, nelle isole Fiji, in Australia e in Inghilterra - esibisce al pubblico una collezione di foto di famiglia. Insolitamente, e in modo efficace, le fotografie ci vengono presentate rovesciate. Nel cercare indizi di che cosa la foto possa contenere dall'altra parte, quella che siamo abituati a vedere, l'osservatore è indotto a guardare i segni sul retro della foto. Macchie, strappi, lacrime, timbri di passaporto, impronte digitali diventano visibili in questa ricerca. In qualche modo lo spettatore ha la tentazione quasi irresistibile di prendere queste foto e vedere che cosa possano rivelare. Come osservatori non ci accontentiamo del retro. Per aggiungere un'ulteriore dimensione, Chandra esibiva queste fotografie in teche di vetro, rievocando le antropologiche «teche di curiosità» che disponevano le culture secondo tipologie gerarchicamente definite. Queste bacheche ancora una volta ci «stuzzicano» nel disporre le foto come oggetti preziosi da proteggere. La natura esatta dei misteri che giacciono dietro il vetro protettivo ci è negata. Chandra riesce a rompere il nostro desiderio di vedere, indagare e confermare la nostra percezione delle persone che sono dall'altra parte della foto. Ci sfida a ripensare perché desideriamo vedere e situare. Interrompe il nostro sguardo, proprio nel pieno dell'atto di guardare esso ci viene rimandato indietro. Le domande che ci rivolge sono: che cosa vai cercando? Che cosa vuoi vedere dall'altra parte? E come mai l'immagine di ciò che ti aspetti di vedere è così importante per il tuo senso del luogo nel mondo? Se intraprendiamo il viaggio che Chandra ci suggerisce, ritorniamo a noi stessi. (...)

La fame di narrazioni di «vittimità» ha una lunga storia. Al culmine dell'antropologia, le distinzioni fra l'Occidente e il resto del mondo diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di curiosità. I corpi delle donne provenienti da questi «altri» luoghi rivestirono un ruolo centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato, spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto ciò che è percepito al tempo stesso come attraente, repulsivo, bisognoso di correzione è stato proiettato da questi «altri» luoghi sulle figure femminili. Nel rappresentare il fardello dell'uomo bianco così come della donna bianca, le donne di «altri» luoghi hanno offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un sentimento di missione, definendo per loro un senso di identità quali politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici.

Il linguaggio del femminismo e della liberazione delle donne fu utilizzato dai colonialisti, per esempio Cromer, per rimarcare i confini tra l'occidente liberato e l'oriente barbarico, producendo così una soggettivazione della mascolinità coloniale bianca. Il fatto ironico è che mentre gli uomini bianchi dell'establishment vittoriano si opponevano alla causa femminista nei propri paesi, essi catturarono il linguaggio del femminismo e del colonialismo e «... lo deviarono, al servizio del colonialismo, verso gli Altri uomini e le loro culture». Guardando a tutto questo attraverso l'immagine spettrale di un sati (la pira di fuoco dove le vedove indiane doveno immolarsi assieme al cadavere del marito) ardente, così spesso evocato nei discorsi occidentali, Gayatry Chakravorty Spivak ha evidenziato come l'abolizione del sati e il complesso di leggi che furono emanate in nome delle donne indiane dai britannici costituissero un esempio classico degli «uomini bianchi che salvano donne scure da uomini scuri», aprendo la strada a ciò che Rajan descrive come una «metafora di cavalleria», un rito di passaggio per giovani uomini bianchi verso la mascolinità amorosa.

La descrizione, nei resoconti ufficiali, delle donne che si sottoponevano alla pratica del sati come vittime o eroine, ha precluso la possibilità di una «soggettività femminile che è mutevole, contraddittoria, inconsistente», ma ha alimentato la proliferazione di un «paradigma salvifico», che spesso aveva una sfumatura di «piacere voyeuristico», specialmente se la protagonista del sati era tragicamente considerata giovane e bella.


Tuttavia, non fu solo il cavaliere dall'armatura sfavillante a intraprendere la salvezza delle donne in India e in altre parti delle colonie, sotto la masquerade del «paradigma salvifico»; le donne occidentali, queste Imperial Ladies indossarono a loro volta questo abito - anche se con un'affettazione diversa - per ritagliare per se stesse, forse inconsciamente, una posizione soggettiva. La rappresentazione delle donne occidentali come protagoniste illuminate che avviarono la missione di alleviare le sofferenze patriarcali delle donne coloniali, fu fondamentale per la concessione dei diritti politici e di una soggettività politica femminile. Esse poterono ricorrere ad attitudini caritatevoli per affermare se stesse come protagoniste contro l'agenda politica escludente della mascolinità bianca e a fronte di concezioni dell'»individuo» politico liberale che non comprendevano le donne. I processi di esclusione dal corpo politico imposti dal «contratto sessuale» sono attraversati da un «contratto razziale» sessuato. (....)

Durante i bombardamenti e l'apparente liberazione dell'Afghanistan dopo l'11 Settembre, abbiamo assistito a uno degli episodi più crudi di comprensione della vita delle donne non occidentali da parte delle donne d'occidente. Un gruppo di ministre del governo laburista inglese ha sollevato assieme a Cherie Blair la questione di genere e l'ha resa pubblica. Si trattava della questione del burkha e del velo in Afghanistan; esse parlavano di solidarietà con le loro sorelle afgane immedesimandosi nelle sensazioni che si provano nell'indossare questo articolo di abbigliamento. Nel corso di questa campagna non consultarono i gruppi di donne nere o musulmane, che avrebbero invece potuto suggerire loro come interpretare questo oggetto senza ricorrere semplicemente a letture orientaliste che producono nozioni essenzializzate dei civili paesi occidentali e dei barbarici paesi orientali, in cui le donne devono esser salvate da un occidente illuminato. Esse avrebbero potuto trarre beneficio dalla scoperta che nessuna interpretazione uniforme si addice al fatto di indossare il burkha o il velo.

Le femministe post-coloniali hanno discusso a lungo sul velo, ma non credo che troverete questi libri nella biblioteca della Camera dei Comuni! Una delle preoccupazioni principali del femminismo post-coloniale è stata la questione del come sia possibile criticare i regimi patriarcali di società razzialmente definite, senza ricorrere a un pensiero orientalista e razzista. E il velo rappresenta uno di quei significanti razzializzati/sessuati (come il sati) perché, come ha fatto notare Leila Ahmed, la storia che lo avvolge è «gravida» di senso.

Tutto questo rende assolutamente cruciale il fatto che le modalità di resistenza non siano considerate esclusivamente attraverso i linguaggi occidentali o eurocentrici. Questo evento di grande rilievo, cui si aggiunse un'identica iniziativa trans-atlantica, è così ricaduto in tutte quelle trappole analitiche di cui, ormai parecchio tempo fa, ci aveva avvertito Mohanty. Nel caso qualcuno stia ascoltando, le richiamo qui.

Fondamentalmente l'autrice sosteneva che esiste un latente etnocentrismo nei testi femministi occidentali, i quali manifestano: 1) una tendenza a produrre/rappresentare una categoria monolitica della «donna media del terzo mondo»; 2) a definire e giudicare le vite di queste «altre» donne attraverso un «metro» che assume le vite delle donne occidentali di classe media come norma, «come referente implicito». (....)

Mohanty puntualizza che non sono solo le donne bianche occidentali a poter incorrere nella trappola dell'assumere la propria posizione come norma. Sostiene infatti che anche le donne del terzo mondo che vivono nel terzo mondo o in Occidente, o che viaggiano fra i due contesti, possono cadere facilmente in questi tranelli, che costituiscono un aspetto latente del femminismo internazionale.

La domanda: «che cosa cerchi nella figura del subalterno?» deve essere rivolta a tutte le correnti di pensiero intellettuali e politiche. Perché tutte si impegnano in una modalità di osservazione che è peculiare di questa figura. Quante volte gli analisti che lavorano nell'area dell'economia politica hanno dato per scontato il fatto che la loro prospettiva fosse la più radicale che si potesse assumere? E in più partendo dal presupposto che la loro analisi a muso duro non potesse avere conseguenze negative per i marginali che essi così accoratamente sostenevano. Proviamo a riconsiderare il tutto.

In un'analisi dei testi femministi all'interno degli studi sullo sviluppo, Aihwa Ong prende in considerazione delle raccolte di saggi che cercano di guardare alla posizione femminile nell'intreccio fra le forze capitalistiche globali e la quotidianità del lavoro pagato e non pagato. L'autrice nota che «il capitalismo vi è descritto come sistema polimorfo e storicamente determinato; esso presenta più contraddizioni e personalità delle donne e degli uomini che in apparenza sono i protagonisti del volume». E continua: «I contributi, nel complesso, ci dicono di più sul pensiero femminista-marxista riguardo al sistema capitalistico mondiale di quanto ci dicano sull'esperienza di donne e uomini nel contesto dell'industrializzazione». Che cosa si cerca nel subalterno? Esiste una tendenza a definire immagini semplici e statiche delle donne subalterne o «nere». Esse sono commiserate perché considerate vittime di molteplici oppressioni, oppure esaltate con toni estatici perché rappresentano delle eroine che faranno crollare un mondo pericolante. (...)

Il nostro comprendere spesso stringe la donna subalterna fra il voyeurismo dell'esotico fantastico e un «paradigma salvifico» alla cui origine risiedono «motivi di salvazione» riformulati e articolati in una miriade di contesti, compresi il «turismo rivoluzionario» e la «celebrazione della testimonianza» che si possono riscontrare nel femminismo internazionale e nella politica della sinistra globale più in generale.

Mentre inseguiamo una responsabilità etica nei confronti del subalterno attraverso una relazione di amore a due in cui sistematicamente nascondiamo a noi stessi i nostri privilegi così da «parlare a» e non «di», non dobbiamo sottrarci alla domanda scomoda e cruciale: Che genere di relazione etica con la subalterna stiamo cercando in prima istanza? Che genere di posizione soggettiva ci permette di detenere? Se le attiviste, le accademiche e le registe, per esempio (includo qui le femministe post-coloniali che si trovano nel ventre della bestia, che hanno accesso a forum pubblici, conferenze, circuiti editoriali e piattaforme dell'Onu), sperano di trasformarla, salvarla o proteggerla, come molte di loro fanno in un modo o nell'altro, allora devono prima di tutto demistificare «l'illusione che, attraverso la parola privilegiata, ci si stia mobilitando per salvare i dannati della terra».


Questo testo è pubblicato nell'ultimo numero della rivista «DeriveApprodi» in edicola da giugno 2003

le foto sono tratte dalla rivista telematica stringer