Solo la poesia può rispondere al dolore:
continuare a muoversi dopo l’11 settembre

di Starhawk

Nel mezzo della marcia della Convergenza Anti-capitalista, lo scorso mese a Washington DC, mi sono trovata naso a naso con la linea della polizia che tentava di respingere indietro la folla. Ho fronteggiato una poliziotta arrabbiata ma molto bassa (nel mio caso mi arrivava al petto). "Indietro, indietro!", gridava costei, ma la nostra linea non cedeva terreno. Le ho spiegato con calma e, credo, in modo del tutto ragionevole, che non potevamo andare indietro, perché non avevamo altro posto dove andare. Sto riflettendo ora su quel momento come una metafora per ciò che quello che mi piace chiamare Movimento per la Giustizia Globale è oggi. Stiamo fronteggiando uno schieramento di forze che ci dice di andare indietro, di disperderci, di lasciare la scena. Le forze degli stati, dei media, dei poteri che sostengono la globalizzazione delle corporazioni, vorrebbero che noi si andasse via. Ma noi non abbiamo altro posto dove andare.
Non abbiamo altro posto perché le condizioni che abbiamo avversato non se ne sono andate. Il divario tra ricchi e poveri non è diminuito, i tentativi delle corporazioni di consolidare la propria egemonia non sono cessati, l’ambiente non si è miracolosamente risanato ed i nostri sistemi sociali ed economici non sono divenuti di colpo sostenibili. Siamo a bordo del Titanic; i nostri sforzi per cambiare direzione alla nave hanno appena subito un dirottamento e ci stiamo dirigendo a tutta forza verso l’iceberg. Non abbiamo il lusso di poter spostare l’azione ad un momento più favorevole. Abbiamo bisogno che il movimento vada avanti. Ma come muoverci, mentre la repressione e l’opposizione dell’opinione pubblica aumentano?

1) Rimanere saldi

In primo luogo, non dobbiamo lasciarci prendere dal panico e dobbiamo rimanere saldi. La paura sta crescendo vertiginosamente in questo momento, e le autorità stanno compiendo ogni sforzo per rinforzarla e giocarci a proprio vantaggio. Mentre l’opinione pubblica teme maggiormente gli attacchi terroristici, noi attivisti siamo egualmente o più spaventati da ciò che i nostri governi possono fare in merito alla restrizione dei diritti civili ed alla cancellazione del dissenso. In ogni modo, la paura è la più grande arma usata dalle autorità per ottenere il controllo sociale. Quando siamo impauriti non valutiamo le informazioni, siamo incapaci di vedere le situazioni chiaramente e prendiamo pessime decisioni. Siamo più facilmente controllabili. Dobbiamo imparare a riconoscere la paura, nei nostri stessi corpi, nei nostri incontri, nelle nostre relazioni. Quando sentite la presenza della paura fermatevi un momento, fate un respiro profondo, e mettetela consciamente da parte. Poi chiedetevi: "Cosa faremmo, in questa situazione, se non fossimo spaventati?" Da questa prospettiva, possiamo compiere scelte basate su una ragionevole precauzione, ma anche sulla nostra visione del mondo.

2) Riconoscere il dolore

L’11 settembre ci ha gettati/e collettivamente in un profondo pozzo di dolore. Abbiamo dovuto fronteggiare il terribile potere della morte che ha invaso le nostre vite, siamo stati feriti dal dolore e dalla perdita, abbiamo dovuto riordinare le nostre priorità e rivedere i nostri piani, abbiamo dovuto ricordare a noi stessi/e che camminiamo nel mondo in carne vulnerabile e mortale. L’obiettivo politico che ci sta di fronte è parlare alla profondità di questo dolore, non per cancellarlo o volgarizzarlo od usarlo per future agende. Se semplicemente urliamo alla gente rimuovendo questo ostacolo, riciclando le politiche, gli slogans, il linguaggio degli anni ’60, perderemo. Il movimento che abbiamo necessità di costruire ora, il potenziale trasformativo che può sorgere da questa tragedia, deve saper parlare al cuore del dolore che condividiamo attraverso le istanze politiche. Un grosso strappo è stato praticato al cuore del mondo. Ciò di cui abbiamo bisogno ora non è di chiudere la ferita, ma di avere il coraggio di penetrarla il più profondamente possibile. Per comprendere il dolore, dobbiamo considerare la possibilità che esso fosse presente in noi prima dell’11 settembre, e che la violenza e la morte di quel giorno abbiano liberato un’ondata di afflizione latente. Ad un livello, certamente, ci siamo disperati/e per le vittime ed i loro parenti, per la distruzione di luoghi familiari e per lo sconvolgimento dei ritmi delle nostre vite. Ma ad un livello più profondo, probabilmente, molti/e di noi erano già afflitti/e, consciamente o meno, per la mancanza di connessione e di comunità nella società che aveva costruito quelle torri, per la separazione dalla natura che esse simboleggiavano, per la diminuzione degli spazi verdi, per la chiusura delle possibilità ed il restringimento degli spazi nella nostra vita. Questo dolore congelato, trasformato in rabbia, ha alimentato il nostro movimento, ma noi non siamo i soli e le sole a provarlo. Assieme al dolore spesso giunge una paura più profonda del terrore causato dall’attacco in sé. Perché quelle torri rappresentavano il trionfo umano sulla natura. Più grandi di qualcosa di vivo, costruite per essere incombustibili, esse erano il Titanic della nostra epoca. Ed il fatto che siano bruciate e cadute con tanta rapidità significa che l’intera sovrastruttura da cui dipendiamo per mitigare la natura ed assicurarci sicurezza e comodità può cadere. E senza di essa, la maggior parte di noi non sa come sopravvivere. Noi sappiamo, fin nelle nostre ossa, che le nostre tecnologie e le nostre economie sono insostenibili, che la natura è più forte di noi, che non possiamo manomettere i sistemi vitali della Terra senza pagarne i costi, e che stiamo creando tale disperazione nel mondo che essa inevitabilmente emerge, in pianto e rabbia. La caduta delle torri è stata un’icona del rendiconto che ci verrà presentato, un rendiconto di cui abbiamo terrore ma che segretamente ci aspettiamo. Il movimento che dobbiamo costruire adesso deve saper parlare all’intero peso della perdita e della paura e, nello stesso tempo, deve saper mostrare speranza. Dobbiamo ammettere l’esistenza delle grandi forze del caos e dell’incertezza, e sapere che dal caos può sì sorgere la distruzione, ma anche la creatività.

3) Sviluppare un nuovo linguaggio politico

Di fronte alla profondità della perdita, alla nuda realtà della morte, scopriamo che le parole sono inadeguate. "Cosa dico a uno che ha perso suo fratello nelle torri? mi ha chiesto un attivista hard core di New York Come gli parlo?" Il linguaggio astratto non funziona. L’ideologia non funziona. Il giudizio e il tormento e il provare vergogna o il gettarla su altri non possono veramente toccare la profondità della perdita. Solo la poesia può rispondere al dolore. Solo le parole che trasmettono ciò che vediamo, annusiamo, assaporiamo e tocchiamo della vita possono commuoverci. Per arrivare a questo dobbiamo forgiare un nuovo linguaggio, di parole e di azioni. Noi di Sinistra possiamo essere affezionati a certe parole e certe forme politiche, proprio come i Cattolici di una volta erano affezionati alla Messa in Latino. Intoniamo "imperialismo", o "anti-capitalismo" e persino "pace" con un fervore quasi religioso, come se le parole da sole fossero colpi ben assestati nella lotta. Queste parole sono utili, e sono piene di significato. Ma spesso sono un cliché per cattivi poeti: sono le risposte immediate e facili che ci evitano il lavoro di un’espressione vera. Ultimamente, i miei amici maggiormente "politici" mi dicono: "Non posso proprio andare ad un'altra riunione. Non ce la faccio più a sentire gente che in tono arrabbiato mi dice di conoscere tutte le risposte." E se ci fermassimo un attimo, durante le nostre riunioni, e dicessimo: "Ma sapete, tali questioni sono complesse, e parecchi di noi hanno sentimenti contrastanti al proposito. Prendiamoci un po’ di tempo per parlarci l’un l’altro di questo, piuttosto che sentire altri discorsi." Se riusciamo ad ammettere le nostre ambiguità, potremmo scoprire che siamo più vicini di quanto pensiamo alla supposta stragrande maggioranza che sosterrebbe la guerra, e che queste persone, in realtà, provano sentimenti contrastanti quanto noi.

4) Proporre la nostra alternativa alla guerra di Bush

Definire gli attentati di settembre come un atto di guerra, anziché come un atto criminale, ha avuto il risultato di nobilitare chi li ha perpetrati. L’entrata in guerra ci ha trasformati nell’ufficio reclutamento di Bin Laden e ci ha rapidamente alienato l’intero mondo musulmano. Bombardare l’Afghanistan ci fa apparire come delinquenti agli occhi del mondo musulmano (e agli occhi di chiunque abbia cuore e senso) e nutre migliaia di nuovi potenziali nemici pronti a morire. I bombardamenti, impedendo ai camion degli aiuti umanitari di distribuire le forniture di cibo prima dell’inverno, ora minacciano di morte per fame 7 milioni di Afgani. Al di là di ciò che i sondaggi e i media ci dicono, io non credo che la massa della popolazione statunitense attenda con le bave alla bocca di bere sangue afgano. La frase che mi sento dire più spesso è un lamento: "Dobbiamo fare qualcosa". Il programma di Bush è il solo che ci viene offerto. Gli attacchi sono reali, e devastanti; chiedere semplicemente la pace e cantare "Where Have All the Flowers Gone?" non li mette seriamente in discussione. Se ci opponiamo alla guerra di Bush, necessitiamo di una chiara alternativa. Diplomazia non significa debolezza. Significa che devi essere più in gamba del tuo oppositore, non meglio armato. Diplomazia non significa neppure lanciare ultimatum sostenuti dai bombardamenti. Nel caso specifico, significa capire qualcosa della cultura del popolo con cui stai negoziando. Significa negoziare veramente, offrire la carota come il bastone, ed essere disposti a far sì che l’altra parte ne esca con qualcosa che non sia un’umiliazione totale. Se lo scopo della guerra è veramente avere Bin Laden, bene, i Talibani si sono detti disposti a consegnarlo ad un paese terzo. Questo può essere il momento buono per cambiare politica, per negoziare, per lavorare con le istituzioni internazionali e l’Onu e rafforzarle, per cominciare a sviluppare un progetto massivo di aiuti umanitari alla regione afgana. Ciascuno di questi atti o tutti questi atti ci garantiranno sicurezza a lungo termine ben più di quelli in corso.

5) Esporre gli scopi reali della guerra

Abbiamo la stessa percentuale di probabilità che una delle cose summenzionate accada quanto che mi si offra un posto nel Governo. Tutti i segnali dicono che Bush vuole la guerra per stabilire l’egemonia statunitense in Asia centrale e orientale, e per prevenire un'alleanza asiatica che possa opporre i propri interessi ai nostri, per prendere il controllo delle risorse petrolifere dell’Asia centrale e provvedere un sicuro transito dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan, per distogliere l’interesse dall’illegittimità della propria presidenza e implementare l’intera agenda della Destra. Noi dobbiamo continuare ad informare l’opinione pubblica di questi scopi e delle reali conseguenze della guerra. Per fare questo, abbiamo bisogno di parlarne non solo durante i nostri incontri o nei seminari che organizziamo, ma dobbiamo parlare ai nostri vicini di casa; dobbiamo parlare sul posto di lavoro, a scuola, sull’autobus, per strada, nei talk shows, nelle nostre famiglie. Dare voce ad un’opinione impopolare può essere più difficile che sfilare di fronte a una linea di poliziotti in assetto anti-sommossa, ma dobbiamo farlo, ed imparare a farlo in modo calmo ed efficace. E mentre parliamo della guerra, dobbiamo essere capaci di connetterla alle più vaste istanze a cui stavamo lavorando prima dell’11 settembre. L’argomento guerra può aprire passaggi che sfidino il razzismo, che mettano in luce il ruolo storico degli Usa nell’addestrare, armare e sostenere finanziariamente i terroristi, incluso Bin Laden e i Talibani negli scorsi anni. Nell’era del terrorismo, ha senso un’economia totalmente dipendente dal trasporto del petrolio su lunghe distanze? (Specialmente se non aveva senso neppure prima, ma non importa) Le paure riguardanti l’antrace sono un’opportunità perfetta per chiedere "sicurezza domestica" sotto forma di un sistema sanitario nazionale ben finanziato e funzionante, per chiedere maggior disponibilità di posti letto ospedalieri e cure mediche, per sostenere i produttori di cibo locali e lo sviluppo delle energie alternative, ecc. La destra ha usato gli attentati e la guerra per giustificare la propria agenda, ma con un po’ di judo politico è possibile ridisegnare la loro visione della realtà.

6) Sviluppare la nostra visione

La disperazione nutre il fondamentalismo, il fanatismo e il terrorismo. Un mondo in cui le risorse vengano veramente condivise sarebbe un mondo più sicuro. Le politiche del capitalismo globalizzato delle corporazioni non ci ha portato quel mondo. Sono stati messi alla prova, e si sono rivelati incapaci. Abbiamo bisogno di rimpiazzare la loro visione con la nostra. Il Movimento per la Giustizia Globale è spesso stato accusato di non sapere ciò che vuole. In realtà, noi abbiamo chiare le linee generali di ciò che vogliamo, anche se abbiamo una molteplicità di idee sul come arrivarci. Ve le posso condensare in 5 brevi paragrafi:
Noi vogliamo che le imprese abbiano le loro radici nelle comunità e siano responsabili verso le comunità e le future generazioni. Vogliamo che i produttori rispondano dei veri costi sociali ed ecologici di ciò che producono.
Noi diciamo di vivere su una terra comune che ha necessità di essere protetta; diciamo che ci sono risorse intoccabili per la vita, troppo preziose o sacre per essere sfruttate per il profitto di pochi, e ciò include le cose che sostengono la vita: l’acqua, le produzioni agricole tradizionali, l’eredità collettiva delle diversità ecologiche e genetiche, il clima del pianeta, gli habitat di specie rare o di culture umane in pericolo, i luoghi sacri, il nostro sapere collettivo culturale e intellettuale.
Noi diciamo che i lavoratori hanno diritto, come base minima, alla sicurezza, al giusto compenso che permetta loro di vivere, alla speranza e alla dignità, e che devono avere il potere di determinare le condizioni in cui lavorano.
Noi diciamo che come esseri umani abbiamo una responsabilità collettiva per il benessere altrui; che la vita è minacciata dall’incertezza, dalla sfortuna, dalle ingiurie fisiche e dalle malattie, ovvero dalla perdita, e che noi dobbiamo aiutarci l’un altro a sopportare la perdita, a provvedere con generosità e larghezza i mezzi per cui tutti abbiano cibo, abiti, riparo, assistenza medica, istruzione e la possibilità di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Solo questo ci darà una vera sicurezza.
Noi diciamo che democrazia significa che la gente deve aver voce nelle decisioni che la riguardano, comprese le decisioni economiche.

7) Sviluppare la nostra strategia

Possiamo cominciare con la consapevolezza che negli scorsi due anni abbiamo attuato una strategia altamente vincente. Da Seattle in poi, ciò che abbiamo fatto è stato opporci ad ogni summit, come modo per portare l’attenzione sulle istituzioni della globalizzazione, che lavoravano essenzialmente in segreto, e delegittimarle. I sistemi cadono quando vengono colpiti da una crisi di legittimità, quando non sono più in grado di ispirare fede ed adesione a comando. La nostra strategia deve continuare a lavorare per creare questa crisi nelle istituzioni del capitalismo globalizzato delle corporazioni. Nel frattempo, a dispetto delle apparenze contrarie, il governo Usa potrebbe già stare creando da sé la propria crisi. Per dirne una, nulla delegittima un governo tanto in fretta come il non essere stato capace di provvedere alla sicurezza fisica o economica del proprio popolo.
Ora, la nostra strategia deve allargarsi e diventare più complessa. Contestiamo pure i summit quando e dove sia possibile, ma forse con nuove tattiche, che diano chiaramente corpo alle alternative che rappresentiamo. Portiamo più attenzione all’organizzarci localmente, al portare "a casa" le istanze globali, rendendo l’organizzazione e l’attivismo un processo continuo e sostenuto. E troviamo modi per rendere tale processo "succoso" ed eccitante come lo sono state alcune delle grandi azioni globali. Troviamo modi per connettere le istanze locali e le azioni regionali e globali. Cominciamo a costruire l’alternativa: imprese economiche fondate su nuovi modelli; sistemi di democrazia diretta come i consigli di vicinato o i consigli per la condivisione dell’acqua, o gli incontri cittadini; cooperative per le energie alternative; giardini comunitari; fondi comuni locali… Cercate i modi in cui queste alternative possano delegittimare lo status quo.

8) Organizzarsi in modo aperto

In tempi di aumentata repressione, il modo più forte di resistere non è nascondersi, ma diventare quanto più aperti nell’organizzazione e nella comunicazione. Più visibili siamo, meno potranno dipingerci come terroristi. Più facce fotografano agli incontri e alle manifestazioni, meno significativa diventa ogni singola faccia. Più informazioni collezionano, meno saranno capaci di confrontarle, analizzarle e cavarci un senso. E se davvero leggono le mie e-mail, be’ sono i benvenuti. Qualcuno deve pur farlo, ed io non ho il tempo di leggerle tutte… Forse potrei pagare un piccolo extra a qualcuno di loro se le classifica e mi manda un sommario con i punti essenziali. Per sapere quanto sia benefica la cultura della "sicurezza" potete chiederlo alla Cia, e comunque essa vi mostra all’esterno come qualcuno che ha qualcosa da nascondere ed attira su di voi l’attenzione dell’autorità. In più, essa rende estremamente difficile mobilitare, informare ed ispirare le persone. Sì, ci sono azioni che dipendono dalla sorpresa, ma con un po’ di intelligenza possiamo pianificarle in una riunione aperta: "E per finire, stasera daremo ad ogni gruppo per affinità una busta chiusa. Apritela domani alle 5 del mattino e vi darà due possibili punti d’inizio per la vostra manifestazione. Lanciate in aria una moneta per prendere la vostra decisione."

9) Fare in modo che le nostre azioni contino

Le azioni politiche potranno diventare sempre più costose nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Ciò significa semplicemente che dobbiamo essere più chiari e riflessivi nel pianificare e compiere le nostre azioni. La maggioranza di noi è disposta ad assumere rischi in questo lavoro e a fare sacrifici se è necessario, ma nessuno vuole fare sacrifici per qualcosa vuoto di significato o stupido. Non possiamo più permetterci piani vaghi e azioni poco pensate che non raggiungono lo scopo e credetemi, ho fatto la mia parte di entrambi. Non dobbiamo mettere in moto un’azione che comprenda rischi significativi senza aver dato risposta ai seguenti 5 punti:
a) Siamo consci di qual è la nostra intenzione stiamo tentando di rendere consapevole l’opinione pubblica, di delegittimare un’istituzione, di influenzare un individuo, di porre direttamente fine a un’ingiustizia?
b) Abbiamo un obiettivo chiaro e sappiamo qual è stiamo tentando di impedire un meeting, di consegnare una petizione, di far pressione su qualcuno perché venga ad incontrarci, di fornire un servizio? Cosa stiamo cercando di comunicare, e a chi? Che aspetto dovrebbe avere la nostra vittoria?
c) Siamo sicuri che gli atti che compiamo, i simboli che portiamo, il focus che abbiamo scelto e le tattiche che usiamo riflettano le nostre intenzioni ed i nostri obiettivi? Resistiamo alla tentazione di fare cose estranee, che ci distrarrebbero dagli obiettivi.
d) Abbiamo una strategia di "uscita" dall’azione? Come intendiamo terminarla? Come intendiamo venirne fuori se restiamo bloccati?
e) Abbiamo provveduto al sostegno per dopo legale, medico, politico? C’è gente disposta ad offrire la propria solidarietà se questo si renderà necessario?

10) Usare tattiche che rispondano alla nuova strategia ed alla nuova situazione

Tutti/e noi stiamo ripensando le nostre tattiche alla luce della situazione corrente. Di solito discutiamo delle tattiche su un terreno etico: è giusto o sbagliato, violento o nonviolento, tirare indietro i candelotti lacrimogeni alla polizia o spaccare una finestra? Faremmo meglio a chiederci: "Queste particolari tattiche danno sostegno ai nostri scopi ed ai nostri obiettivi?" ed anche "Attualmente, stanno funzionando?" Coloro che sostengono tattiche di estremo confronto, come il danneggiamento delle proprietà e la battaglia con la polizia, generalmente pensano di assestare "colpi al sistema" in questo modo. Ma in questo momento, il sistema è stato colpito più duramente di quanto ciascuno/a di noi potesse immaginare e si sta rivolgendo al fascismo, non alla liberazione. Nel clima in cui ci troviamo, tali tattiche si ritorceranno contro di noi, e confermeranno la legittimità del sistema. Molte tecniche classiche della nonviolenza furono pensate per esaltare il contrasto fra "noi" e "loro", reclamare il nostro maggior senso etico e mettere all’indice la violenza del sistema. Anche molte di queste tattiche non funzionano più allo stesso modo. Gli arresti simbolici, il passare-la-linea per farsi arrestare, sembrano non impressionare affatto l’opinione pubblica con la nostra "nobiltà" ed il nostro sacrificio… sempre che vengano addirittura notati. Arresti di massa vengono invece usati per giustificare la violenza poliziesca, anche quando gli arrestati erano completamente pacifici. Anche se la polizia coopera nel rendere l’arresto facile e a basso rischio, il processo conferma, anziché sfidare, il potere dello stato. Quando non coopera, persino le azioni simboliche assumono costi pesantissimi in tempi di detenzione e privazioni. E’ un prezzo che vale certamente la pena di pagare, ma non ci sono più di tante volte, in una vita, in cui possiamo pagarlo, perciò le nostre scelte devono essere più meditate, più strategiche.
Abbiamo bisogno di un nuovo vocabolario di tattiche, che diano potere ed ispirazioni, che operino decisamente il confronto senza poter essere lette come proto-terroriste, che lavorino per portare il sistema ad una crisi di legittimità. Abbiamo anche bisogno di tattiche ed azioni che prefigurino il mondo che vogliamo creare, e dobbiamo agirle in modo che esse abbiano mordente. Eccone alcune che abbiamo già usato e che sono suscettibili di ulteriori sviluppi:
Tattiche di strada fluide e mobili: gruppi come "Arte & Rivoluzione", "Reclamate le strade", il "Fiume vivente", hanno portato arte, tamburi, mobilità e creatività alle azioni di strada. Tali azioni non sono finalizzate all’essere arrestati/e (anche se questa è conseguenza possibile dell’azione stessa) o al confronto con la polizia, ma sul raggiungimento di un obiettivo: reclamare uno spazio e ridefinirlo nel mentre si dà corpo alla gioia della rivoluzione che stiamo tentando di compiere. A Toronto, il 16 ottobre, colonne serpentine di gente danzante hanno interrotto lo svolgimento abituale delle cose nel distretto finanziario, nonostante la presenza di una polizia molto tesa. Il Grappolo Pagano, a Quebec City e a Washington, è stato in grado di tenere rituali in strada, nel mezzo di situazioni davvero pericolose, e in modi che hanno permesso la partecipazione di gente che aveva bisogni assai diversificati rispetto alla propria sicurezza personale. A S. Francisco, gli "Attivisti Vendicatori della Città di Nebbia" hanno connesso un rituale pubblico e aperto, che ha distratto la polizia, all’azione a sorpresa di un gruppo per affinità i cui membri, vestiti da Robin Hood, hanno interrotto le operazioni bancarie di cambio.
Reclamare lo spazio: "Reclamate le strade" di solito si piazza in un incrocio, ci porta un sound system e sedie, e dà inizio ad una festa. Crea uno spazio dove sperimentare ed esemplificare il mondo in cui vogliamo vivere, con cibo gratuito, guarigione, istruzione popolare, il Mercato Veramente Libero (in cui gli oggetti sono regalati o barattati), seminari, conversazioni, sport, teatro.
Servizi alternativi e di strada: i gruppi come "Cibo, non bombe" hanno direttamente nutrito i senza casa per decenni. Una delle azioni dirette di maggior successo in cui sono stata coinvolta era ideata da un gruppo chiamato "Punto di prevenzione" e gestiva punti per lo scambio di siringhe al fine di prevenire l’Aids fra i consumatori di droghe pesanti. Durante la marcia di settembre a Washington, il Grappolo Pagano ha offerto uno "Spazio per la guarigione emozionale", in cui abbiamo offerto informazioni, massaggi, cibo ed acqua. I centri IndyMedia forniscono notizie alternative e costituiscono una bella sfida ai media delle corporazioni. I servizi medici e legali che forniamo durante le azioni possono essere potenziati. Possiamo mobilitarci in molti nuovi modi. Immaginate un’azione che lasci una comunità trasformata dalla presenza di giardini pubblici, con siti tossici risanati, e le strade punteggiate da alberi da frutta…
Istruzione popolare: uno dei valori dei concentramenti di massa sono state le informazioni e gli insegnamenti che siamo stati capaci di fornirci a vicenda, dai convegni sull’economia alle istruzioni su come si fa una scalata. Quasi ogni vertice ha avuto il suo contro-vertice; la maggior parte di questi ultimi hanno avuto grosso modo la forma di conferenze accademiche, con relatori che parlavano ad un pubblico o che stimolavano una discussione. Ma ci sono molti altri modi interattivi e creativi di imparare ed insegnare che possiamo introdurre nei contro-vertice: giochi di ruolo, cerchi in cui raccontiamo le nostre storie, consigli. Potremmo organizzare una simulazione di un vertice, con la gente che impersona i delegati e che maneggia le stesse identiche istanze che sono sul tavolo del meeting, ma dal punto di partenza dei nostri valori.
La gente è affamata di parola: vogliono parlare della guerra, delle loro paure, di ciò in cui credono, delle loro opinioni. Gli Zapatisti ci hanno dato un esempio del processo della Consulta, in cui si va verso la gente sia per ascoltare le loro preoccupazioni che per mobilitarli. Possiamo ridurre il numero di relazioni nei nostri incontri, lasciando il tempo alle persone di parlarsi l’un l’altra. Oppure leviamo le relazioni del tutto, e chiediamo ai gruppi di facilitare il formarsi di gruppi più piccoli, che discutano sulle proprie istanze e tattiche; teniamo brevi sessioni di training; offriamo giochi, o danze, o rituali. E potremmo sviluppare modi per creare un’istantanea Conversazione Pubblica, sia come azione sia come informazione. Le Carovane, ad esempio, possono portare la discussione e l’istruzione fuori dai centri urbane, e possono incarnare le energie e le possibilità alternative, facendo funzionare i loro veicoli con benzina verde, portando pannelli solari per far funzionare il sound system… Queste sono solo alcune idee, che però possono stimolare o risvegliare la nostra creatività.

11) Rinnovare i nostri spiriti

E’ un brutto momento. Molti/e di noi hanno lavorato intensamente per un lungo periodo, ed ora fronteggiano la possibilità che gli obiettivi politici raggiunti vengano spazzati via. La paura e la perdita ci circondano, e parecchie forze sono all’opera per farci sentire isolati/e, marginalizzati/e e privi/e di potere. Al meglio, il lavoro che abbiamo davanti ci sembra enorme. Se abbiamo intenzione di sostenere questa fatica e di riguadagnare il nostro momento, abbiamo bisogno di concederci il tempo di riposare, di andare nei luoghi per la cui salvezza abbiamo lottato duramente e di aprirci alla loro bellezza; abbiamo bisogno di ricevere sostegno e amore dalle comunità per le quali lavoriamo. Dobbiamo nutrire le relazioni che abbiamo, affinché esse non offrano solo solidarietà politica ma calore e attenzione personale. La morte e la perdita hanno riarrangiato le nostre priorità, ci hanno insegnato quanto bisogno abbiamo gli uni degli altri, e hanno reso più facile abbandonare alcune delle resistenze che interferiscono nelle nostre vere connessioni. Molti/e attivisti/e non hanno fiducia nella religione e nella spiritualità, spesso per ottime ragioni. Ma ognuno/a di noi è al lavoro perché qualcosa ci è "sacro", sacro nel senso che significa qualcosa di più del nostro agio e del nostro interesse, qualcosa che determina tutti i nostri altri valori, e che ci rende pronti a rischiare noi stessi al suo servizio. Può non essere un Dio o una Dea, ma è un credo nella libertà, è il sentimento che proviamo quando sediamo sotto un albero, o guardiamo un uccellino ad ali spiegate che attraversa il cielo, è il dedicarsi alla verità, o ad un bambino. Qualunque cosa sia, può anche nutrirci. Per quegli attivisti e quelle attiviste che hanno un qualche tipo di pratica spirituale questo è il momento di praticarla seriamente. Per coloro che non ce l’hanno, potrebbe valere la pena di prendersi il tempo per domandarsi: "Perché faccio questo lavoro? Cos’è importante per me? Cosa mi nutre?" La risposta potrà essere grande e nobile, o piccola ed ordinaria, ma qualsiasi sia, fatene una priorità. Sia l’hip hop o il disegnare con il gesso sulla strada, fatelo ogni giorno o almeno con regolarità. Portatelo con voi nell’azione. Lasciate che rinnovi la vostra energia quando vi sentite giù. Abbiamo bisogno di voi in questa lotta è un guadagno a lungo termine ed aver cura di voi stessi/e è un modo per preservare una delle preziose risorse del nostro movimento.
Lo scopo dei terroristi, indipendenti o statali, è di riempire le nostre menti ed il nostro spazio emozionale con la paura, la rabbia, l’impotenza e la disperazione; è di tagliarci fuori dalle sorgenti della vita e della speranza. La violenza ed il terrore possono separarci dalle cose e dalle creature che amiamo. Se accettiamo questo, ci consumiamo e moriamo. Quando ci apriamo consciamente alla bellezza del mondo, quando scegliamo di amare un altro fragile essere vivente, noi compiamo un atto di liberazione coraggioso e radicale quanto qualsiasi fronteggiamento dei gas lacrimogeni.
Non c’è nessun posto dove andare, se non avanti. Se riusciamo a mantenere la speranza e la visione, se osiamo camminare con coraggio ed agire per ciò che amiamo, le barriere che ci impediscono il passaggio si apriranno, così come ha fatto la barriera della polizia durante la nostra marcia a Washington. La nuova strada che si apre di fronte a noi non è segnata su alcuna mappa. Non ci è familiare, ma è esaltante; è pericolosa, ma libera. Siamo nati e nate per tracciare questo cammino, ed i grandi poteri della vita e della creatività marciano con noi verso un futuro percorribile.

Starhawk
www.starhawk.org
copyright Starhawk 2001

La nota sul copright si è resa necessaria perché questo testo verrà pubblicato nella primavera del prossimo anno in una collezione di miei scritti intitolata: "Reti di potere. Note dalla sollevazione globale".