Joëlle: della conquista di una cittadinanza

di Nicoletta Buonapace


Agnese Seranis

In queste pagine Agnese narra la storia di un’infanzia senza tenerezza, senza alcuna dolcezza, deprivata di quell’amore e quella protezione che a ogni infanzia dovrebbe essere data e lo fa con un linguaggio estremamente sobrio, diviso in capitoli di breve e bruciante intensità, attenta a non scivolare mai in toni eccessivamente aderenti al dolore o alla rabbia dell’esperienza.
Agnese decide di ripercorrere, con sguardo lucido, una stagione della sua vita, dando a essa una casa di parole e il calore della memoria e pur nell’impossibilità forse di trovare una consolazione alla durezza estrema delle esperienze che l’hanno segnata, ha fiducia che la parola scritta possa dare a essa un’accoglienza che non ha ricevuto.
Un libro contraddistinto dunque dalla tristezza e dalla mancanza ma mosso, evidentemente, dalla consapevolezza e dalla speranza che il racconto di sé può ricucire i lei strappati d’un vissuto estremamente doloroso.
La scrittura può infatti essere il luogo ove ricostruire un’immagine di sé, una diversa visione, in grado di restituire a un destino individuale dignità, peso, valore, facendone simbolo di possibile riscatto e insieme occasione di condivisione con altri/e.
Se nella scrittura c’è una qualche funzione riparatrice è grazie alla possibilità di esercitare, attraverso di essa, uno sguardo, se non di tenerezza, di pietas verso la propria storia.

Una storia, quella di Agnese, che viene da lontano, da un’infanzia strappata al silenzio cui sarebbe destinata e che andrebbe fatalmente perduta, una volta scomparsi coloro che ne sono stati testimoni.
Dunque racconto di memoria, il solo che possa sottrarsi alla dimensione effimera della nostra vita e che dà forma e significato alla nostra finitezza, fragilità, al nostro breve durare.
Parola-segno, che affrontando il vuoto e il dolore, diviene qui deposito di esperienza, affetti, pensieri, ma anche strumento di denuncia e testimonianza di una ribellione, il cui senso si affida a coloro che restano.
Questo infatti, lo vogliamo ricordare, è un libro-testamento, scritto nella consapevolezza di una grave malattia.
Attraverso la scrittura Agnese costruisce la possibilità di restituire uno sguardo amoroso, di profondo rispetto, a una bambina che ha conosciuto sguardi di disprezzo, di vergogna, e insieme a lei, restituirlo ad altre vite egualmente offese.

Agnese evoca infatti fin dal principio una giovane nera che abbandona il proprio paese, la propria lingua, i propri affetti, guidata da un sogno di riscatto.
La chiama Joëlle e a lei si rivolge, simbolo di tutte le vite che, la società così detta «civile», spesso non considera degne di diritti, ascolto, attenzione.
Dialoga con questa figura-fantasma per darle, attraverso il suo sguardo, ma anche alla bambina che è stata, quel diritto a vivere la propria vita e quella dignità che entrambe non hanno ricevuto.
Non è casuale che il sottotitolo del libro suoni «Alla conquista di una cittadinanza».
Suggerisce la condizione di una vita che vuole divenire soggetto di diritto nella vita sociale e noi, come Agnese, sappiamo quanto, per molte donne, rimanga un desiderio disatteso, quanta fatica e quanto dolore comporti l’affermazione di sé come soggetto e quanto il diritto ad autodeterminarsi non sia affatto scontato, nonostante leggi scritte sulla carta possano sancirlo.
Agnese sente drammaticamente questo legame tra sé e le donne che ancora lottano per la propria dignità e libertà, perché anche la sua infanzia non ha avuto cittadinanza.



Joëlle,
Joëlle,
il mondo
si riflette
in ogni storia
oggi la tua
ieri la mia
che voglio narrarti.

Un’infanzia poverissima, quella che Agnese si appresta a narrare e che conosce la fame, il freddo, la solitudine, la durezza spietata di coloro che sono più «prossimi»: gli abitanti di un villaggio di montagna, i paesani, i loro gesti tra pietà e riprovazione per la condizione di una famiglia rimasta senza un «capofamiglia» a provvedere ai suoi bisogni.
La bambina proverà un sentimento di rabbia e poi, alla sua morte, di sollievo, per quel «capofamiglia»: un padre violento che ha umiliato la compagna e i suoi piccoli, soprattutto le femmine, destinate, fin dal principio, all’ignoranza e a servire gli uomini.
Un destino che fin dall’inizio la bambina sente gravare sulle sue spalle e che, con la morte del padre, sa istintivamente di poter ora sfidare.
Senza un padre-padrone, le possibilità si ampliano, ci saranno certo crudeli guerre tra fratelli e sorelle per accaparrarsi il pane, dominate dalla legge del più forte, ma anche complicità per procurarselo e avventure di furti tra gli orti: uno dei pochi ricordi dall’aspetto ludico, luminoso, attraversato da una specie di morale ingenua, innocente, per cui si prende un poco da tutti, un furto non condannabile perché mosso dal bisogno.
Le raccolte dagli orti dei contadini avranno sempre il sapore dell’avventura e il solo segno di solidarietà tra fratelli, il solo segno di scambio d’amore con una madre assillata dalla necessità di nutrire le sue creature.

Come per molte bambine cresciute sole, in un’atmosfera di violenza e solitudine, i libri diventano la sola compagnia e la promessa di una vita diversa:

Ama i libri, vuole sapere che cosa c’è al di là delle montagne. Il mondo è là […] Il suo cuore è un vaso colmo del desiderio di sapere.

Sogna un mondo, quello dello studio, del sapere, al quale avrà accesso grazie a una borsa di studio, senza sospettare quanto sia riservato ai ricchi né la sua crudele propensione a escludere chi da quel mondo privilegiato non viene.
La bambina ancora non conosce, di quel mondo, i metri di giudizio e le regole di comportamento, né quanto insegnanti e allieve la faranno sentire un’intrusa.
Quando andrà in collegio, piena di gioia per aver conquistato la possibilità agognata di continuare a studiare, saprà improvvisamente un diverso tipo di violenza rispetto a quella della fame e della povertà, dei rapporti tra uomini e donne in una società arcaica come quella contadina, ma non per questo meno feroce.
Ed è forse una delle violenze più crudeli: la violenza che produce, in chi la subisce, un sentimento di vergogna per il proprio essere.
Il suo ingresso nel mondo del sapere sarà accompagnato dallo sguardo di disgusto riservato alla povertà, e le sarà rivolto dalle compagne, spietato come solo lo sguardo dei bambini riesce a essere, e ipocrita, com’è quello dell’età adulta, delle insegnanti.
Quel che poteva divenire spazio di condivisione, la passione per lo studio, sancisce una nuova separazione, una nuova solitudine.
Agnese bambina osserva stupefatta quello «spicchio di mondo», con il dolore e la delusione di chi sente ancora una volta, il marchio della povertà, 

… come fosse una colpa sua o della sua famiglia. Nel suo paese, però, nessuno le aveva mai fatto sentire in modo così evidente il disprezzo per il suo appartenere alla classe dei poveri.

La bambina va dunque incontro a un’educazione che la sradica dalle sue origini senza darle mai un nuovo terreno su cui poter crescere.
L’abbandono della casa di famiglia, del paese, lasceranno un vuoto che non sarà mai colmato da qualche altra forma di appartenenza.

Una comunità chiusa, quella del collegio, dove scoprirà che le fanciulle sono destinate ad apprendere un modello di femminilità egualmente oppressivo e lesivo della soggettività, scoprendone, per così dire, la legge trasversale a tutte le classi sociali.
Anche questo sarà un doppio sradicamento, perché comprenderà che neppure lo studio, il sapere, di per sé, possono dare a una femmina la libertà di essere semplicemente se stessa.

La consapevolezza istintiva di una bambina che ha visto donne oppresse da una gravidanza dietro l’altra riconosce la stessa oppressione nell’istituto del matrimonio, per quanto borghese e conveniente possa essere, cui le ragazze di buona estrazione sociale d’un collegio di città, vengono avviate.
Coscienza che non sembra toccare le bambine e poi giovani donne con le quali dividerà gli anni di scuola,

… tra quelle mura grigie dove ogni azione, dal mangiare al pregare, doveva essere fatto con grazia e discrezione.

Coloro che trasgrediscono quel modello, che costruisce una sessualità a esso adeguata, vengono allontanate, espulse, sia che si orienti verso gli uomini, sia che si orienti verso le donne.
La violenza dello stigma colpisce l’amore tra simili e l’adolescente conosce per la prima volta «il pericolo dell’amore, per quel suo spietato egoismo», nella vicenda lesbica che scoppia nel collegio e da cui è coinvolta come involontaria complice, ma vedrà agire una violenza anche nei confronti di quelle giovani avventate che vorranno uscire furtivamente dal collegio per incontrare gli amici e che saranno sottoposte a un’umiliante visita medica per la certificazione della loro verginità.
Diviene evidente che è proprio la libera espressione del desiderio femminile a essere interdetta.

Lo scontro con quanto la società ha costruito intorno all’essere donna è forse il più doloroso, perché coinvolge il rapporto con la madre, una madre non amata e che non sa esprimere l’amore per la figlia.

Non riuscivo a perdonarle il suo stesso essere vittima, la sua fatalistica rassegnazione alla povertà, la sua passata incapacità di sottrarsi alla volontà di suo marito […] In certi momenti ne avevo persino una repulsione fisica al pensiero che io ero nata da quel corpo e che un tempo lei aveva respirato e mangiato anche per me: quel pensiero a volte mi era intollerabile.

Lo sguardo di una figlia resterà sempre lacerato tra il desiderio dell’amore di una madre e l’intollerabilità del divenire come lei.

Nascere, deprivati di un qualsiasi amore, ti consegnava a un’esistenza improbabile.

In questo deserto, dove la famiglia dei poveri non può dare, come scrive Agnese, sostegno né difesa, la sola speranza, che per un certo tempo è affidata ora alla provvidenza, ora alla casualità degli incontri, è in realtà la concreta solidarietà dell’amicizia.
Soltanto un’amica, un legame che non viene dalla famiglia, né dall’interesse sessuale, le darà la forza e l’aiuto materiale (perché per vivere, studiare, perseguire il proprio sogno, è necessario soddisfare la dura materialità dei bisogni essenziali: una casa, il cibo, il coprirsi) per lottare e conquistare il diritto alla costruzione di un destino diverso.
 
Il libro si chiude, così come si apre, con la figura di Joëlle sullo sfondo, simbolo di dolore, di fatica, di tutte le possibili crudeltà cui può essere sottoposta una donna senza diritti, senza voce in capitolo sulla propria vita, «nera ombra nella notte sul vascello della speranza» ma da quel nero, da quella notte, una volta uscita, Joëlle può rivolgere il suo sguardo a colei che l’ha evocata e a noi che accanto ad Agnese l’abbiamo vista, e avere lo stesso sorriso di Agnese, quello che abbiamo conosciuto, bambina e donna che ha attraversato il nero del mondo, migrante dell’esistenza, un sorriso capace di «illuminare il mondo», anche se nessun Dio potrà rispondere alle tante domande sull’ingiustizia e il dolore che assillano la condizione umana.

 

 

15-06-2009

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