Ancora di corpi e di parole
di Adriana Perrotta Rabissi


Angelica Kauffmann


questo articolo è apparso su
il paese delle donne 9 settembre 2004

 

Le osservazioni di Marina Pivetta, a proposito dell’incontro di maggio alla Casa internazionale delle donne di Roma, incontro a cui peraltro non ho partecipato, mi suggeriscono una riflessione, intorno alla quale sosto da qualche mese.

Se è indubbio che ultimamente, e in certi contesti, l’azione di sessuazione della lingua rischia di diventare un fatto di folklore, perdendo la sua caratteristica di “categoria eversiva” di mentalità e comportamenti che ha avuto nel recente passato, è anche vero che frettolose liquidazioni del problema mi paiono sospette.

Concordo con Marina che afferma: Secondo Muraro importante è sciogliere quella rigidità ideologica che pretende ad ogni costo che ci si esprima sessuando la propria parola cosa che ci impedisce il fluire di una capacità di ascolto necessaria a farci capire la realtà.
Ma, capire la realtà e modificarla non sono due momenti separati perché noi siamo il mondo che vogliamo cambiare”.

Proprio a questo proposito mi sembra riduttivo considerare la lingua solo dal punto di vista della comunicazione, ignorando le altre funzioni che ricopre in una comunità di parlanti.

La lingua non è stata, come si è creduto fino all’inizio del secolo scorso, solo un raffinato strumento di comunicazione- messo a punto dagli umani in  un momento indeterminato della loro  storia di specie -  per comunicare “cose” (idee, concetti, immagini) già presenti nella loro mente, ma il prodotto della facoltà del linguaggio verbale, considerata la caratteristica biologica della nostra specie di appartenenza (homo sapiens sapiens). Ne deriva che ogni lingua storico-naturale organizza il mondo, interiore prima di tutto,  dei/delle parlanti. Il linguista  Sapir sosteneva  che la costruzione del “mondo reale”, inteso come quello che ciascuno di noi si costruisce dentro di sé, si forma in gran parte nell’inconscio, sulla base delle abitudini linguistiche apprese dalla nostra entrata nel mondo.

            Quindi la lingua quotidiana costituisce i “binari” su cui viaggia il nostro pensiero, determinando le  categorie  di percezione e classificazione della realtà (categorie che sono logico-epistemologiche, oltre che linguistiche, e che non sono universali) e funziona da “deposito” dei  valori, dei giudizi su ciò che bello o brutto, giusto o ingiusto, naturale o innaturale, delle fantasie, delle paure e delle speranze, delle idee e dei comportamentï,  sui quali  ci formiamo a partire dal nostro ingresso nel mondo.

Un certo modo di parlare, appreso  fin  dalla prima infanzia, e,  in  quanto tale,  percepito comunemente  come un fatto  naturale, e non storicamente determinato, diventa  per automatismo   un  certo  modo  di  pensare.

Questa funzione modellizzante della lingua fa sì dunque  che le rappresentazioni culturali e  sociali in essa sedimentate si traducano, a livello del senso comune, in forme obiettive di conoscenza.

Le lingue sono anche i luoghi della codificazione dei ruoli sessuali nelle diverse culture e società, ruoli vissuti come naturali  e quindi spesso ritenuti  immutabili, proprio perché appresi dalla e nella lingua materna; intendo riferirmi all’insieme di qualità, di caratteristiche psicofisiche, di disposizioni d’animo, di atteggiamenti, di modelli di comportamento, di aspettative e di   sentimenti   ai  quali dovrebbero conformarsi  le donne e gli uomini  reali, secondo  i  canoni  delle relative educazioni di genere.

Allo stesso modo, gli stereotipi sedimentati nelle lingue, non solo in relazione ai generi ma anche ad altre componenti discriminatorie quali l’appartenenza a certe etnie, la pratica di determinate religioni, lo svolgimento di alcuni mestieri e via dicendo, agiscono nel profondo delle/dei parlanti,  fatte proprie, a volte a livello inconsapevole, dai/dalle parlanti/pensanti.

Così se una lingua, come ad esempio l’italiano, è androcentrica, perché prevede un solo soggetto di  pensiero e di discorso, apparentemente  privo  di determinazioni materiali  e  sensibili, quindi  astratto e asessuato, e in quanto tale universale,  adatto cioè a rappresentare  sia gli uomini che le  donne,   in  realtà strutturato   secondo modalità ascritte nella nostra cultura, al maschile, ne consegue una svalorizzazione del femminile in rapporto alla produzione del pensiero e  delle sue  forme discorsive, parallela all’enfatizzazione di un suo presunto contatto empatico con  la  natura, nonché la  riduzione  della  sua specificità e complessità  alla  sfera del corporeo, del sensibile-materiale, e del “materno”, con il rischio di alimentare l’illusione di un’onnipotenza femminile nel campo dei sentimenti.

Voglio qui richiamare  l’attenzione sulle  conseguenze  di questa asimmetria tra maschile e femminile  per l’economia psichica  delle/dei bambine /bambini  nel  processo   di individuazione di sé e di costruzione della propria soggettività: autosvalutazione   da  parte  delle bambine a cui corrisponde peraltro un’ altrettanto negativa sopravvalutazione di sé da parte dei bambini.

Una prova piccola, ma significativa, del fatto che l’asimmetria linguistica sottende una profonda asimmetria di valore si ha quando si provi a utilizzare un femminile generico per rappresentare anche i maschi: è infatti accettato -naturale?- da una  ragazza all’esame di stato un modulo scolastico che la  definisce ‘il candidato’, ma non è accettato da nessuno studente un modulo che  lo definisca ‘la candidata’;  non solo questo risulterebbe impensabile, perché inconsueto, ma anche offensivo, come una degradazione.

Le bambine e le donne, quindi, nella propria vita dovranno spesso fare i  conti  non solo con gli  eventuali  vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione  e autodeterminazione,  ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne  in  generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua.

Non si tratta, come già avvertiva Sabatini nella sua ricerca pioniera su questi temi in Italia, di  “negare né abolire le differenze tra maschio e femmina, […] Il problema non sono le differenze, ma le valenze che esse esprimono” .

Mi si può obiettare che questi problemi si superano con la consapevolezza dei meccanismi logico-linguistici, ma il guaio è che il più delle volte molte e molti di noi ne siamo del tutto inconsapevoli.

Anche se non è possibile modificare nell’immediato, e con semplici atti volontaristici, le strutture e i meccanismi di funzionamento di un sistema così complesso come la lingua, l’adozione di dispositivi che segnalino le dissimmetrie tra maschile e femminile aiuta a contrastare il fenomeno dell’ inerzia linguistica e quindi mentale di donne e uomini, non mi pare che viviamo già in un “altro mondo”, per renderlo “possibile” credo non si debba sottovalutare alcun livello, né materiale, né simbolico.

Luglio 2004