Cristina Campo e il sacro

di Adriana Perrotta Rabissi

  

Nella prefazione a Il flauto e il tappeto, pubblicato nel 1971, Campo definisce il proprio testo: “un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”1; osserva infatti che il semplice atto del vedere non dà vera conoscenza se non ci “si solleva [dalla pura vista] alla percezione”, il che significa:“ riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste - si domanda - in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”

Come esempio Campo rilegge la favola di Belinda e il Mostro: quando Belinda passa dallo sguardo “con gli occhi della carne” alla percezione della bontà del mostro si innamora di lui superando la ripugnanza iniziale provata nei suoi confronti e solo allora si compie la trasformazione del Mostro in principe, ora che a lui non è più necessaria alcuna magia per assicurarsi l’amore di Belinda; l’evento della metamorfosi, ormai inutile e quindi totalmente gratuito, determina soltanto un sovrappiù di godimento per entrambi.

La riflessione sulle fiabe, sia orientali che occidentali, delle quali Campo mostra una conoscenza approfondita, dura lungo tutto l’arco della sua vita e costituisce il nucleo generatore della sua poetica; le riletture che ne dà sono più complesse delle interpretazioni abituali, incentrate in prevalenza sugli aspetti di natura psicologica e antropologica e orientate ad una prospettiva pedagogica.

Campo accomuna il mondo dei racconti di fate ai miti e alle religioni e ricerca in essi possibili risposte alle domande di senso intorno agli eventi fondamentali della nostra vita quali la nascita, la morte, l’amore, il desiderio di felicità; che in altre parole rappresentano il bisogno umano della dimensione del sacro. Osserva infatti che: “In Toscana la fiaba fu sempre chiamata ‘la novella ’, proprio come tra i popoli furono detti i Vangeli.”

Per lei questi tre generi di racconto condividono linguaggio e stile narrativo, sono regolati dalle stesse leggi costitutive del sogno e dell’esperienza mistica; scrive infatti che nelle fiabe: ”Come in un’antica danza di corte, bene e male vi si scambiano le maschere, e che la sorridente regina fosse una negromante, che nella stamberga del menestrello si celasse il magnanimo re Barba-di-Tordo non si appaleserà se non in quel sopramondo delle scadenze imponderabili a cui la fiaba conduce: là dove le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati. E tuttavia l’eroe di fiaba è chiamato sin dal principio a leggere in qualche modo quel sopramondo in filigrana, ad assecondarne le leggi recondite nelle sue scelte, nei suoi dinieghi. Gli si chiede nulla di meno che appartenere simultaneamente, sonnambolicamente a due mondi.”

Solo uno strumento soccorre l’eroe/eroina di fiaba per orientarsi nelle scelte che, nelle fiabe come nella vita reale, si presentano sovente sotto forma di enigmi, vale a dire  la capacità di passare costantemente “ad un nuovo ordine di rapporti”

Un altro mondo, dunque, ci indicano le fiabe, che presenta però parecchie analogie con quello concreto e terreno; certo un mondo non regolato: “dai miti consunti della ragione, dalle sentimentali leggende a lieto fine della scienza, dai gracili tabù della storia e della psicologia, dalle terroristiche teologie del progresso(“questa idea atea per eccellenza”) che da almeno due secoli paralizzavano o distorcevano le più elementari operazioni di conoscenza”. 2 Forse grazie a questa consapevolezza si potrebbe evitare di cadere in:”un umanitarismo che sembra escludere finora, con fredda determinazione, qualsiasi pietà non sia di ordine strettamente fisiologico: quasi che l’uomo vivesse veramente di solo pane e latte in scatola, quasi che di null’altro potesse venir privato.”

L’osservazione di Campo mi ha richiamato alla mente un passo del romanzo Anna Karenina, nel quale un personaggio riflette sul diverso comportamento manifestato dagli uomini e dalle donne nei confronti della morte; un brano che mette in luce un particolare rapporto con il sacro, riscontrabile in donne di diversa età, cultura, posizione sociale, caratterizzato dall’attenzione alla complessità della persona che sta morendo, per cui alla cura del benessere fisico, per quanto è possibile in situazioni di sofferenza, si accompagna la preoccupazione per quello psichico e spirituale.

Scrive Tolstoj: “[Levin] Non si considerava sapiente, ma non poteva non sapere di essere più intelligente di sua moglie e di Agafia Michajlovna, e non poteva non sapere che, quando pensava alla morte, ci pensava con tutte le sue forze interiori. Sapeva anche che molte grandi menti maschili, di cui aveva letto riflessioni nei libri, avevano riflettuto su quel problema senza sapere neppure la centesima parte di ciò che sapevano sua moglie e Agafia Michajlovna. Per quanto diverse fossero le due donne […] Entrambe sapevano indubbiamente cos’era la vita e cos’era la morte e, se anche non avrebbero saputo rispondere agli interrogativi che si poneva Levin, e non li avrebbero neppure compresi, erano entrambe certe dell’importanza di quell’ evento […] senza dubitare un solo istante, sapevano come comportarsi con un moribondo senza provare paura. Sebbene potessero disquisire a lungo sulla morte, Levin e gli altri la temevano e perciò ignoravano del tutto, in modo palese, cosa si dovesse fare quando qualcuno moriva. […] Che le azioni di Kity e Agafia Michajlovna non erano istintive, primordiali, irrazionali, era dimostrato dal fatto che, oltre alle cure fisiche, alla capacità di alleviare le sofferenze, tanto Agafja Michajlovna quanto Kity pretendevano che un malato ricevesse qualcosa di più importante delle cure fisiche qualcosa che non aveva nulla a che fare con il suo stato fisico” 3

Nel verbo ‘ pretendevano ’ mi pare siano delineati con felice sintesi un atteggiamento e i conseguenti comportamenti propri di molte donne di fronte a snodi della vita individuale e collettiva; atteggiamento e comportamenti indotti dall’educazione di genere: avere a che fare con la nascita, per ragioni biologiche, e con la ‘ cura ’ di mondi animati e inanimati, umani e non umani, per ragioni storiche e culturali, comporta una visione più ampia e complessa che non quella che riduce gli esseri umani alla dimensione puramente fisica e materiale.

Non a caso Campo osserva che la dimensione delle fiabe è sovente, anche se non esclusivamente, legata ad una figura femminile, in particolare a una nonna, in proposito afferma: “e sempre la raccontatrice di fiabe – questi evangeli che così leggermente si dicono moralità – fu la nonna: la decana di casa, la donna di buon consiglio, dama che fosse o contadina”4, così che ci accompagnerà nella nostra età adulta l’intreccio tra la dimensione della fiaba e quella dell’infanzia, in modo che: “[…] se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe”.

Campo fu una scrittrice-poeta di grande cultura e di vaste conoscenze filosofico-letterarie; scrisse di vari argomenti, ma sempre consapevole del proprio percorso di ricerca, individuato da lei con chiarezza nella molteplicità e apparente varietà degli interventi; in un’intervista rilasciata nel 1975, alla domanda se sia da considerarsi una sua svolta l’interesse recentemente dimostrato per la letteratura russa, risponde, dopo aver ricordato di avere iniziato a leggere gli scrittori russi fin da bambina su suggerimento del padre: ”Non credo di sapere cosa siano le svolte... La strada è una, solare, da oriente a occidente. Essa segue quattro linee: il linguaggio, il paesaggio, il rito e il mito”, poco più avanti nella stessa intervista definiti: “i quattro elementi della felicità.”5

 

Note

1 Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi Edizioni, 1987, p.5

2 Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi Edizioni, 1998, p.169

3, Lev N. Tolstoj, Anna Karenina, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso SPA, 2004, pp.587-588

4, Cristina Campo, Gli imperdonabili, cit., p.15

5, Cristina Campo, Sotto falso nome, cit., p.213

 
Questo articolo è uscito su "La Mosca di Milano. Rivista di poesia,arte e filosofia", n° 13, dicembre 2005