AMOUR
Sisa Arrighi

Michael Haneke, regista austriaco e internazionale tra i più interessanti della nostra epoca, ha la rara capacità di sorprendere e turbare, di tenere lo spettatore incollato allo schermo e di lasciarlo alla fine della proiezione nella sala buia con il cuore in subbuglio e la testa piena di pensieri che non sa incasellare.
Basti ricordare ‘La pianiste’ (2001) con Isabelle Huppert o il più recente ‘Il nastro bianco’ (Palma d’oro a Cannes 2009), indagine spietata sulla violenza domestica e familiare che trapela dai muri di case apparentemente ordinate e tranquille.
La sua ultima opera, ‘Amour’ (Palma d’oro Cannes 2012), narra invece il dramma della malattia e della vecchiaia e il lavoro di cura necessario nel suo dolente percorso.
Il regista inizia mostrando la fine: le prime immagini sono di morte, rappresentata con compostezza nel suo mistero.
Nel tranquillo ménage di una coppia di anziani insegnanti di musica, acculturati e benestanti, irrompe improvvisa, imprevista e drammatica la malattia, (può accadere ad ognuno di noi) con conseguente ricovero e rientro a casa in condizioni che prevedono per Anne una serie di accorgimenti e cure che George, il compagno di una vita, si appresta ad organizzare.
Lei si fa promettere che non tornerà in ospedale.
Le difficoltà si moltiplicano, la malattia trasforma e degrada la splendida persona che Anne era stata. Il desiderio di morire, di farsi fuori da parte della donna, si fa impellente.
George assiste con dolore, rabbia, fondamentalmente solo all’evolversi del male.
Intorno, rare figure di amici/conoscenti, portinai schivi e gentili, infermiere e badanti sbadate o addirittura crudeli. Saltuarie e inopportune le visite della figlia e del genero.
‘Vogliamo parlarne seriamente?' Domanda la figlia al padre sfuggente.
Semplice e lapidaria la risposta di lui: ‘Non ti sembra serio quello che sto facendo?’
George prosegue con fatica e strazio questo accompagnamento verso la morte.
La coppia sembra volersi isolare: per poter comunicare la complessità del problema ci vorrebbe un vero ascolto. Gli altri, come spesso accade, sono pronti a dire che la situazione è insostenibile.
Vorrebbero una soluzione più razionale (e definitiva) con un normale affido a strutture all’uopo predisposte.
Ma nella situazione descritta esiste anche e ancora l’amore, (che dà il titolo al film), la tenerezza, la relazione che continua nel degrado di pratiche avvilenti, l’impossibilità di abbandonare pur nella disperazione della solitudine.
Tutto questo è narrato da Haneke con rigore, senza sbavature sentimentali.
Bella anche la sua soluzione di non ricorrere ai flash back di un passato che non c’è più, ma di mescolare alle scene di malattia e dolore, altre in cui Anne si aggira per la casa come un tempo, con la sua grazia intatta, lava i piatti, suona il piano, sorride.
Splendidi gli attori: Emmanuelle Riva indimenticata interprete di ‘Hiroshima mon amour’, (Resnais 1959) ci permette di vedere senza pudore volto/corpo/mente stravolti dalla malattia. Jean-LuisTrintignant, che tutte abbiamo amato in film che hanno fatto epoca, è qui un signore ottuagenario interprete magistrale e composto. Isabelle Huppert nella parte della figlia, più convincente che nel recente ‘Bella addormentata’ di Bellocchio.
Il film non ha un andamento pietistico o sentimentale. Mostra, e ci tocca tutti nel profondo, quale è la tragedia di una condizione e di un percorso per i quali non esiste delega.
8-11-2012
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