Esperta di luce
di Adriana Perotta Rabissi

 

 

L’ombra

L’ombra è necessaria alle immagini  fotografiche perché definisce i soggetti inquadrati delineandone i contorni; senza di lei il nostro occhio coglierebbe ben poco di quanto fotografato.
La regista cinematografica Alina Marazzi, che in ragione della sua professione conosce bene il valore delle ombre nelle riprese, alle soglie della maturità fa i conti con l'immagine materna interiorizzata, che in realtà è un’assenza, perché la madre è morta suicida a trentaquattro anni, quando lei ne aveva sette, l’ha quindi conosciuta poco e male dai  discorsi discreti e reticenti dei familiari.
Rielaborando nel film dal titolo Un’ora sola ti vorrei  il materiale documentario sulla madre che è riuscita a trovare nell’archivio di famiglia,  Marazzi sovverte e disordina  l'ordine e i contenuti del racconto ufficiale, mossa dal desiderio di “raccontarsi da sola” la storia della madre; dà vita quindi ad una narrazione per immagini, suoni, parole e scrittura. Redige infatti un libro di accompagnamento alla pellicola, testo che è nello stesso tempo storia della madre, autobiografia e diario di lavoro, nel quale sono raccontati la nascita del suo desiderio di fare il film, le fasi di lavorazione, i  dubbi e le scelte narrative sue e delle collaboratrici e collaboratori, le emozioni provate e le strategie di contenimento delle stesse.
 Marazzi osserva a proposito del materiale  eterogeneo impiegato –fotografie, filmini amatoriali del nonno materno,  lettere, diari, cartelle cliniche della casa di cura in cui fu ricoverata la madre, interviste a chi l’ha conosciuta-  : “ […] nel caso di mia madre si scopre che quelle immagini di felicità erano tutte false: come se la macchina da presa non fosse stata in grado di cogliere l’essenza al di là dell’apparenza.
Con il montaggio abbiamo cercato di smascherare, di rendere più evidente l’ombra che le immagini contengono” (pp. 49-50).
L’ombra come effetto verità, che, trasferita dal piano operativo cinematografico a quello simbolico narrativo, diventa  una chiave di lettura e di conoscenza della realtà. Ne è segno un’immagine suggestiva e ricorrente nel film e  nel testo: il viso bello di Liseli, la madre di Marazzi, durante una festa familiare, dal sorriso appena accennato, ma ombreggiato dall’ala di un ampio cappello: “E’ un primo piano bellissimo, un’immagine emblematica. Il volto di mia madre tra i fiori, con un cappello di paglia che le getta un’ombra addosso” (43)).  
 
Lo sguardo

Confermando la dimensione inevitabilmente autobiografica di ogni biografia, Alina si difende dalla follia che ha sconfitto la madre -e salva se stessa- con il sogno, immergendo personaggi e vicende in una dimensione onirica; a proposito di una scena iniziale di prestidigitazione scelta per introdurre i nonni materni nella storia Marazzi osserva: ”E’ come l’inizio dello spettacolo: il prestigiatore entra in scena, fa apparire quello che non c’è più, come io faccio apparire cose che non esistono più. […] La voce, come nella migliore delle tradizioni, dice ‘C’era una volta‘, imprimendo alla nostra storia l’aura di un racconto fiabesco” (p.46).
Ma da artista conosce il rischio che corre una donna nell’indagare la vita e il pensiero di un’altra,  in questo caso rischio accentuato dal rapporto che la lega al soggetto della sua rappresentazione, il pericolo cioè di cadere in un particolare coinvolgimento emotivo nello spazio dell’interpretazione, in un’adesione empatica alla storia e al personaggio narrati, ostacolo ad una reale comprensione e  vizio di posizione che alimenta lo stereotipo di un femminile indifferenziato, avvolgente e coinvolgente tutte le donne.
L’intelligenza e la professionalità le evitano il possibile errore.
Il nodo fondamentale dell’operazione per lei  è riuscire a condurre la narrazione in modo nuovo rispetto all’usuale, evitando  di  leggere l’esperienza vita e pensiero della madre all’interno delle categorie esplicative ufficiali. In questo senso le riflessioni contenute nel suo libro confermano quanto già si coglie nel film, l’assunzione di uno sguardo eccentrico, diverso e divergente.
Infatti il brano già citato a proposito della madre e delle altre donne protagoniste  dei filmini amatoriali del nonno materno, che qui riporto più ampiamente, permette un’ulteriore riflessione sulla differenza di sguardo tra il nonno, padre di Liseli e Alina, la figlia di Liseli: “Non potevamo dimenticare che erano tutte immagini girate da un uomo che riprende le sue donne, le sue muse: la moglie, la figlia.[…] Sono donne molto belle, che trasmettono fascino, colto da inquadrature ricercate e fascinose esse stesse. Ma nel caso di mia madre si scopre che  quelle immagini di felicità erano tutte false: come se la macchina da  presa non fosse stata in grado di cogliere l’essenza al di là dell’apparenza.
Con il montaggio abbiamo cercato di smascherare, di rendere più evidente l’ombra che le immagini contengono” (pp.49-50).
Alla madre Alina presta la propria voce, anche fisicamente nel film, operando un vero e proprio rovesciamento di ruoli: la figlia mette al mondo la madre, accostando parole sue immaginarie a documenti reali, dando vita pubblica ad una figura che era stata fino ad allora  segregata nel privato familiare.

Il tempo

Il film è costruito secondo una particolare struttura temporale, che ho rintracciato spesso in opere narrative di donne, un tempo che difficilmente ha  un andamento solo lineare e proiettato verso il futuro, ma è piuttosto il tempo di un  presente continuo. Le immagini infatti si susseguono in un ordine non cronologico e non in sincronia con la voce fuori campo,  così che il contrasto tra la ricostruzione orale cronologica e l’avvicendarsi di fotogrammi che si ripetono  secondo un andamento a spirale tipico degli andirivieni della memoria, provoca in chi guarda l’impressione di una storia mai chiusa  definitivamente in uno schema logico di causa e effetto, secondo il consueto percorso di disagio, follia e morte, ma piuttosto di una vicenda che si sarebbe potuta riaprire in ogni momento ad un altro ordine di rapporti,  in tal modo si rimane disorientati e come risucchiati  in un altrove, il luogo del sogno e della fiaba.

 

Il sogno, le fiabe

Tutto il film è percorso, come abbiamo già sottolineato, da una dimensione onirica e fiabesca, sia per l’ atmosfera  ricreata mediante un sapiente uso di luci e ombre, sia per i simboli adottati, a cui Marazzi fa esplicito riferimento nel libro; a  proposito del primo fotogramma in cui compare la madre, addormentata sulla spalla del marito in una carrozza durante una gita in montagna, Marazzi osserva:
Liseli appare come una bella addormentata nel bosco in un’immagine che ammanta l’inizio del film di un tono leggero e fiabesco”(p. 34). Molteplici sono i riferimenti ad altre fiabe: “Il mondo che circondava mia madre nella sua infanzia mi ha fatto spesso pensare a una certa iconografia di libri per bambini come Pierino Porcospino […] L’atmosfera da fiaba nordica  che avvolge il film è un retaggio culturale dell’ambiente in cui è cresciuta mia madre(p.56); e più avanti: ” Quando lessi le cartelle cliniche mi colpirono gli stralci di conversazione con il medico in cui mia madre fa riferimento al passato, richiamando il mondo delle fiabe, dell’infanzia, innocente ma allo stesso tempo minacciata da grandi sventure” (pp.57-58).
Quel mondo di favole si è scontrato con la realtà (p. 63) per la madre di Marazzi,  ma la dimensione fiabesca, con i suoi simboli e la possibilità di oltrepassare la legge di necessità che regola i rapporti umani le hanno offerto una chiave in più per orientarsi nel mistero della  esistenza, sua e della madre, oltre che funzionare come mezzi di contenimento di emozioni e strumenti particolarmente efficaci di comunicazione di sentimenti.

 

Testo pubblicato su La Mosca, Milano, 17

22-11-07