Metamorfosi e travestimenti dello spazio politico nella modernità
a cura di Donatella Bassanesi

“Le distinzioni politiche tradizionali (come quelle fra destra e sinistra, liberalismo e totalitarismo, privato e pubblico) perdono la loro chiarezza (...) entrano in una zona di indeterminatezza una volta che il loro referente fondamentale sia diventato la nuda vita”.
“Il fatto è che una stessa rivendicazione della nuda vita conduce, nelle democrazie borghesi, a un primato del privato sul pubblico e delle libertà individuali sugli obblighi collettivi e, negli stati totalitari, diventa invece, il criterio politico decisivo e il luogo per eccellenza delle decisioni sovrane” (G. Agamben, Homo sacer, p. 134).

Si tratta della trasformazione della politica in biopolitica. A ragione della quale rapidamente “nel nostro secolo le democrazie parlamentari hanno potuto rovesciarsi in stati totalitari e gli stati totalitari convertirsi quasi senza soluzione di continuità in democrazie parlamentari”.
Perché con la biopolitica si allarga “al di là dei limiti” lo “stato di eccezione della decisione sulla nuda vita” (ibid. p. 135), “sono i corpi assolutamente uccidibili dei sudditi a formare il nuovo corpo politico dell’occidente” (ibid. p. 138), mentre la sovranità regale (e divina) trasformata in sovranità nazionale cancellando lo scarto tra nascita e nazione apre a concetti come “suolo e sangue” che sono stati chiave dell’ideologia dell’esclusione e dell’inclusione che ha prodotto nazismo e fascismo.
Esclusione e inclusione per le quali prende corpo quel luogo tra la casa e la città che è la terra di nessuno. Nessuno: chi abita sconosciuto, puramente immagine, e immagine contraffatta, anche dai messi di comunicazione la cui diffusione non aumenta il grado di conoscenza, appiattisce la conoscenza stessa, rende impossibile un patto sociale a ragione del quale ciascuno potrebbe essere rappresentante-rappresentato. 
La questione centrale è la creazione di marginali che devono puramente obbedire, ossia usufruiscono di diritti passivi.

La storia ci mostra.
In molti stati europei sono stati introdotte “norme che permettono la denaturalizzazione e la denazionalizzazione in massa dei propri cittadini. La prima fu, nel 1915, la Francia, rispetto a cittadini naturalizzati di origine ‘nemica’; nel 1922 l’esempio fu seguito dal Belgio, che revocò la naturalizzazione di cittadini che avevano commesso ‘atti antinazionali’ durante la guerra; nel 1926 il regime fascista emanò una legge analoga nei confronti dei cittadini che si erano mostrati ‘indegni della cittadinanza italiana’; nel 1933 fu la volta dell’Austria e così via, finché le leggi di Norimberga sulla ‘cittadinanza del Reich’ e sulla ‘protezione del sangue e dell’onore tedesco’, spinsero all’estremo questo processo, dividendo i cittadini tedeschi in cittadini a pieno titolo e in cittadini di secondo rango, e introducendo il principio che la cittadinanza era qualcosa di cui bisogna mostrarsi degni e che poteva, pertanto, essere sempre messa in questione” (ibid. p. 146).
Fu la regola applicata costantemente nella ‘soluzione finale’, la denazionalizzazione precedeva sempre e rendeva possibile l’avvio ai campi di sterminio.

Campi che portavano a diventare “nuda vita”, chiudendo fuori dall’ordinamento giuridico normale. Dunque in un percorso contemporaneo di inclusione e di esclusione. Con un rovesciamento che collocava in uno stato di eccezione,  sottoposti a quel dominio totalitario in cui “tutto è possibile”, come osserva Hannah Arendt. 

 

passaggi dal libro di Giorgio Agamben, Homo sacer – il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995

 

6-06-2009

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