FRANCO  RELLA 
      Il  filosofo che ha restituito all’ Io maschile un corpo 
      Lea Melandri  
        
        
        
      Ci  sono molte ragioni per rallegrarsi della ristampa del libro del filosofo Franco  Rella, Ai confini del corpo (Garzanti  2012). Alcune è l’autore stesso a indicarle: una politica che ha volutamente  invaso lo spazio che sta sul limite dell’inizio-vita e quello ancora più  sottile che lo separa dalla morte; la presenza sempre meno eludibile intorno a  noi di “soggetti, persone, corpi con il loro carico di dolore”; l’evidenza che  “non esiste una questione del corpo disgiunta dalla questione del potere”. 
        Per  chi ha seguito con continuità il suo percorso singolare, si tratta  semplicemente di riconoscere a Rella il merito di avere aperto al pensiero  nuove strade possibili, portando il soggetto a conoscersi e ad avvicinarsi un  po’ di più alla verità del proprio essere. Se siamo capaci di guardare dentro  noi stessi e il mondo, non è difficile accorgersi che la noia  -come scrive Proust- “è un panno caldo e  grigio rivestito all’interno di una seta dai colori più smargianti”, che nel  rovescio abitualmente invisibile di un ordine dato si possono fare scoperte  illimitate. Da una ricerca che vuole restare dentro l’ambito della filosofia, a  riparazione della “censura” che essa ha operato storicamente sull’esperienza  corporea, nasce tuttavia anche un’idea diversa della politica  -la persona al posto del cittadino- e la  costruzione di un’antropologia capace di ripensare e modificare il rapporto di  potere tra i sessi. 
        Se  si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo  ereditato una visione del mondo dualistica: il corpo visto come oggetto da parte di un soggetto conoscente, una relazione  ostile che si è trasformata in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per  questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di  ciò che la storia ha diviso. Dal momento che le condizioni materiali del vivere  sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna  che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del  nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza. Scostandosi  dall’ “atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il  principio paterno  -come principio  spirituale che trascende le leggi della natura-, Rella porta allo scoperto una  contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza  interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato,  senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”.  Da questa domanda , che rivoluziona la visione  del mondo mettendo il soggetto maschile nella posizione associata  tradizionalmente alla donna, alla passività, alla vergogna dell’ “essere  guardato”,  prende avvio un saggio  “audace e innovativo”, sia nell’esplorazione dei territori “impresentabili”  dell’esperienza umana, sia nella ricerca di forme di “scrittura critica”, dove  si danno insieme inseparabili pensiero ed emozioni. 
   Le linee guida di un viaggio che si lascia  aperte volutamente strade, sorprese, ripensamenti, sono dunque essenzialmente  due: forzare i confini del corpo, varcare sempre nuove soglie per addentrarsi  nel suo mistero e dare parola alle passioni che lo abitano, gioie e patimenti,  e al medesimo tempo interrogarsi su come “scrivere il corpo” evitando che si  riduca alle parole che ne parlano. L’esito è una scrittura che si interroga  costantemente su se stessa, che vuole mantenersi fedele a un Io incorporato,  diventare corpo pensante, amalgama di ragione e sentimenti, una scrittura che,  se da un lato insegue l’opportunità di una “trama”, si lascia poi felicemente  attrarre dalla “logica del frammento”. A prevalere sulla forma tradizionale del  saggio è il “movimento erratico del pensiero” che  come una “deriva morenica” si ingrossa via via che avanza,  incorporando materiali eterogenei: letteratura, arte, filosofia, schegge narrative,  frammenti di esperienza propria, eventi tecno-politici. La parola che tenta di  avvicinarsi al “cuore di tenebra” della civiltà e di ogni individuo non può che  essere una “parola vacillante”, un filo teso che in ogni istante può spezzarsi.  E’ questa consapevolezza che, impedendo al singolare percorso di pensiero e di  scrittura di Rella di fermarsi all’incontro di letteratura, arte e filosofia, gli  permette di entrare in un terreno fatto di “ossessive iterazioni, note,  aforismi, soprassalti della coscienza”. 
  “Cosa  posso dire io di fronte a questi appunti, che si rifiutano a ogni forma, che  sfuggono da tutte le parti, che si muovono come vogliono, senza che io possa né  dirigerli , e nemmeno raccoglierli in una qualsiasi trama?” 
        Contro  l’acclimatamento all’orribile che occupa la scena del mondo, ma anche il mal  vivere di ogni vita singola, la salvezza sembra venire dalla “fede” in una  “parola” che ha la capacità di ascolto e la  “compassione”  necessaria per assumersi  la responsabilità di rappresentare l’ “irrappresentabile”. Il capovolgimento  del cogito ergo sum  -“E’ attorno al corpo che si avvita il  pensiero come un rampicante intorno all’albero che lo sostiene”-, del guardare  in essere guardato, non poteva che riflettersi anche sulla scrittura che si fa  a sua volta “cavità aperta”, accogliente, assumendo su di sé modi di essere che  sono stati da sempre attribuiti al femminile. 
  “Questo  libro cresce incorporando parole, immagini, esperienze, ricordi. Sembra che  tutto questo sia attratto da una cavità aperta nel corpo della scrittura che,  procedendo, essa non riempie e nemmeno delimita. Scena cava, dunque, su cui si  stagliano immagini che ho colto, che ho vissuto, che ho mescolato le une alle  altre fino al punto che io stesso fatico a distinguerle.” 
        Ora,  tornando al tema centrale del libro, il corpo e il suo “inesorabile essere lì”,  con le sue passioni, l’eros e la sofferenza, Rella sa bene che i nessi tra la  condizione materiale del vivere e il pensiero ci sono sempre stati e che la  difficoltà a farli emergere sta nell’atto fondativo stesso della coscienza, nel  suo essersi posta al di sopra e al di fuori dei vincoli biologici. L’idea  stessa che il corpo abbia dei “confini”, sia pure sfrangiati e pieni di  aperture come tutti gli steccati di difesa, nasce dalla logica contrappositiva  e ostile che ne ha fatto una “terra straniera”, una “fanghiglia barbarica”. 
        A  inchiodare l’Io al corpo sono quelle esperienze che lo lasciano allo scoperto  - la sessualità, la malattia, l’invecchiamento  e la fine della vita-, tanto da far pensare che “la filosofia, l’arte, gli  affari” non siano altro che “un immenso ostracismo contro l’alito della morte,  una stasi di fronte al suo mistero, al suo smarrimento, alla sua feroce  presenza”. “C’è ancora spazio –si chiede Rella- nella rete sempre più fitta dei  poteri diffusi che regolano e ordinano il piano della realtà, per la possibile  verità del singolo, messo di fronte a se stesso, al proprio corpo, alle proprie  passioni, alla sua vita e alla sua morte?” 
        Un  Io maschile che ritrova il suo essere corpo  non poteva non attraversare i luoghi che sono stati considerati “destino” della  donna, e il ripensamento che ne ha fatto il femminismo, come riscoperta della  politicità della vita personale, dei segni che la cultura dominante ha impresso  durevolmente sui corpi e le identità di un sesso e dell’altro. In una critica  al dualismo che sa “chiamare le cose col loro nome”, che non esita ad addentrarsi  in “analisi spinte, sintesi impudiche, palpeggiamenti lascivi di temi  scabrosi”, la figura femminile assume inevitabilmente una rappresentazione  duplice: è il “pube fiorito” di Nanà, che fa irruzione nell’arte e nella  letteratura inaugurandola modernità (Manet, Zola), è il corpo morto, pietrificato  di Albertine (Proust), il corpo erotico attraverso cui l’uomo, con la carezza e  il graffio, l’amore e la violenza, cerca un sé corporeo irraggiungibile. E’solo  a metà del libro che all’immagine femminile più nota subentra quella di  Claudia, la donna che ha uno sguardo proprio, una sua autonomia, a cui Rella  riconosce di non poter dare espressione e racconto.  Innanzi tutto perché l’uomo sa poco di come una donna percepisce  il suo corpo, e poi perché restituire a Claudia il suo sguardo vorrebbe dire  far cadere tutta l’impalcatura fantastica, emozionale, narrativa, su cui si  regge il libro, la cultura a cui appartiene. Se non si può cambiare  radicalmente strada nella rappresentazione della donna, si può “fermarsi un  poco a riflettere sulla sorte di Claudia e   sul destino dei sessi, approdare ad alcuni esiti sorprendenti”. 
        Liberando  la donna dai suoi lacci, l’esperienza del corpo si fa anche per l’uomo più  vicina, più “propria”, meno misteriosa. Vuol dire incontrare la singolarità e  l’interezza di ogni essere.  
    Nel  caso di Rella,  del cambiamento che  riguarda il soggetto maschile, il suo lasciarsi guardare, la sua disponibilità  a “sapersi” e a “raccontarsi”, è il corpo  della scrittura a dare conto, ma a parlare a tutti e tutte è la felicità  dei percorsi nuovi e inaspettati che si aprono al pensiero e alla pratica  politica, alla creatività del singolo, così come ai cambiamenti in atto in una  società oggi terremotata nei suoi fondamenti arcaici. Per tornare alla suggestiva  immagine di Proust, “gli arabeschi” che stanno sul rovescio del “panno grigio”  delle abitudini forse non sono più di casa solo nel sogno ma in ciò che il  desiderio dissidente comincia a pensare reale e possibile. 
    16-11-2012  |