Pina Sardella, Il mondo delle donne

Rosella Prezzo


Il libro di Pina Sardella ripercorre la storia del CPD di Milano, di cui è stata una delle animatrici a partire dal 1973, e lo fa con partecipazione viva e uno sguardo sempre attento all’orizzonte complessivo in cui essa si è data. Ricolloca infatti, tappa dopo tappa, questa storia particolare nella più ampia cornice delle battaglie e delle conquiste del movimento di liberazione delle donne, un movimento che ha fatto la differenza; e che, a sua volta, viene connesso, in attrito e in corrispondenza, agli eventi del mondo (guerre etniche e stupri di massa, catastrofi ecologiche, rivoluzioni tecnologiche e scoperte genetiche, globalizzazione e processi migratori).

Così la mappa (o la mappatura), tracciata qui in modo essenziale, si ritrasforma in paesaggio vivo, ricco di figure e presenze; e un libro personale, tenendo coerentemente un capo del filo di una complicata matassa, diventa corale.

Il risultato è stato per me una lettura “sorprendente”. E non perché dica delle novità sorprendenti (in un certo senso è tutto già saputo), ma perché ci risveglia alla nostra stessa storia, richiamandoci a quelle che sono state le sue pratiche di libertà, dove libertà non è autarchico esercizio di sovranità o dominio, ma responsabilità di fronte agli altri/e e tra gli altri/e; è ciò che tiene aperto, anche nel conflitto, l’essere-insieme.

Il continuo intreccio e rimando, il pendolare tra locale e globale, lontano e vicino, sessualità e potere, corpi e politica, tra i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni, dell’arte, della filosofia, ci restituisce infatti la “sorprendente” ricchezza e pluralità dell’agire e del pensare delle donne negli ultimi decenni, la grande creatività di forme nuove di pensiero, di immaginazione e di partecipazione cui esse hanno saputo dar vita. In fondo, il filo conduttore di questo libro, il suo leitmotiv, mi sono detta leggendolo, è la differenza femminile che si fa storia, e che assume varie coloriture, tonalità, accenti, parole, pensieri e si rinnova in spinte propulsive. Ed è qui che ne colgo il senso e anche la vitalità, perché vi colgo non tanto la registrazione di fatti ed eventi, o l’imbalsamazione glorificazione di un passato, bensì il tentativo di rianimazione del presente.

Se infatti il passato non si riproduce può essere in grado di riprodurre desideri. E oggi è l’avvenire più che il passato a dover essere salvaguardato. La differenza (chiamiamola sessuale o di genere, poco importa), agita e pensata “nell’urto del presente” (come direbbe Arendt), crea infatti tensione e attrito, pone in risalto, evidenzia connessioni non viste, disfa trame precedenti per produrre nuovi intrecci e legami, promuove, mette all’opera, contro l’in-differenza della dittatura discreta dell’uniforme (è questo infatti il suo contrario e non tanto l’uguaglianza, come spesso pigramente si continua a ripetere), che attenua e assopisce, fino a far perdere coscienza delle cose e dei fatti, del vivere umanamente incarnato e del suo convivere, che è dall’origine compresenza di uomini e donne. Ed è proprio da questa condivisione delle differenze che la democrazia, nel suo patto fondativo, dovrebbe finalmente essere ripensata in un radicale cambiamento di prospettiva e mentalità.

La lettura di questo libro mi ha poi richiamato un altro punto di intersezione: quando una storia individuale e privata s’innesta, intrecciandosi, nella storia di tutti; quando cioè ciascuna/o, come in una nuova nascita, si rimette al mondo dando vita alla sua dimensione politica, che ogni essere umano porta necessariamente in sé ma che non va da sé, perché bisogna averne cura e alimentarla. Questo momento per me è datato 1973, lo stesso anno da cui la ricostruzione di Pina prende le mosse. La città è la stessa, ma l’ambito decisamente diverso e io e lei, diverse anche di età, non ci conoscevamo nemmeno.

Era l’anno in cui mi laureavo all’università di Milano, sotto la guida di buoni maestri come Paci e Fergnani, con una tesi su Marx e Hegel. Paradossalmente, proprio nel momento in cui si sputava su Hegel. Circolava infatti l’ingiunzione femminista irriverente di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel, in cui si leggeva, tra l’altro: “Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”.

La cosa mi provocò un certo imbarazzo e rifiuto (come potevo sputare sul piatto in cui stavo mangiando?), ma anche un forte turbamento, perché mi metteva in gioco nella mia identità di giovane filosofa (anzi, “filosofo”) in formazione. L’effetto di contraccolpo, anche comico e di autoironia, lo percepii solo più tardi nel mio fare filosofia, inteso non più come ‘argomento’

cui dedicare il proprio lavoro intellettuale, né tanto meno come un’esperienza solitaria al riparo da altre esperienze, come in fondo l’accademia continua a perpetrare. E con alcune di quelle donne in

movimento condivisi poi esperienze e pratiche, pensieri e sentimenti, come ad esempio nella rivista Lapis. Percorsi della riflessione femminile (1987-1997), con Lea Melandri, Paola Redaelli, Lidia Campagnano, Paola Melchiori, Maria Nadotti.

Ma in quel lontano 1973, i “luoghi delle donne” non corrispondevano per nulla ai “luoghi della filosofia”. Anzi, per dirla tutta, la filosofia non era molto gradita né granché considerata dalle donne che andavano movimentando non solo la vita pubblica e privata ma anche quella del pensiero e delle sue modalità. E in quei luoghi, che pur mi attiravano e mi coinvolgevano, mi sentivo spaesata perché il sapere che stavo acquisendo, studiandolo con passione, lì sembrava moneta fuori corso. Mi ritraevo perciò turbata da quel pieno di pratiche collettive, e un po’ diffidente nei confronti di quel che di ‘militare’ ho spesso avvertito nella ‘militanza’.

Eppure, tornando a casa tra i testi dei filosofi, nel tempo della riflessione - un tempo sempre differito ma che non può mai essere astrazione dal tempo comune – avvertivo una profonda comprensione per molte di quelle obiezioni di fondo, e sentivo che il mondo delle donne mi stava impartendo un’altra lezione. Così, nella mia testa continuavano a echeggiare come interrogativi ineludibili quelle verità di ‘fuori’, perché mi riguardavano intimamente, consentendo l’ascolto del mio interrogare interiore e aprendomi ad altre fonti di senso. Quell’urto iniziale divenne allora sempre più, per me, un "sentire illuminante" (come direbbe María Zambrano).

Ho ricordato questo episodio della mia vita non tanto per indugiare in un nostalgico amarcord, ma per sottolineare come i momenti di grande effervescenza sociale, politica, culturale come sono stati gli anni del femminismo, o meglio dei femminismi, lasciano sempre “un’eredità senza testamento”, per dirla con le parole di René Char, pronunciate dopo la Resistenza, e riprese da Hannah Arendt: “la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”. Un testamento spartisce infatti l’eredità, ma spetta a ciascuna erede, ponendosi di nuovo nel suo corpo a corpo con il mondo, determinare la natura della sua parte. Ereditare non significa identificarsi con quanto si eredita, ma cercare gli strumenti migliori per appropriarsene, forgiandolo con lo sguardo che si pone su di esso.

Ciò che si eredita perciò più che un patrimonio è una promessa, cui mantener fede; non una verità ma una questione aperta che non può più richiudersi, non un tesoro da disseppellire bensì una ricerca in avanti, perché il senso è in avanti, è un senso da riformulare e da riscrivere. Più che teorie da applicare questo passato delle donne è un deposito di esperienze da cui ripartire e, al tempo stesso, da ripensare anche nei suoi errori e nelle sue mancanze, in una parola da risignificare al presente, anche nelle silenziose trasformazioni o reazioni non previste che ha messo in moto.

Che ne è, allora, oggi dell’immaginario e del reale delle donne, del relazionarsi tra donne e uomini, nel loro modo di confliggere o ignorasi, nelle mutate modalità della nascita, nelle diverse figure dei padri e delle madri? Come riformulare il nesso sesso/politica da cui aveva preso le mosse in particolare il femminismo francese? Che dire sulle emergenti forme di violenza sulle donne, come negli stupri di gruppo, non più ascrivibili alle violenze domestiche? Come ripensare le odierne guerre tecnologiche in cui le donne hanno “conquistato il diritto” ad esserci? Che analisi fare dell’evaporazione della tradizionale forma lavoro, e della antica partizione tra tempo del lavoro e tempo di vita nell’economia-mondo? In sintesi, come mantenere la promessa di un creativo progetto di civiltà dell’umano, racchiusa nel passato del movimento delle donne come sua “eredità senza testamento”?


Pina Sardella, Il mondo delle donne
Storia del primo consultorio autogestito nel movimento di liberazione femminile
Mimesis Edizioni, 2014, pag.153, €14


da Come, novembre/dicembre 2014


 

 

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