Almanya

La mia famiglia va in Germania

Mariuccia Ciotta

 

 

 

Lontano dal dramma dell'emigrazione e dalla temibile commedia etnica, Almanya - La mia famiglia va in Germania, è una sophisticated comedy di una regista trentenne, Yasemin Samdereli, tedesca di origine turca, fan di Lubitsch e di Guney dai quali distilla humour dissacrante e memoria storica per il suo film d'esordio.

Successo all'ultima Berlinale, Almanya ha registrato in Germania un record d'incassi (15 milioni con 2 milioni di spettatori) e ora si offre al pubblico italiano (distribuzione Teodora) come perfetto film di Natale, non fosse altro che per quell'alberello luccicante e sbilenco che la mamma venuta dall'Anatolia allestisce per i suoi bambini, desiderosa di un'integrazione dolce nella nuova patria. E se dimentica di incartare i doni con la carta d'argento, poco importa, l'avventura comincia nel flash-back che ci riporta negli anni Sessanta quando il capostipite Huseyn Yilmaz, condusse la famiglia in occidente. Tre generazioni sono passate e adesso Huseyin vuole tornare a casa con figli e nipoti, tra i quali un bimbetto, Cenk, diffidente, e non è l'unico, di fronte al viaggio a ritroso.

La «favola» dell'arrivo in Germania si dipana in quadretti comici e oltraggiosi che mettono in corto circuito usi e costumi diversi in un gioco di reciproche gag, sottilmente amorose e mai grottesche. Almanya, sceneggiato dalle sorelle Yasemin e Nesrin, ha un sapore transculturale non dolcificato, e si diverte a punzecchiare turchi e tedeschi, uniti nell'ondata di immigrazione favorita dalla Germania quando si esaurì il filone dei lavoratori italiani.

«Un topo al guinzaglio», grida il ragazzino «extracomunitario», alla vista di un bassotto trotterellante nel nuovo mondo, e non sarà che una prima sorpresa. Il suo luogo di origine manca sulla carta geografica scolastica che si ferma a Istanbul e toccherà disegnarla sul muro, per non parlare dell'indegna variante del gabinetto turco, così poco igienico da costringerlo a fare pipì nel giardino dove un enorme omone dalla bocca traboccante di wurstel lo riempirà di insulti.

L'ometto di sette anni, rievocato dal racconto dei nonni, vive nel sogno di una overdose di CocaCola, fiumi di bevanda che sgorga dal milioni di bottigliette, e nell'incubo di un enorme crocifisso appeso nella sua stanza. Il Cristo di legno si anima all'improvviso, grondante sangue, e si avventa alla gola del sognatore per poi trasformarsi in un ratto gigante dagli occhi rossi. Ma basterà la vista del bambinello nella culla del presepe per conciliare nuovi sentimenti e sprigionare l'incanto per il «primo Natale».

Più di quarant'anni dopo, saranno altri i disagi per chi è nato su suolo tedesco e non digerisce le spezie orientali, ha una moglie biondissima e recalcitra all'idea del ritorno alle origini. Drammi dell'adolescenza, crisi d'identità e scoperte lungo una vita in bilico tra est e ovest. Angela Merkel premierà Huseyin come milionesimo lavoratore turco immigrato in una cerimonia-evento che nel 2008 servirà a ringraziare i Gastarbeiters, i lavoratori venuti da lontano per il contributo dato alla ricchezza del paese.

Ma Huseyin sa bene quale è stato il prezzo e spinge la famiglia verso una mitica casa lontana, che si rivelerà poi solo una parete di argilla che dà sul nulla. Metafora di un'assenza e scenografia struggente dello «straniero» respinto da due patrie. Huseyin non potrà morire in pace neppure nel suo villaggio perché ha un passaporto tedesco, e dovrà dall'aldilà riconoscere il diritto (ancora negato a molti) di vivere lì dove si è nati e cresciuti. Almanya interrompe la sequenza del turco arcaico e repressivo, dei luoghi comuni sulla comunità chiusa, e nel racconto autobiografico della giovane Samdereli ci regala la «carta verde» per entrare noi Europa in Turchia.

 

da 'Il Manifesto', 9 dicembre 2011