Robin Morgan

scrittrice statunitense
in Italia è uscito il suo saggio Il demone amante. La sessualità del terrorismo, La Tartaruga edizioni,
ha inviato da New York due lettere

New York, 12 settembre 2001

Care amiche/i e sorelle,

…dall’angolo della mia strada – da dove, guardando in giù verso la Settima Avenue, vedevo in pieno le due torri – ieri mattina ho visto incendiarsi la prima torre e mentre stavo guardando ho visto il secondo aereo centrare la seconda; poi, mentre ero ancora lì in piedi, ho visto crollare la prima sotto ai miei occhi. Era una cosa del tutto irreale, come se Hollywood avesse realizzato un nuovo spettacolare trionfo di effetti speciali.

… Questa mattina di buon’ora, quando sono uscita, guardando in giù verso la Settima Avenue non c’era più nulla, solo enormi volute di fumo – non esisteva più nulla delle due torri….

La città mostra di saper resistere superbamente, i cittadini di New York sono all’altezza dei londinesi sotto le bombe….tuttavia il suono delle sirene delle ambulanze e il rumore degli aerei che sorvolano la zona mi ricordano Beyrut nei momenti peggiori di quella guerra….

Una delle mie preoccupazioni più gravi adesso è per le reazioni verso la comunità islamica, perché pochi anni fa, nelle 48 ore successive alle bombe di Oklahoma City (prima che si scoprisse che l’autore era un maschio bianco di destra e cristiano) tre cittadini arabi-americani sono stati linciati nel Midwest.

Già adesso alcune moschee hanno subito delle minacce e alcune liste di discussione in Internet grondano odio contro gli arabi. Noi (femministe, progressisti, ecc.,) stiamo cercando di fare tutto il possibile per evitare il montare di questi fantasmi – ed è già pronta una rete di case sicure per ospitare eventuali cittadini arabi o musulmani che potrebbero subire minacce in questa situazione. Mi ha colpito sapere che le comunità neo-pagane e Wicca stanno facendo la stessa cosa, in nome della libertà di religione contro ogni forma di persecuzione….

Dobbiamo esser calmi e vigili, dal momento che una sterzata verso l’estrema destra è realmente possibile. La stampa continua a funzionare, i giornali vengono distribuiti regolarmente….

I media ci hanno dato un’informazione non-stop, sforzandosi di non diffondere voci incontrollate (la lezione sulle elezioni dello scorso anno è servita dunque a qualcosa)…

Confido che ciascuna di voi farà tutto quello che è possibile nei diversi paesi, città e situazioni per aiutare la gente a chiedersi perché succedono queste tragedie e a capire che non sono solo dei "pazzi" o dei "mostri" o dei "maniaci sub-umani" quelli che compiono simili drammatici atti di violenza, ma che tali atti avvengono nella quotidiana cornice di violenza patriarcale, a tal punto endemica da risultare invisibile in condizioni di "normalità".

E che azioni come queste sono generate da un insieme complesso di circostanze, quali la disperazione per non riuscire a farsi ascoltare in altre maniere, disperazione che deriva da una condizione di sofferenza che dura da troppo tempo, persino da generazioni, la paralisi della capacità di provare simpatia per gli "altri", l’indurimento della sensibilità, la proterva ingiustizia economica e politica, odi e paure etniche o tribali, il fondamentalismo religioso e soprattutto l’erotizzazione e l’innalzamento della violenza a paradigma della "mascolinità" e "soluzione" finale di ogni conflitto.

La violenza è una forma di pazzia, ma è una pazzia che i capi di molte nazioni condividono con i loro oppositori…


New York, 18 Settembre 2001

Cari amici,

la vostra risposta all’e-mail mandata il secondo giorno di questa calamità è stata incredibile. Assieme ad amici e colleghi, mi hanno risposto stranieri da tutto il mondo: dalla Serbia, Corea, Figi, Zambia, da tutto il Nord America; e associazioni di donne da Senegal, Giappone, Cile, Hong Kong, Arabia Saudita, persino dall’Iran. Avete offerto un commovente supporto emotivo e chiesto continui aggiornamenti. Non posso mandare regolari resoconti come ho fatto durante le elezioni lo scorso Novembre ma questo è un altro tentativo. Diffondete questa lettera come desiderate.

Mi focalizzerò su New York, per esperienza diretta, non per sminuire le vittime delle calamità di Washington o della Pennsylvania. Oggi era il diciottesimo giorno. Incredibilmente, è passata una settimana. Si è instaurata un'anormale quotidianità. Il nostro sindaco alle prese con i soliti contenziosi (principalmente brutte notizie per i newyorchesi di colore e per gli artisti) ha affrontato questo momento con efficienza, compassione e vero senso del comando. La città è viva e dinamica. Lungo la quattordicesima strada c’è di nuovo traffico, la posta è smistata e sono tornati i giornali. Ma questa mattina molto presto ho camminato verso est e poi verso sud, quasi fino alla punta dell’isola di Manhattan. I sedici acri dell’incidente sono chiusi, e il perimetro è controllato dalla Guardia Nazionale, posto di coordinamento per i soccorritori. È possibile avvicinarsi di più al Livello Zero di quanto fosse possibile lo scorso fine settimana, da quando parte dei distretti finanziari sono aperti e lavorano a fatica. La visione diretta dà più punti di vista, e odori, che la TV e i giornali. Ho pianto ancora, perfino scrivendo questo resoconto.

Se a prima vista lo scorso martedì sembrava un bizzarro effetto speciale di George Lucas adesso l’occhio del regista è cambiato: sembra il macabro obiettivo di Agnes Varda affiancato da immagini così surreali che potrebbero essere state filmate da Bunuel o Kurosawa.

Era un giorno chiaro senza nuvole di autunno. Ma non appena ci si avvicina l’area si mostra come densa di fumo: si entra in un’atmosfera di polvere e nubi di fumo provenienti dai fuochi che ardono ancora in profondità sotto i milioni di metri cubi di macerie. Verso la parte bassa della Seconda Avenue sono parcheggiati dieci camion frigoriferi che aspettano con sacche per cadaveri. Densa cenere bianca, frammenti di vetri rotti coprono strada dopo strada di quartieri fuori dal perimetro. Impronte di mani sui finestrini delle macchine e sulle portiere con una scia verso il basso sono state lasciate come dei frenetici graffiti. Alcune volte ci sono dei messaggi scritti con le dita sulla cenere: "U R è sopravvissuto". Si possono vedere gli interni dei negozi chiusi molti dei quali hanno le vetrine rotte o distrutte, e così si entra in un'altra incredibile dimensione: un orologio da muro fermo sulle 9.10, tavoli di ristoranti apparecchiati meticolosamente ma ricoperti da due dita di cenere, scaffali delle drogherie pieni zeppi di lattine e alti recipienti pieni di mele e meloni adesso tutti impolverati di calce bianca. Le persone camminano barcollando lungo queste vie indossando maschere per filtrare l’aria piena di cenere e maleodorante a causa della plastica ancora in fiamme, e eruzioni di acqua di fognatura; la puzza della morte e dei corpi in decomposizione…

I numeri stordiscono la mente. Sono dettagli fragili, individuali, che mescolano paralisi e dolore. Una cavigliera con su stampato "Joyleen", trovata su una caviglia. Solo questo: una caviglia. Un paio di mani, una nera, una bianca, strette insieme. Solo questo. Niente polsi. Un ben piantato saldatore venuto dall’Ohio che balbettava "stiamo lavorando in un cimitero. Sono tra i cadaveri, non sopra". Ogni lampione, insegna, impalcatura, casella della posta, è tappezzata di poster fotocopiati fatti in casa, un arcobaleno razziale e etnico di volti e nomi: la morte, grande livellatrice, non solo le immagini di solito formali di bianchi, maschi, adulti, con giacca e cravatta, del mondo della finanza, ma i funzionari postali, i segretari, i camerieri. Passi più volte e i poster dei mancanti all’appello, le facce, i nomi, le descrizioni divengono familiari. Il ragazzo pulisci-vetri albanese con le sopracciglia folte. Il ragazzino lava-piatti messicano che aveva un tatuaggio della bandiera americana. L’assistente del custode che era immigrato dall’Etiopia. Il nonno italoamericano che possedeva un carretto di ciambelle. Il giovane pasticcere ventitreenne cinoamericano del ristorante Windows on the World che era andato lì prima quel giorno per poter preparare un pranzo di lavoro per 500 persone. Il pompiere che aveva posato baldanzosamente indossando la sua cravatta con il trifoglio verde. Il manager di medio livello afroamericano azzimato con un piccolo anello d’oro all’orecchio che portava affari meno importanti a una delle compagnie. La segretaria di mezza età che ride alla macchina fotografica dalla sedia a rotelle. L’operaio della manutenzione con un nome polacco, con il suo bambino appena nato.La maggior parte delle facce sorridono; la maggior parte degli scatti sono foto famigliari; molti sono foto recenti di matrimonio…

Il mio patriottismo è piccolo, ma ho una grande passione per New York, in parte per la nostra sabbiosa secolare energia di resistenza, e perché tutto il mondo viene qua: 80 paesi avevano gli uffici nelle Tween Towers; 62 paesi hanno perso cittadini nella catastrofe; sono stimati a 300 i nostri cugini inglesi morti, sia negli aerei sia nei palazzi. Il mio personale conforto lo trovo non nelle cerimonie o nelle preghiere comunitarie ma nel lavoro veramente eroico (una parola di cui solitamente si abusa) di ordinari newyorchesi che diamo per scontato ogni giorno, che hanno superato questo momento con modestia, troppo occupati persino per notare che stavano esprimendo lo splendore dello spirito umano: pompieri, aiuti medici, infermieri, medici d’emergenza, ufficiali di polizia, operatori della sanità, muratori, guidatori d’ambulanze, ingegneri, manovratori delle gru, salvavita, "tunnel rats"…

Nel frattempo, in tutti gli Stati Uniti il desiderio di rappresaglia monta come un ruggito prepotente. Sono salite le vendite delle bandiere. Sono salite le vendite delle pistole. Alcune stazioni radio hanno proibito di trasmettere la canzone di John Lennon "Imagine". Nonostante gli appelli di tutte le autorità (persino di Bush), le moschee vengono attaccate e gli arabi americani nascondono i loro bambini in casa; due omicidi in Arizona sono già stati definiti crimini di odio, le vittime sono un americano libanese e un sikh che è morto semplicemente perché indossava un turbante….

Lo scorso giovedì, i tele-evangelisti dell’ala destra Jerry Falwell e Pat Robertson (i nostri leaders americani talebani cresciuti qui) sono apparsi nel programma televisivo di Robertson "The 700 club", dove Falwell ha dato la colpa per quanto è accaduto a New York "ai pagani, agli abortisti, alle femministe, ai gay e alle lesbiche…all’Unione delle Libertà Civili Americane" e ai gruppi "che hanno cercato di secolarizzare l’America". Robertson ha risposto "Concordo totalmente". E dopo che la Casa Bianca di Bush ha definito queste affermazioni "inappropriate", Falwell si è scusato (ma non ha ritirato i suoi commenti); Robertson non si è nemmeno scusato. (Il programma é trasmesso dal Fox Family Channel, recentemente acquistato dalla Walt Disney Company, nel caso voleste inoltrare una protesta).

Le sirene sono diminuite. Ma hanno cominciato i tamburi. Tamburi funerari. Tamburi di guerra. Uno Stato di Emergenza, con una richiesta di arruolamento di 50000 riserve. Il Dipartimento di Giustizia sta cercando di ottenere maggiore autorità per una sorveglianza più ampia, poteri di detenzione all’estero, intercettazioni telefoniche di persone e strette restrizioni sui resoconti militari.

E sono cominciate le petizioni. Per la giustizia ma non per la vendetta. Per una ragionevole risposta ma contro una sempre crescente richiesta di ritorsione. Per la vigilanza delle libertà civili. Per i diritti di innocenti musulmani americani. Per "bombardare" l’Afghanistan di pacchi con cibo e medicinali, NON di bombe. Ci saranno marce per la pace, veglie, rallies…Un membro della Camera del Rappresentanti, Barbara Lee, (Democratici della California) una donna afro-americana, ha espresso l’unico voto in entrambe le Camere del Congresso contro il conferimento a Bush dei pieni poteri….

Quelli di noi che hanno accesso ai media hanno cercato di far sentire una voce differente. Ma i nostri sono messaggi complessi con soluzioni a lungo termine, e questo è un momento in cui la gente desidera ardentemente semplicità e termini brevi, risposte facili.

Tuttavia è urgente che tutti voi scriviate lettere agli editori dei giornali, che parliate nei talk show e che quelli che hanno accesso ai media come attivisti, funzionari, esperti e qualunque altra cosa, facciano il maggior numero possibile di interviste e apparizioni. Usate internet. Discutete delle cause che stanno alla base del terrorismo, della necessità di diminuire questo clima di violenza patriarcale che ci circonda in questa normalità forzata, della necessita di ascoltare la disperazione della gente per dissuaderli dal commettere atti drammatici e omicidi; della necessità di eliminare orribili ingiustizie economiche e politiche, di rinnegare odi e paure etnico/tribali, di rifiutare fondamentalismi religiosi di ogni tipo. Soprattutto discutete della necessità di smascherare la mistica della violenza, separandola da ciò che concepiamo come eccitamento, erotismo e "virilità"; della necessità di capire che la violenza differisce solo per grado, non per tipo, e prospera secondo uno spettro che va dal bambino picchiato e dalla donna stuprata -che vivono nel terrore- a un’intera popolazione che ora vive nel terrore.

Nel frattempo piangiamo, piangiamo e piangiamo. Non so neanche cosa sono le mie lacrime, perché continuo a vedere fantasmi e a sentire echi.

La simpatia del mondo mi commuove profondamente. Ma sento come degli eco morire nel silenzio: il mondo distoglie la sua attenzioni dalle grida dal Ruanda…

Il Livello Zero è un’enorme massa greve. E penso: Bosnia, Uganda.

Più di 5400 persone sono disperse e presumibilmente morte (senza contare i morti Washington e della Pennsylvania). La tv sottolinea: di civili, mio dio, di civili. E vedo i fantasmi. Hiroshima, Nagasaki, Dresda, il Vietnam.

Vedo le bocche e i nasi coperti dalle maschere per la strada trasformarsi nei volti dei cittadini di Tokio, che indossano simili maschere ogni giorno contro l’inquinamento tossico. Vedo gli occhi impauriti diventare gli occhi terrorizzati di donne obbligate a indossare l’hajib o il chador o il burka contro la loro volontà.

Fisso i cartelloni delle foto dei dispersi e penso alle madri degli scomparsi. Vedo i fantasmi di altri volti. Nelle fotografie dei musei dell’olocausto. Nel giornale ritagliato da Haiti. Nelle cronache dalla Cambogia.

Mi dispiace per le persone eleganti che hanno perso le loro case vicino al luogo del disastro, e vedo con quanta solerzia le agenzie dei servizi sociali stanno cercando di provvedere alle loro necessità immediate e a lungo termine. Ma vedo dei fantasmi: quelli dei perennemente senza tetto che dormono per le strade della città, le cui necessità non sono mai soddisfatte.

Osservo come i newyorkesi si tirano indietro di fronte a voci chiassose, come i genitori vanno nel panico quando i loro figli tornano tardi da scuola. Osservo le mie amiche israeliane femministe come Yvonne, che ha vissuto con questo terrore per decenni e che persino oggi, ostinatamente, presenta una petizione pubblicata chiedendo la pace.

Vedo per la strada le persone che hanno perso il posto di lavoro, che non sanno da dove arriverà il loro prossimo stipendio, che temono rifornimenti di acqua e cibo contaminati, che sono in ansia per i loro figli alle armi, che sono snervati dai posti di controllo, che sono in lutto, che si sentono ferite, umiliate, oltraggiate. Vedo i miei amici come Zahira nei campi profughi di prima accoglienza di Gaza e del West Bank e penso intensamente alle donne palestinesi che hanno vissuto esattamente in quello stato d’animo per quattro generazioni.

Lo scorso weekend, molti cittadini di Manhattan hanno lasciato la città per fare visita ai famigliari, hanno cercato di tornare alla normalità, di fare una pausa. Come sono defluiti dalla città, ho visto farsi avanti i fantasmi di altri viaggiatori: centinaia di migliaia di profughi afgani che scappano in massa dalle loro città natali nelle quali il terrore è l’abitudine, cercando di sfuggire a un paese rinsecchito per la siccità e così devastato dalla guerra che non è rimasto nulla da bombardare, un paese con 50000 orfani disabili e due milioni di vedove il cui unico mezzo di sostentamento è l’elemosina; dove la aspettativa di vita è di 42 anni per gli uomini e 40 per le donne; dove le donne impartiscono in segreto bisbigliando sotto voce le lezioni alle bambine, alle quali è proibito andare a scuola, donne che rischiano la vita per decapitazione insegnando a leggere alle bambine.

I fantasmi allungano le mani. "Ora lo sai", sospirano, indicandomi la spensieratezza, l’arroganza e l’orgoglio in cui è vissuto il mio paese. "Doveva succedere una simile tragedia per farti vedere queste realtà?" e l’eco ripete "Oh, ti prego, finalmente hai capito?"

Questa è una calamità. Questa è un’opportunità. Gli Stati Uniti, che così tanti di voi chiamano America, ora potrebbe scegliere di iniziare a capire il mondo. E a farne parte. Oppure no.

Per ora la mia finestra ancora non espone una bandiera, né porto un nastro rosso bianco e blu. Invece, piango per una città e per il mondo. Invece, mi aggrappo a lealtà diverse, affermando la mia non-bandiera, il mio non-inno, la mia non-preghiera; è la sfida di una donna matta che ha anche in un tempo di ignoranza e carneficina semplici parole come suoi unici strumenti. Virginia Woolf che scrive "Come una donna io non ho un paese. Come una donna io non voglio un paese. Come donna il mio paese è il mondo intero."

Se questo è tradimento, questa è la mia colpa.

In una luttuosa e assurda, tenace speranza

Robin Morgan