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Il Pakistan e l'Afghanistan non sono mete turistiche e infatti agli aeroporti pachistani non ho incontrato stranieri e la cosa non meraviglia dopo i recenti attentati. La situazione cambia all'imbarco del volo delle Nazioni Unite da Islamabad a Kabul. Ci sono i rappresentanti delle 800 organizzazioni non governative internazionali attualmente registrate a Kabul, ci sono i funzionari delle agenzie delle Nazioni Unite e ci sono gli impiegati delle ambasciate. Attualmente si stima che la popolazione di Kabul sia di 2,5 milioni, in una città semi distrutta. Soprattutto, la parte occidentale della città porta i segni della guerra. I quartieri centrali sono intatti e sono occupati dagli stranieri, dalle ambasciate, dall'ISAF, dalla CIA e ci sono mille posti di blocco davanti a questi edifici come pure davanti alle residenze dei signori della guerra afghani. Girano tanti soldi a Kabul e la cosa è visibile.
Ovunque c'è il bazar, pure nel letto del fiume Kabul, l'inverno scorso un povero rigagnolo ma ora totalmente prosciugato, si è insediato un bazar ironicamente chiamato Titanic bazar. La cosa che mi salta subito agli occhi è che tre donne su dieci non portano il famigerato burqa, almeno nel centro della città. Vestono un semplice velo che copre loro solo la testa oppure una parte del corpo.
Ma la quiete inganna, ogni giorno sentiamo dei botti e poi veniamo a sapere che era una bomba in un cinema oppure davanti ad una guest house. Certo gli afghani sono persone sveglie, non solo hanno accorciato o tagliato la barba, vendono artigianato a prezzi esagerati, ma a differenza dell'inverno scorso, hanno pure aperto un numero imprecisato di guest house e ristoranti per gli stranieri. La cosa che manca sono i segni di ricostruzione. L'unico cantiere aperto che ho visto è quello di una grande moschea nel centro della città, nei pressi dell'ufficio postale.
La
situazione cambia drasticamente non appena usciti dalla città.
Siamo diretti a Behsood, un distretto hazara nella provincia di Wardak.
Dopo avere superato i molteplici posti di blocco panjshiri si attraversa
una zona pashtoun famosa per le mele. Vediamo alcune scuole finanziate
da progetti internazionali lungo la pista polverosa.
La guerra è ancora visibile, le fattorie sono distrutte e il bazar offre uno spettacolo pietoso di botteghe sventrate. Nulla di grave, duecento metri più in là è nato il nuovo bazar e passando sotto un arco con la foto di Ali Mazari, il grande eroe hazara ucciso dai taleban, ci troviamo nel Hazarajat, dove non c'è stata la guerra.
C'è
la pace, la monoetnicità della popolazione, non ci sono burqa,
nemmeno uno, e c'è siccità, carestia, fame, povertà
e la totale mancanza di progetti internazionali. Altre ore di viaggio
su pista polverosa lungo la valle dove dei quadrati senza sterpaglia secca
indicano dove in passato si trovavano i campi. Le contadine accovacciate
raccolgono il grano in magri mazzetti; è questa la resa di campi
grandi come un campo di pallacanestro. Con le mie povere conoscenze di
dari riesco a capire che la signora mi dice che non ci sono più
uomini nella sua famiglia, tutti morti in guerra, che le figlie non sanno
leggere e scrivere e che con queste quattro spighe devono svernare. Ma
la valle è fortunata, un fiume, ridotto alla grandezza di un ruscello,
corre lungo la valle e fornisce almeno l'acqua da bere. In fondo alla valle però c'è una piccola oasi di benessere, è l'ospedale di Shuhada, l'organizzazione
della Dottoressa Sima Samar, In questa
sessione ci sono 5 classi di 20 donne circa che, oltre alle nozioni sulla
salute di madre e figlio, imparano a leggere e scrivere. I corsi si tengono
direttamente nei villaggi inerpicati sulle montagne.
Kart e Se
è un quartiere con una grande parte di abitanti hazara e Sima,
giustamente, si sente meglio tra la sua gente piuttosto che vicina di
casa del signore della guerra Sayyaf, come l'inverno scorso. Sima non
è entusiasta della situazione attuale, dice che il governo attuale
è debole e che il potere è in mano ai pandshiri; dice che
la gente sta perdendo un po' di speranza; dice che è bello che
alcune donne non si sentono più obbligate a portare il burqa ma
che lei si sarebbe aspettata di vedere ancora meno burqa in giro per Kabul
a quest'ora. Dice che è vero che alcune centinaia dei più
di 10 mila studenti all'università di Kabul sono donne, ma che
sono troppo poche. Sakira, una
ragazzina sveglia della sesta classe, ha 13 anni e vuole diventare medico.
Una volta finita la scuola con gli esami del dodicesimo anno vorrebbe
iscriversi alla facoltà di medicina a Kabul, come ha fatto la sua
insegnante Vahida.
E' difficile pensare che siano le stesse ragazze che l'anno scorso non aprivano bocca e si nascondevano dietro il velo. Sono diventate delle giovani donne con tanti progetti e pochi sogni. Sia le ragazze che i ragazzi ventenni sono coscienti del fatto che saranno loro, la loro generazione, a dover ricostruire l'Afghanistan e che i soldi che arrivano dall'estero se ne andranno. Sanno che
toccherà loro rimboccarsi le maniche, rientrare nel loro paese,
nei loro villaggi senza corrente elettrica e senza acqua corrente e trasformare
la vita di guerra in vita di pace. Visitiamo
la scuola di Samali a mezz'ora di macchina da Quetta. Samali è
un villaggio di profughi uzbeki che non possono rientrare in Afghanistan.
La scuola di Samali ha circa 800 studenti, la mattina maschi e il pomeriggio
femmine. La povertà è spaventosa, ma l'accoglienza è
calorosa come è consuetudine tra la popolazione uzbeka. La scuola
di Samali è finanziata da una piccola organizzazione svizzera tedesca
e anche noi lasciamo un obolo per questi ragazzi che ci cantano le canzoni
sul loro "watan" (patria) con occhi chiusi per concentrarsi
meglio e per la timidezza.
Evelina Colavita
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