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Del resto preminente è il ruolo che la madre ha nella teoria kleiniana, ruolo invece perlomeno modesto nella teoria di Freud, cosa che ne costituisce l'essenza sia rivoluzionaria che problematica. Il rischio che Klein stessa sottolinea - forte eco del rapporto con la propria madre Libussa - è il blocco della capacità di simbolizzazione nel caso in cui l'attaccamento alla madre arcaica vinca sulla necessità di separarsene affrontando la perdita del primo oggetto d'amore. E' la perdita, sottolinea Kristeva, che spinge a simbolizzare la cosa perduta. Tutto, pensiero e lavoro clinico, per Klein si basano - a differenza dal senso comune dell'epoca secondo cui tra madre e neonato vi sarebbe un idillio che in seguito va perduto - sull'ambivalenza che caratterizza l'assoluta dipendenza del piccolo dalla madre fonte di ogni soddisfazione e ogni frustrazione. L'ambivalenza caratterizza dalla nascita il rapporto che l'essere umano instaura con l'ambiente rimanendo sempre in bilico tra riconoscimento dell'altro e rifiuto dell'alterità, la stessa ambivalenza che ha caratterizzato il rapporto di Melanie con uomini e donne, allievi e allieve, figli e figlie nel corso dell'intera vita. A partire dai rapporti più intimi, e poi nella sua lunga pratica clinica con i bambini, primi fra tutti i propri figli guardati ancora in fasce con occhio «clinico», Klein osserva che ab initio il neonato è animato da violente passioni verso l'oggetto-madre: invece che chiuso nella bolla narcisistica (lo stato anoggettuale di Freud) il neonato avverte la «presenza» dell'altro/madre e con quella inter-agisce. In termini attuali la psiche del neonato kleiniano nasce da subito dentro la relazione. L'atteggiamento di Klein verso la maternità non è né sereno né gioioso, tuttavia è proprio mediante il transfert materno che la psicoanalista cerca di raggiungere la profondità dell'inconscio. Angoscia legata alla paura di annientamento, e furioso attaccamento accompagnati da invidia, sono la ineludibile condizione del neonato impotente in presenza/al cospetto della madre onnipotente quanto incontrollabile. La percezione precocissima dell'oggetto materno, mette da subito al lavoro una specie di «respirazione psichica» (Guignard) fatta dell'alternanza tra oggetti e situazioni interni e oggetti e situazioni esterni, tra soddisfazione e frustrazione, tra proiezione e introiezione. E Klein precisa «non è l'organismo, ma l'Io, anche se immaturo» che cerca di far fronte alla paura. Quello umano è dunque uno psichismo che si radica e organizza attorno all'esperienza percettiva dell'altro in senso attivo e passivo. Da qui nasce anche la necessità per l'Io
di compiere incessantemente un «lavoro del negativo», espressione dello
sforzo di sfuggire all'angoscia primordiale che si attiva nell'esperienza
di presenza-assenza dell'altro-madre, avvertita dapprima come presenza non
distinta da sé, condizione che genera l'incessante attività, che
caratterizza il farsi della vita psichica anche se con toni meno
drammatici, del «mettere dentro/buono o sputare fuori/cattivo» . Segretamente ogni donna non perdona alla
propria madre la frustrazione che questa le infligge godendo invece che di
lei (del suo corpo) del coito con il padre, e che lo nasconde a se stessa
e all'altra/altre donne. «Nel marito cercate la madre!» esclama Kristeva
sottintendendo che un uomo non perde mai del tutto la madre poiché la
ritrova in un'altra donna. Freud intuì la specificità del rapporto
madre/figlia nel caso Dora ma troppo tardi. Lo testimoniano d'altra parte
l'originalità di Winnicott e Bion, suoi allievi, e l'ispirazione che lo
stesso Lacan trasse dalla sua teoria della «relazione d'oggetto». Kristeva sembra tagliare la testa al toro
quando afferma che «la condizione sine qua non per accedere al simbolo» è
sbarazzarsi della madre. Anzi ogni atto veramente creativo testimonia una
fantasia riuscita di matricidio, anche se si tratta di «matricidio
immaginario», via che secondo Klein e Kristeva bisogna percorrere per
giungere alla capacità di simbolizzazione. Kristeva sottolinea con forza la necessità del «matricidio» sulla scia di uno degli ultimi scritti di Klein (Alcune riflessioni sull'Orestiade, 1960) stabilendo un'antecedenza di ordine mitologico che pone Oreste prima di Edipo. Un paradosso da esplorare che individua nell'uccisione della madre il presupposto per poi accoppiarsi incestuosamente con lei. Un cerchio mortale da cui non si esce, la teoria non ne esce cioè. Ma se di vita e di morte si deve parlare - e sembra inevitabile quando si tratta delle vicissitudini umane - bisogna riferirsi alla caratteristica specifica dell'essere che è dotato di linguaggio che non solo ha paura della morte ma anche della vita: paura per l'incombere della vita, paura di perdere la vita. Una paura che Klein chiama angoscia e che la cura analitica dovrebbe poter trasformare in dolore: dal panico alla possibilità di pensare. Il pensiero della differenza compie un
salto di cui la psicoanalisi dovrebbe fare tesoro: passa attraverso una
fase - immaginaria perché riferita alle donne che si incontrano nella vita
reale - che crede di vedere nell'altra donna una «rivale» così potente da
doverla uccidere per non essere uccise, ma scommette sulla capacità di
«restare al cospetto della madre» senza temere la sua terribile
rappresaglia se l'amore, l'investimento, viene spostato su un'altra: su
altro. La rivalità tra donne tanto temuta è di marca materna poiché
intreccia sempre bisogno e desiderio ed è proprio quest'ultimo che si è
cominciato a distaccare dal bisogno di dipendere. Cosa evoca il matricidio?
L'imprigionamento nell'angoscia di annullamento. Ma non è forse nel nome
della libertà «immaginare» di separarsi - quanto dolorosamente! - da una
madre ancora viva? Julia Kristeva,
Melanie Klein. La madre, la follia,
questo articolo è apparso su il manifesto del 29 ottobre 2006 |