Solo
la poesia può rispondere al dolore: Nel
mezzo della marcia della Convergenza Anti-capitalista, lo scorso mese
a Washington DC, mi sono trovata naso a naso con la linea della polizia
che tentava di respingere indietro la folla. Ho fronteggiato una poliziotta
arrabbiata ma molto bassa (nel mio caso mi arrivava al petto). "Indietro,
indietro!", gridava costei, ma la nostra linea non cedeva terreno. Le
ho spiegato con calma e, credo, in modo del tutto ragionevole, che non
potevamo andare indietro, perché non avevamo altro posto dove andare.
Sto riflettendo ora su quel momento come una metafora per ciò che
quello che mi piace chiamare Movimento per la Giustizia Globale è
oggi. Stiamo fronteggiando uno schieramento di forze che ci dice di andare
indietro, di disperderci, di lasciare la scena. Le forze degli stati,
dei media, dei poteri che sostengono la globalizzazione delle corporazioni,
vorrebbero che noi si andasse via. Ma noi non abbiamo altro posto dove
andare. 1) Rimanere saldi In primo luogo, non dobbiamo lasciarci prendere dal panico e dobbiamo rimanere saldi. La paura sta crescendo vertiginosamente in questo momento, e le autorità stanno compiendo ogni sforzo per rinforzarla e giocarci a proprio vantaggio. Mentre l’opinione pubblica teme maggiormente gli attacchi terroristici, noi attivisti siamo egualmente o più spaventati da ciò che i nostri governi possono fare in merito alla restrizione dei diritti civili ed alla cancellazione del dissenso. In ogni modo, la paura è la più grande arma usata dalle autorità per ottenere il controllo sociale. Quando siamo impauriti non valutiamo le informazioni, siamo incapaci di vedere le situazioni chiaramente e prendiamo pessime decisioni. Siamo più facilmente controllabili. Dobbiamo imparare a riconoscere la paura, nei nostri stessi corpi, nei nostri incontri, nelle nostre relazioni. Quando sentite la presenza della paura fermatevi un momento, fate un respiro profondo, e mettetela consciamente da parte. Poi chiedetevi: "Cosa faremmo, in questa situazione, se non fossimo spaventati?" Da questa prospettiva, possiamo compiere scelte basate su una ragionevole precauzione, ma anche sulla nostra visione del mondo. 2) Riconoscere il dolore L’11 settembre ci ha gettati/e collettivamente in un profondo pozzo di dolore. Abbiamo dovuto fronteggiare il terribile potere della morte che ha invaso le nostre vite, siamo stati feriti dal dolore e dalla perdita, abbiamo dovuto riordinare le nostre priorità e rivedere i nostri piani, abbiamo dovuto ricordare a noi stessi/e che camminiamo nel mondo in carne vulnerabile e mortale. L’obiettivo politico che ci sta di fronte è parlare alla profondità di questo dolore, non per cancellarlo o volgarizzarlo od usarlo per future agende. Se semplicemente urliamo alla gente rimuovendo questo ostacolo, riciclando le politiche, gli slogans, il linguaggio degli anni ’60, perderemo. Il movimento che abbiamo necessità di costruire ora, il potenziale trasformativo che può sorgere da questa tragedia, deve saper parlare al cuore del dolore che condividiamo attraverso le istanze politiche. Un grosso strappo è stato praticato al cuore del mondo. Ciò di cui abbiamo bisogno ora non è di chiudere la ferita, ma di avere il coraggio di penetrarla il più profondamente possibile. Per comprendere il dolore, dobbiamo considerare la possibilità che esso fosse presente in noi prima dell’11 settembre, e che la violenza e la morte di quel giorno abbiano liberato un’ondata di afflizione latente. Ad un livello, certamente, ci siamo disperati/e per le vittime ed i loro parenti, per la distruzione di luoghi familiari e per lo sconvolgimento dei ritmi delle nostre vite. Ma ad un livello più profondo, probabilmente, molti/e di noi erano già afflitti/e, consciamente o meno, per la mancanza di connessione e di comunità nella società che aveva costruito quelle torri, per la separazione dalla natura che esse simboleggiavano, per la diminuzione degli spazi verdi, per la chiusura delle possibilità ed il restringimento degli spazi nella nostra vita. Questo dolore congelato, trasformato in rabbia, ha alimentato il nostro movimento, ma noi non siamo i soli e le sole a provarlo. Assieme al dolore spesso giunge una paura più profonda del terrore causato dall’attacco in sé. Perché quelle torri rappresentavano il trionfo umano sulla natura. Più grandi di qualcosa di vivo, costruite per essere incombustibili, esse erano il Titanic della nostra epoca. Ed il fatto che siano bruciate e cadute con tanta rapidità significa che l’intera sovrastruttura da cui dipendiamo per mitigare la natura ed assicurarci sicurezza e comodità può cadere. E senza di essa, la maggior parte di noi non sa come sopravvivere. Noi sappiamo, fin nelle nostre ossa, che le nostre tecnologie e le nostre economie sono insostenibili, che la natura è più forte di noi, che non possiamo manomettere i sistemi vitali della Terra senza pagarne i costi, e che stiamo creando tale disperazione nel mondo che essa inevitabilmente emerge, in pianto e rabbia. La caduta delle torri è stata un’icona del rendiconto che ci verrà presentato, un rendiconto di cui abbiamo terrore ma che segretamente ci aspettiamo. Il movimento che dobbiamo costruire adesso deve saper parlare all’intero peso della perdita e della paura e, nello stesso tempo, deve saper mostrare speranza. Dobbiamo ammettere l’esistenza delle grandi forze del caos e dell’incertezza, e sapere che dal caos può sì sorgere la distruzione, ma anche la creatività. 3) Sviluppare un nuovo linguaggio politico Di fronte alla profondità della perdita, alla nuda realtà della morte, scopriamo che le parole sono inadeguate. "Cosa dico a uno che ha perso suo fratello nelle torri? mi ha chiesto un attivista hard core di New York Come gli parlo?" Il linguaggio astratto non funziona. L’ideologia non funziona. Il giudizio e il tormento e il provare vergogna o il gettarla su altri non possono veramente toccare la profondità della perdita. Solo la poesia può rispondere al dolore. Solo le parole che trasmettono ciò che vediamo, annusiamo, assaporiamo e tocchiamo della vita possono commuoverci. Per arrivare a questo dobbiamo forgiare un nuovo linguaggio, di parole e di azioni. Noi di Sinistra possiamo essere affezionati a certe parole e certe forme politiche, proprio come i Cattolici di una volta erano affezionati alla Messa in Latino. Intoniamo "imperialismo", o "anti-capitalismo" e persino "pace" con un fervore quasi religioso, come se le parole da sole fossero colpi ben assestati nella lotta. Queste parole sono utili, e sono piene di significato. Ma spesso sono un cliché per cattivi poeti: sono le risposte immediate e facili che ci evitano il lavoro di un’espressione vera. Ultimamente, i miei amici maggiormente "politici" mi dicono: "Non posso proprio andare ad un'altra riunione. Non ce la faccio più a sentire gente che in tono arrabbiato mi dice di conoscere tutte le risposte." E se ci fermassimo un attimo, durante le nostre riunioni, e dicessimo: "Ma sapete, tali questioni sono complesse, e parecchi di noi hanno sentimenti contrastanti al proposito. Prendiamoci un po’ di tempo per parlarci l’un l’altro di questo, piuttosto che sentire altri discorsi." Se riusciamo ad ammettere le nostre ambiguità, potremmo scoprire che siamo più vicini di quanto pensiamo alla supposta stragrande maggioranza che sosterrebbe la guerra, e che queste persone, in realtà, provano sentimenti contrastanti quanto noi. 4) Proporre la nostra alternativa alla guerra di Bush Definire gli attentati di settembre come un atto di guerra, anziché come un atto criminale, ha avuto il risultato di nobilitare chi li ha perpetrati. L’entrata in guerra ci ha trasformati nell’ufficio reclutamento di Bin Laden e ci ha rapidamente alienato l’intero mondo musulmano. Bombardare l’Afghanistan ci fa apparire come delinquenti agli occhi del mondo musulmano (e agli occhi di chiunque abbia cuore e senso) e nutre migliaia di nuovi potenziali nemici pronti a morire. I bombardamenti, impedendo ai camion degli aiuti umanitari di distribuire le forniture di cibo prima dell’inverno, ora minacciano di morte per fame 7 milioni di Afgani. Al di là di ciò che i sondaggi e i media ci dicono, io non credo che la massa della popolazione statunitense attenda con le bave alla bocca di bere sangue afgano. La frase che mi sento dire più spesso è un lamento: "Dobbiamo fare qualcosa". Il programma di Bush è il solo che ci viene offerto. Gli attacchi sono reali, e devastanti; chiedere semplicemente la pace e cantare "Where Have All the Flowers Gone?" non li mette seriamente in discussione. Se ci opponiamo alla guerra di Bush, necessitiamo di una chiara alternativa. Diplomazia non significa debolezza. Significa che devi essere più in gamba del tuo oppositore, non meglio armato. Diplomazia non significa neppure lanciare ultimatum sostenuti dai bombardamenti. Nel caso specifico, significa capire qualcosa della cultura del popolo con cui stai negoziando. Significa negoziare veramente, offrire la carota come il bastone, ed essere disposti a far sì che l’altra parte ne esca con qualcosa che non sia un’umiliazione totale. Se lo scopo della guerra è veramente avere Bin Laden, bene, i Talibani si sono detti disposti a consegnarlo ad un paese terzo. Questo può essere il momento buono per cambiare politica, per negoziare, per lavorare con le istituzioni internazionali e l’Onu e rafforzarle, per cominciare a sviluppare un progetto massivo di aiuti umanitari alla regione afgana. Ciascuno di questi atti o tutti questi atti ci garantiranno sicurezza a lungo termine ben più di quelli in corso. 5) Esporre gli scopi reali della guerra Abbiamo la stessa percentuale di probabilità che una delle cose summenzionate accada quanto che mi si offra un posto nel Governo. Tutti i segnali dicono che Bush vuole la guerra per stabilire l’egemonia statunitense in Asia centrale e orientale, e per prevenire un'alleanza asiatica che possa opporre i propri interessi ai nostri, per prendere il controllo delle risorse petrolifere dell’Asia centrale e provvedere un sicuro transito dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan, per distogliere l’interesse dall’illegittimità della propria presidenza e implementare l’intera agenda della Destra. Noi dobbiamo continuare ad informare l’opinione pubblica di questi scopi e delle reali conseguenze della guerra. Per fare questo, abbiamo bisogno di parlarne non solo durante i nostri incontri o nei seminari che organizziamo, ma dobbiamo parlare ai nostri vicini di casa; dobbiamo parlare sul posto di lavoro, a scuola, sull’autobus, per strada, nei talk shows, nelle nostre famiglie. Dare voce ad un’opinione impopolare può essere più difficile che sfilare di fronte a una linea di poliziotti in assetto anti-sommossa, ma dobbiamo farlo, ed imparare a farlo in modo calmo ed efficace. E mentre parliamo della guerra, dobbiamo essere capaci di connetterla alle più vaste istanze a cui stavamo lavorando prima dell’11 settembre. L’argomento guerra può aprire passaggi che sfidino il razzismo, che mettano in luce il ruolo storico degli Usa nell’addestrare, armare e sostenere finanziariamente i terroristi, incluso Bin Laden e i Talibani negli scorsi anni. Nell’era del terrorismo, ha senso un’economia totalmente dipendente dal trasporto del petrolio su lunghe distanze? (Specialmente se non aveva senso neppure prima, ma non importa) Le paure riguardanti l’antrace sono un’opportunità perfetta per chiedere "sicurezza domestica" sotto forma di un sistema sanitario nazionale ben finanziato e funzionante, per chiedere maggior disponibilità di posti letto ospedalieri e cure mediche, per sostenere i produttori di cibo locali e lo sviluppo delle energie alternative, ecc. La destra ha usato gli attentati e la guerra per giustificare la propria agenda, ma con un po’ di judo politico è possibile ridisegnare la loro visione della realtà. 6) Sviluppare la nostra visione La
disperazione nutre il fondamentalismo, il fanatismo e il terrorismo. Un
mondo in cui le risorse vengano veramente condivise sarebbe un mondo più
sicuro. Le politiche del capitalismo globalizzato delle corporazioni non
ci ha portato quel mondo. Sono stati messi alla prova, e si sono rivelati
incapaci. Abbiamo bisogno di rimpiazzare la loro visione con la nostra.
Il Movimento per la Giustizia Globale è spesso stato accusato di
non sapere ciò che vuole. In realtà, noi abbiamo chiare
le linee generali di ciò che vogliamo, anche se abbiamo una molteplicità
di idee sul come arrivarci. Ve le posso condensare in 5 brevi paragrafi:
7) Sviluppare la nostra strategia Possiamo
cominciare con la consapevolezza che negli scorsi due anni abbiamo attuato
una strategia altamente vincente. Da Seattle in poi, ciò che abbiamo
fatto è stato opporci ad ogni summit, come modo per portare l’attenzione
sulle istituzioni della globalizzazione, che lavoravano essenzialmente
in segreto, e delegittimarle. I sistemi cadono quando vengono colpiti
da una crisi di legittimità, quando non sono più in grado
di ispirare fede ed adesione a comando. La nostra strategia deve continuare
a lavorare per creare questa crisi nelle istituzioni del capitalismo globalizzato
delle corporazioni. Nel frattempo, a dispetto delle apparenze contrarie,
il governo Usa potrebbe già stare creando da sé la propria
crisi. Per dirne una, nulla delegittima un governo tanto in fretta come
il non essere stato capace di provvedere alla sicurezza fisica o economica
del proprio popolo. 8) Organizzarsi in modo aperto In tempi di aumentata repressione, il modo più forte di resistere non è nascondersi, ma diventare quanto più aperti nell’organizzazione e nella comunicazione. Più visibili siamo, meno potranno dipingerci come terroristi. Più facce fotografano agli incontri e alle manifestazioni, meno significativa diventa ogni singola faccia. Più informazioni collezionano, meno saranno capaci di confrontarle, analizzarle e cavarci un senso. E se davvero leggono le mie e-mail, be’ sono i benvenuti. Qualcuno deve pur farlo, ed io non ho il tempo di leggerle tutte… Forse potrei pagare un piccolo extra a qualcuno di loro se le classifica e mi manda un sommario con i punti essenziali. Per sapere quanto sia benefica la cultura della "sicurezza" potete chiederlo alla Cia, e comunque essa vi mostra all’esterno come qualcuno che ha qualcosa da nascondere ed attira su di voi l’attenzione dell’autorità. In più, essa rende estremamente difficile mobilitare, informare ed ispirare le persone. Sì, ci sono azioni che dipendono dalla sorpresa, ma con un po’ di intelligenza possiamo pianificarle in una riunione aperta: "E per finire, stasera daremo ad ogni gruppo per affinità una busta chiusa. Apritela domani alle 5 del mattino e vi darà due possibili punti d’inizio per la vostra manifestazione. Lanciate in aria una moneta per prendere la vostra decisione." 9) Fare in modo che le nostre azioni contino Le
azioni politiche potranno diventare sempre più costose nei prossimi
mesi e nei prossimi anni. Ciò significa semplicemente che dobbiamo
essere più chiari e riflessivi nel pianificare e compiere le nostre
azioni. La maggioranza di noi è disposta ad assumere rischi in
questo lavoro e a fare sacrifici se è necessario, ma nessuno vuole
fare sacrifici per qualcosa vuoto di significato o stupido. Non possiamo
più permetterci piani vaghi e azioni poco pensate che non raggiungono
lo scopo e credetemi, ho fatto la mia parte di entrambi. Non dobbiamo
mettere in moto un’azione che comprenda rischi significativi senza aver
dato risposta ai seguenti 5 punti: 10) Usare tattiche che rispondano alla nuova strategia ed alla nuova situazione Tutti/e
noi stiamo ripensando le nostre tattiche alla luce della situazione corrente.
Di solito discutiamo delle tattiche su un terreno etico: è giusto
o sbagliato, violento o nonviolento, tirare indietro i candelotti lacrimogeni
alla polizia o spaccare una finestra? Faremmo meglio a chiederci: "Queste
particolari tattiche danno sostegno ai nostri scopi ed ai nostri obiettivi?"
ed anche "Attualmente, stanno funzionando?" Coloro che sostengono tattiche
di estremo confronto, come il danneggiamento delle proprietà e
la battaglia con la polizia, generalmente pensano di assestare "colpi
al sistema" in questo modo. Ma in questo momento, il sistema è
stato colpito più duramente di quanto ciascuno/a di noi potesse
immaginare e si sta rivolgendo al fascismo, non alla liberazione. Nel
clima in cui ci troviamo, tali tattiche si ritorceranno contro di noi,
e confermeranno la legittimità del sistema. Molte tecniche classiche
della nonviolenza furono pensate per esaltare il contrasto fra "noi" e
"loro", reclamare il nostro maggior senso etico e mettere all’indice la
violenza del sistema. Anche molte di queste tattiche non funzionano più
allo stesso modo. Gli arresti simbolici, il passare-la-linea per farsi
arrestare, sembrano non impressionare affatto l’opinione pubblica con
la nostra "nobiltà" ed il nostro sacrificio… sempre che vengano
addirittura notati. Arresti di massa vengono invece usati per giustificare
la violenza poliziesca, anche quando gli arrestati erano completamente
pacifici. Anche se la polizia coopera nel rendere l’arresto facile e a
basso rischio, il processo conferma, anziché sfidare, il potere
dello stato. Quando non coopera, persino le azioni simboliche assumono
costi pesantissimi in tempi di detenzione e privazioni. E’ un prezzo che
vale certamente la pena di pagare, ma non ci sono più di tante
volte, in una vita, in cui possiamo pagarlo, perciò le nostre scelte
devono essere più meditate, più strategiche. 11) Rinnovare i nostri spiriti E’
un brutto momento. Molti/e di noi hanno lavorato intensamente per un lungo
periodo, ed ora fronteggiano la possibilità che gli obiettivi politici
raggiunti vengano spazzati via. La paura e la perdita ci circondano, e
parecchie forze sono all’opera per farci sentire isolati/e, marginalizzati/e
e privi/e di potere. Al meglio, il lavoro che abbiamo davanti ci sembra
enorme. Se abbiamo intenzione di sostenere questa fatica e di riguadagnare
il nostro momento, abbiamo bisogno di concederci il tempo di riposare,
di andare nei luoghi per la cui salvezza abbiamo lottato duramente e di
aprirci alla loro bellezza; abbiamo bisogno di ricevere sostegno e amore
dalle comunità per le quali lavoriamo. Dobbiamo nutrire le relazioni
che abbiamo, affinché esse non offrano solo solidarietà
politica ma calore e attenzione personale. La morte e la perdita hanno
riarrangiato le nostre priorità, ci hanno insegnato quanto bisogno
abbiamo gli uni degli altri, e hanno reso più facile abbandonare
alcune delle resistenze che interferiscono nelle nostre vere connessioni.
Molti/e attivisti/e non hanno fiducia nella religione e nella spiritualità,
spesso per ottime ragioni. Ma ognuno/a di noi è al lavoro perché
qualcosa ci è "sacro", sacro nel senso che significa qualcosa di
più del nostro agio e del nostro interesse, qualcosa che determina
tutti i nostri altri valori, e che ci rende pronti a rischiare noi stessi
al suo servizio. Può non essere un Dio o una Dea, ma è un
credo nella libertà, è il sentimento che proviamo quando
sediamo sotto un albero, o guardiamo un uccellino ad ali spiegate che
attraversa il cielo, è il dedicarsi alla verità, o ad un
bambino. Qualunque cosa sia, può anche nutrirci. Per quegli attivisti
e quelle attiviste che hanno un qualche tipo di pratica spirituale questo
è il momento di praticarla seriamente. Per coloro che non ce l’hanno,
potrebbe valere la pena di prendersi il tempo per domandarsi: "Perché
faccio questo lavoro? Cos’è importante per me? Cosa mi nutre?"
La risposta potrà essere grande e nobile, o piccola ed ordinaria,
ma qualsiasi sia, fatene una priorità. Sia l’hip hop o il disegnare
con il gesso sulla strada, fatelo ogni giorno o almeno con regolarità.
Portatelo con voi nell’azione. Lasciate che rinnovi la vostra energia
quando vi sentite giù. Abbiamo bisogno di voi in questa lotta è
un guadagno a lungo termine ed aver cura di voi stessi/e è un modo
per preservare una delle preziose risorse del nostro movimento.
Starhawk
La nota sul copright si è resa necessaria perché questo testo verrà pubblicato nella primavera del prossimo anno in una collezione di miei scritti intitolata: "Reti di potere. Note dalla sollevazione globale". |