Logiche d'amore,
logiche di guerra
di Lea Melandri

Jeanne Hébuterne
Questo
articolo è apparso su
Liberazione del 2 gennaio 2005
Negli ultimi mesi sono usciti Rapporti,
dati statistici, inchieste sulla violenza a donne e bambini, che avrebbero
meritato maggiore attenzione (Eurispes, Amnesty International, Istat
2002). Elemento comune risulta il fatto che in entrambi i casi
l'aggressione viene perlopiù da persone vicine alla vittima: padri,
mariti, amanti, amici. A parte qualche doveroso grido di allarme o di
indignazione morale quando si parla di sfruttamento e di violenza sui
bambini, per il resto non si può non essere colpiti dall'indifferenza con
cui generalmente vengono accolti questi dati, che parlano di una "guerra"
quotidiana, molto vicina a noi, per non dire interna alle nostre case.
La freddezza con cui si elencano atrocità
date per scontate -stupri, omicidi, maltrattamenti fisici e psicologici,
ecc. - risulta tanto più evidente e inspiegabile se confrontata con
l'enfasi e l'eccitazione immaginaria con cui, spesso nella stessa pagina
di giornale, viene raccontato un fatto di cronaca dal contenuto analogo:
per esempio, l'omicidio di una giovane donna, con sospetto di violenza
sessuale. La differenza nasce dal fatto che, in questi casi, la vittima ha
un nome, un volto, una famiglia, un luogo, delle abitudini. Se ne possono
ricostruire i movimenti, spiare i desideri, soprattutto quelli più
inconfessabili, in cui si è tentati di rintracciare la ragione che li ha
portati alla morte.
Ma la diversità maggiore, tra le due
notizie, è che nelle inchieste l'elemento che balza per primo agli occhi è
l'appartenenza di sesso della vittima e dell'aggressore -il fatto cioè che
a uccidere, violentare, sfruttare le donne sono quasi esclusivamente
uomini-, mentre nel racconto di cronaca il sesso dei protagonisti resta in
sottofondo, ragione nascosta dell'eccitazione e del voyeurismo, e
dominante è invece la loro singolarità: quella particolare ragazza, quel
presunto omicida. La dimensione generale del problema lascia cioè il posto
a una casistica rassicurante di "ordinaria" delinquenza o di "ordinaria"
patologia.
Non è difficile constatare tuttavia che, in entrambi i casi, finisce per
scomparire l'interrogativo di fondo: perché gli uomini fanno violenza alle
donne? Perché gli aggressori sono soprattutto figure della loro vita
famigliare e sentimentale (mariti, figli, amanti)? Perché questa violenza
aumenta? Nel primo caso è la genericità del dato quantitativo, numerico, a
scoraggiare l'identificazione, e quindi l'assunzione di responsabilità;
nel secondo, al contrario, è la particolarità del caso, il suo aspetto
ogni volta "unico", "eccezionale".
Come venire allora a capo di una "evidenza" che continua a restare
"invisibile", come far sì che una inspiegabile "guerra tra i sessi", fatta
di amore e odio, vita e morte, tenerezza e violenza, venga portata non
solo alla coscienza, ma alla storia e alla cultura, a cui ha sempre
appartenuto?
Un modo, che può essere rivelatore, è quello degli accostamenti:
cominciare, per esempio, a riflettere su due inchieste apparentemente
estranee l'una all'altra, quella sulla violenza ai minori e quella sulla
violenza alle donne, chiedendosi che cosa hanno in comune.
L'elemento che più immediatamente li avvicina è che si tratta, in tutti e
due i casi, di una violenza che va a colpire i più "deboli", quegli stessi
corpi che l'uomo (il maschio) ha pensato di dover proteggere, a garanzia
della sua stessa sopravvivenza, e coi quali si può dire che è stato "tutt'uno":
cioè il suo corpo-bambino e il corpo della madre. Ma, oltre che deboli,
questi corpi sono anche carichi di quella seduzione sessuale che,
conosciuta in una fase precoce della vita, è destinata a lasciare segni
duraturi nelle fantasie, nei desideri e nelle paure della vita adulta,
tanto più quanto più pesante è la maschera di "virilità" di cui l'uomo è
chiamato a rispondere dalla comunità storica dei suoi simili. La "fuga dal
femminile" è perciò presa di distanza non solo da un sesso diverso, ma
anche da quella parte di sé - il bambino/figlio- che continua in qualche
modo a farne parte, come rischio permanente di debolezza, dipendenza,
effeminatezza, manipolabilità. La "pedofilia", in senso lato, fa parte
della "preistoria" personale di tutti gli umani, così come i sentimenti
contraddittori di attrazione e repulsione rispetto al corpo che ci ha
generati.
Resta da spiegare perché, quello che dovrebbe essere un naturale distacco
dall'infanzia e dalla madre, sia tutt'oggi vissuto come un taglio
violento, un atto di guerra -morte tua/vita mia-, perché il rapporto
intimo con una donna sia al medesimo tempo un legame che strangola e un
legame di cui non si può fare a meno, perché non si riesca a immaginare
l'uscita dal dominio maschile se non come capovolgimento di poteri.
Il 18 dicembre 2004, su "Liberazione", un "giovane studente-lavoratore" ha
scritto una lettera di protesta per la scelta del giornale di pubblicare
articoli "ultrafemministi", e soprattutto per aver fatto una "vergognosa
pagina" con la scritta "maschi assassini". Senza tener conto che con quel
titolo si apriva un dettagliato resoconto sul Rapporto di Amnesty
International sulla crescente violenza alle donne nel mondo, lo scenario
immediatamente si ribalta: le donne non sono vittime, ma protagoniste di
un "sessismo alla rovescia", aspiranti, per effetto di antiche
"frustrazioni sessuali", a uno "strapotere" che si aggiunge ai "privilegi"
che già hanno. L'espressione "maschi assassini" poteva effettivamente
essere presa per un' "incriminazione" generalizzata del sesso maschile, ma
mi chiedo anche perché non ha potuto essere considerata invece un modo
provocatorio per spingere gli uomini a interrogarsi su come si è costruita
storicamente la maschilità, che forme ha preso, che problemi pone il fatto
che una percentuale così alta di persone del proprio sesso uccidono,
sfruttano, violentano, accanendosi proprio sulle persone che più amano e
desiderano. Lo "strapotere" femminile, che il lettore vede avanzare per
effetto di un femminismo distorto dai suoi fini emancipatori, è
sicuramente quello che la specie umana alla sua "origine" -e ogni bambini
alla sua nascita- deve aver visto o attribuito al corpo che lo ha messo al
mondo e in balìa del quale si è trovato a lungo "inerme". Ma non è certo
la "storia" del rapporto tra i sessi, che ancora si configura come il più
duraturo dei domini, perché "incorporato", come ha scritto Pierre Bourdieu
(Il dominio maschile, Feltrinelli 1998), assorbito attraverso
l'educazione, la divisione sessuale del lavoro, le istituzioni della vita
pubblica, frutto di una "violenza simbolica" che impronta i pensieri e i
sentimenti di uomini e donne, così che dominato e dominatore parlano la
stessa lingua.
Il ribaltamento operato dal lettore ne è la prova, e dice anche quanto sia
difficile uscire da una logica di guerra che parla allo stesso modo quando
si tratta di "scontro di civiltà" o di conflitto tra i sessi: l'impianto è
quello della specularità - il Bene e il Male, la vittima e l'aggressore -,
poli che si fronteggiano e si ribaltano, secondo da che parte li si
guarda.
Uscirne vuol dire avere la forza di
risalire alle cause, andare alla radice dei comportamenti, cercando dentro
di sé prima di tutto, e insieme ragionando sulla cultura che, nostro
malgrado e a nostra insaputa, abbiamo ereditato.
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