Proponiamo
questo articolo di Marina Forti, che ringraziamo per la sua disponibilità.
Marina è inviata per il manifesto in Afghanistan: qui
testimonia una situazione poco presente nei reportage dalla zona di
guerra. Una condizione vissuta da donne e narrata con attenzione tutta
femminile.
Abbandonati a Peshawar
di Marina Forti
Da il manifesto del
26 Ottobre 2001
Premono
davanti alla porticina, dove un addetto cerca di tenerle a bada. Qualcuna
stringe tra le braccia un bambino, una mostra un bebé avvolto in
uno scialle. Riusciranno a entrare una a una: nel cortiletto sono ormai
decine, attendono impazienti il proprio turno di mostrare un bambino ammalato
a una delle dottoresse che presta servizio volontario in questo ambulatorio
improvvisato. Siamo in un quartiere residenziale di Peshawar, dove una
villetta è la sede del Afghanistan Women Council, Consiglio delle
donne afghane: dalla metà di settembre sono subissate da richieste
di aiuto - e la richiesta più pressante, ci dice la signora Fatana
Gilani, è il puro e semplice cibo: i rifugiati afghani, quelli
che continuano ad arrivare nonostante tutte le frontiere chiuse, hanno
fame. "Possibile che nessuno si renda conto? Ieri mattina, qui fuori,
ho trovato tre o quattrocento donne che aspettavano, esasperate. Mi tiravano
per la sciarpa: 'dove andiamo, cosa daremo da mangiare ai nostri figli,
siamo appena arrivate da Kabul e abbiamo perso tutto'. Sono persone traumatizzate,
hanno pagato contrabbandieri per arrivare a piedi attraverso le montagne,
non hanno denaro, e qui trovano solo telecamere e giornalisti. Ormai vi
odiano".
Fatana Ishaq Gilani è una bella signora sulla quarantina con un
viso amaro. Lei appartiene a una famiglia notabile; è fuori dall'Afghanistan
da 22 anni e ha cominciato il suo attivismo per i diritti delle donne
negli anni '80. Ha partecipato a fondare il Consiglio delle donne afghane
nel '93 per "dare alle donne il posto a cui hanno diritto nella società
afghana" e difendere "i diritti civili e sociali delle donne".
E' un'organizzazione indipendente, precisa, e non ha finanziamenti istituzionali
ma solo donazioni private, beneficenza: con queste gestisce dal '92 un
ambulatorio a Kabul oltre all'ambulatorio di Peshawar (l'assistenza è
gratuita); una scuola (Aryana High School) pure fondata nel '92, circa
5.000 scolari dalla prima alla 12esima classe, attività culturali.
Ma su tutto questo ora prevale l'urgenza: "Da metà settembre
400 famiglie sono venute alla nostra porta a chiedere aiuto - significa
alcune migliaia di persone. Ora abbiamo abbastanza per distribuire cibo
a 200 famiglie per un mese, oltre a curare donne e bambini, ma i nostri
mezzi sono limitati. Che posso dirle? Il mio paese è distrutto,
centinaia di migliaia di persone vagano in cerca di aiuto, chi più
pagare un passeur fugge".
Parliamo in un piccolo ufficio, ogni tanto un'assistente porge biglietti
da visita di troupes televisive che chiedono di filmare. Alle pareti foto
della signora Gilani in conferenza internazionali, accanto a dirigenti
della Nazioni unite, mentre riceve riconoscimenti... "In quante conferenza
sui diritti umani siamo andate a parlare di cosa succede in Afghanistan!
La realtà è che prima dell'11 settembre non ci ascoltava
nessuno. Finita la guerra contro l'Unione sovietica c'era un paese da
ricostruire, ma proprio allora il mondo ci ha dimenticato - salvo quelli
che hanno continuato a dare armi e soldi ai mojaheddin, ogni paese ha
sostenuto la fazione che gli era utile. I mojaheddin hanno continuato
a combattersi in nome della religione mentre gli afghani sono scivolati
sempre più nella miseria e la vita per le donne è diventata
impossibile. In Afghanistan il sangue scorre da oltre vent'anni".
Le parole diventano un torrente: "Ora hanno deciso di bombardare
questo paese già stremato. Ma si chiedono da dove sono venuti i
Taleban e i loro protetti? Perché sono stati zitti per ben cinque
anni, e ora decidono che per cacciarli ci vogliono proprio le bombe?".
Gilani è scettica sul "governo di ampia coalizione" per
l'Afghanistan post Taleban: "chiamano a negoziare sempre e solo i
leader religiosi e i comandanti: sono proprio loro che hanno creato il
disastro. Bisogna finirla con le barbe lunghe".
La situazione umanitaria è insostenibile, insiste Fatana Gilani:
"Chiediamo di fermare subito questa guerra. Gli afghani stanno già
morendo di fame, all'interno e anche qui nei campi profughi". Esasperata:
"Perché nessuno fa qualcosa? L'Unhcr? Perché non riescono
a distribuire cibo? Abbiamo chiesto all'Unicef di darci una mano, ed ecco
tutto quello che ci hanno mandato", e indica un modesto scatolone
di medicinali. "E' venuta anche la vostra viceministro degli esteri:
è venuta con me a visitare un campo profughi, mi ha detto che il
nostro lavoro è tanto prezioso, si è commossa, è
stata fotografata, ha promesso aiuti. Poi è ripartita e non abbiamo
visto nulla".
Fatana Gilani parla di gente umiliata e costretta a mendicare. "Nel
campo di Jalozai dall'inizio dell'anno è morto un centinaio di
donne, di malnutrizione e malattie". Già, perché ancor
prima dei bombardamenti, decenni di guerra e tre anni consecutivi di siccità
avevano fatto dell'Afghanistan il paese forse più povero e certamente
meno accessibile del mondo. Le Nazioni unite stimano che 6 o 7 milioni
di persone all'interno del paese non abbiano cibo se non quello distribuito
dalle agenzie umanitarie, che però non hanno potuto o saputo fare
molto. Nell'ultimo anno attorno a Peshawar i vecchi campi profughi si
sono ingrossati e ne sono cresciuti di nuovi, "spontanei", maltollerati
dalle autorità pakistane, che hanno chiuso le frontiere.
L'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) ora è
impegnato in un braccio di ferro con il governo pakistano: Islamabad ha
autorizzato la costruzione di un campo profughi presso Quetta, in Baluchistan,
ma solo per i "casi vulnerabili". Il nodo della contesa è
il riconoscimento dello status di rifugiati ai fuggiaschi: questo spaventa
il governo pakistano, che si trincera dietro i due o tre milioni di afghani
già insediati qui, un onere di cui il Pakistan è solo a
farsi carico. Ora l'Acnur stima che tra 10 e 15mila persone stiano premendo
ai confini; Islamabad chiede che le agenzie internazionali si occupino
di loro oltre confine, in territorio afghano. "Campi profughi oltre
confine? E' pericoloso. E' lasciarli allo sbaraglio", commenta Nadia,
giovane redattrice del bollettino mensule dell'associazione (Zani-i-Afghan,
"La donna afghana", dodici pagine in pashto e in dari). Ora
anche lei si occupa soprattutto di far fronte al fiume quotidiano di richieste
di aiuto. Come a prevenire una richiesta rituale, ci propone di parlare
con qualche donna appena arrivata da Kabul. Ci presenta Sanisa, arrivata
due settimane fa con i suoi 9 figli, il marito è stato rapito dai
Taleban per mandarlo a combattere. Vive in casa di parenti, "ma sono
troppo poveri per nutrire me e i miei figli e sono venuta qui a vedere
se distribuiscono del cibo". Piange: una volta era un'impiegata statale,
a Kabul, "poi quando la città è stata presa dai Taleban
ci hanno mandato via e mi sono guadagnata da vivere facendo la domestica,
e vendendo un po' di ricami". Ora non ha notizie della madre e della
sorella rimaste a Kabul.
"Vuoi parlare con una donna che nella fuga ha perso suo figlio?",
propone ancora Nadia. No, grazie, perché infliggere a una donna
disperata anche la sofferenza di raccontare forse per l'ennesima volta
la propria tragedia? "Beh, i giornalisti di solito ce lo chiedono".
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