Come l’agrodiesel privatizza la fame

di Vandana Shiva

La globalizzazione e le politiche di liberalizzazione del commercio hanno portato alla privatizzazione dell’acqua e della biodiversità e alla concentrazione della proprietà terriera in India, ribaltando sessant’anni di riforma agraria e introducendo una nuova forma di «zamindari» - un sistema di possesso feudale della terra - a vantaggio delle corporations attraverso strumenti come le «zone a economia speciale».
Storicamente le donne sono state le custodi delle sementi e dell’acqua nelle comunità.

La terra veniva utilizzata individualmente, ma anche la sua proprietà era collettiva. I governanti vantavano diritti su una quota del prodotto della terra, non sulla proprietà della terra.
Il Land Acquisition Act fu approvato nel 1894, durante il governo coloniale britannico. A partire dal 1947, dopo l’indipendenza, questa legge è stata oggetto di varie modifiche. L’ultima di queste, introdotta nel 2007, vieta ai tribunali civili di trattare materie inerenti l’acquisizione di terre per uno «scopo pubblico», e la definizione stessa è stata criticata come superficiale e inadeguata.


Il ruolo delle Corporation

Il governo si è arrogato il diritto di cedere larghi tratti di terra coltivabile fertile alle corporations in base al principio di «eminent domain» (potestà assoluta).
I conflitti che sono conseguiti hanno costretto il governo a modificare il Land Acquisition Act per appropriarsi della terra dei coltivatori rurali. I terreni agricoli forniscono il sostentamento a milioni di coltivatori - senza terra, piccoli e marginali - ma il governo se ne sta impadronendo per trasferirli alla proprietà delle corporations.
I terreni di proprietà collettiva dei villaggi erano stati classificati come «zone abbandonate» dal sistema erariale britannico perché le potenze coloniali non riuscivano a ricavare un reddito da essi. Oggi questi terreni collettivi vengono trasferiti all’industria, nonostante siano la più importante fonte di sostentamento e di risorse per i poveri.
Nel maggio 2007 il governo provinciale dello stato occidentale del Rajasthan ha approvato le «Regole per i redditi della terra nel Rajasthan», che permettono il trasferimento, per venti anni, di mille-cinquemila ettari di terreni collettivi dalla comunità del villaggio all’industria dei biocarburanti, che li utilizzerà per piantagioni (solitamente di jatropha) e impianti di lavorazione.
Le nuove «Regole per i biocarburanti» hanno così prodotto due grossi cambiamenti: primo, la trasformazione illegittima di diritti delle comunità in diritti di proprietà privata senza il consenso della comunità - di fatto, la recinzione dei terreni collettivi - e, secondo, un brusco passaggio dall’equità all’iniquità e dalla sostenibilità alla non-sostenibilità.
Delle terre essenziali per l’economia rurale - utilizzate per produrre carburante, foraggio, medicine e cibo per la comunità - vengono destinate alla coltivazione di materia prima per il carburante delle automobili dei ricchi nelle città.
Oltre a privatizzare le terre della collettività, per le piantagioni di jatropha stanno anche privatizzando l’acqua. La Legge per il biocarburante del Rajasthan rende obbligatorio l’uso dell’irrigazione a spruzzo. In uno stato desertico, destinare alla coltivazione di jatropha le scarse riserve idriche significa sottrarle al bisogno di acqua potabile e all’agricoltura rurale. È anche una ricetta che impoverisce l’acqua del terreno.


I mezzi di sussistenza come asset

Nel caso dell’acqua e della biodiversità le corporations, puntando alla privatizzazione delle risorse collettive, stanno usando le istituzioni internazionali come la Banca mondiale e il Wto per creare nuovi tipi di proprietà privata.
L’espressione sempre più usata per questo tipo di privatizzazione è «riforma degli asset». Ma il sostegno alla vita, i mezzi di sussistenza dei poveri non sono «asset» da comprare, vendere, commerciare. Che le risorse vitali vengano chiamate «asset» è l’inizio della mercificazione e della privatizzazione delle risorse naturali necessarie alla sopravvivenza.

Il ruolo della Banca mondiale

I progetti di riforma del settore idrico della Banca mondiale stanno trasformando il diritto all’acqua. Attraverso i suoi prestiti, la Banca mondiale sta ridefinendo le leggi indiane sull’acqua e riscrivendo le leggi e le politiche sull’acqua. Si tratta di una esternalizzazione della legislazione che mina la costituzione indiana e la democrazia indiana, defraudando le persone del diritto all’acqua e delle leggi sull’acqua che erano state democraticamente stabilite e articolate dal consiglio del villaggio (panchayati raj), dai parlamenti statali e dal parlamento nazionale.
Inoltre, i progetti di privatizzazione dell’acqua urbana hanno un impatto diretto sul diritto all’acqua degli agricoltori rurali.
Cinque persone del distretto di Tonk, nel Rajasthan, sono state uccise dalla polizia mentre protestavano contro la deviazione del fiume Banas a Ajmer e Jaipur, nell’ambito di un progetto di privatizzazione. Erano state private dell’acqua per irrigare i campi, e i loro pozzi si erano prosciugati per il blocco del corso del fiume. Anche il contratto concesso a Suez-Degremont per costruire l’impianto di Sonia Vihar, che prevede la deviazione dell’acqua del Gange a Delhi, ha privato gli agricoltori dell’acqua per irrigare.

Conseguenze spaventose

Il risultato è chiaro: quando le risorse naturali che dovrebbero restare collettive vengono privatizzate, le persone comuni vengono private delle loro fonti di sostentamento, dei loro mezzi di sussistenza, e della loro ricchezza collettiva. Le conseguenze sono spaventose.
Il futuro dell’agricoltura rurale e delle donne coltivatrici riposa sull’attenzione condivisa nei confronti delle risorse vitali della terra - il suolo, la biodiversità dell’acqua - che rendono possibile l’attività agricola.

E le donne, che in un paese come l’India sono la maggioranza dei coltivatori, hanno la competenza per gestire questo fondamentale capitale naturale basato sull’equità sociale e sulla sostenibilità ecologica.

 

Copyright Ips/il manifesto
(Traduzione Marina Impallomeni)


da il manifesto del 21 OTTOBRE 2009

 


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