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LEGGE 40: A Miriam e alle altre

A Miriam. A lei, al suo nome e alla sua storia  che abbiamo richiamato nell’aula di udienza della Corte Costituzionale il 31 marzo scorso. A lei che è rimasta in Italia a richiedere ed ottenere il riconoscimento di diritti fondamentali con l’unica modalità oggi  possibile: la via legale e giudiziaria. Ma anche a tutte quelle donne che sono divenute migranti a causa delle irrazionalità  e iniquità della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita.
Ma in fondo più che una vittoria giudiziaria dedicata a Miriam dal collegio legale nazionale composto da chi scrive e dai colleghi Massimo Clara, Maria Paola Costantini, Marilisa D’Amico e Sebastiano Papandrea,  è stata lei ad adoperarsi affinchè tutte le altre donne non abbiano più a subire norme irragionevoli, discriminatorie e lesive del diritto alla salute.

Irragionevoli poiché rispetto al fine dichiarato di “favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità o infertilità” le modalità prescritte, a partire dal divieto di creare “un numero di embrioni superiori a tre” ritenuto dal legislatore quale “numero strettamente necessario” al fine di “un unico e contemporaneo impianto” altro non erano che modalità rigide e inidonee a risolvere tutti quei casi che invece richiedono, secondo le migliori pratiche mediche, la creazione di un numero di embrioni superiori a tre e la crioconservazione degli embrioni soprannumerari in vista di un successivo trasferimento ove il primo non abbia a dare l'esito sperato.
Discriminatorie perché portava ad un eguale trattamento di situazioni che eguali tra loro non sono e poiché accentuava le differenze di censo discriminando tra chi era privo di possibilità economiche e chi avendone poteva emigrare.
Lesive del diritto alla salute poiché a causa del vincolo dei tre embrioni rendeva di fatto necessaria la ripetizione del ciclo di stimolazione ovarica ai fini della produzione di ulteriori embrioni generando così il rischio di insorgenza di patologie gravi e permanenti.              

Irragionevoli, discriminatorie e lesive per subordinare e sacrificare all’embrione la dignità, la autodeterminazione e l’integrità fisica e psichica delle donne quando già nel nostro ordinamento, in un corretto bilanciamento di tutti i diritti e interessi coinvolti, la stessa Corte Costituzionale aveva a suo tempo ribadito che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona … e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. 

Oggi la pronuncia della Corte riconosce la illegittimità costituzionale delle norme sopra citate e conferma che le leggi sono subordinate ai diritti ed è motivo di orgoglio ricordare che  accanto e insieme a Miriam l’UDI  c’era e c’è.          

 

Ileana Alesso 
UDI-Unione Donne in Italia  e Comitato nazionale quando decidiamo noi

 

COMUNICATO Roma 2 aprile 2009

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