Anaïs Ginori, Pensare l'impossibile

Prefazione di Concita De Gregorio

 

Quando avevo vent’anni i miei genitori erano - in modo molto discreto ma chiaro – preoccupati dall’eventualità che potessi prematuramente fidanzarmi o addirittura sposarmi, sebbene allora sposarsi a vent’anni non fosse più né fosse di nuovo, come oggi, desiderio frequente. Se mi fossi legata a qualcuno costui avrebbe probabilmente creato problemi ai trasferimenti per studio o per lavoro, previsti e senz’altro auspicabili, necessari a conoscere il mondo e la vita. Se mi fossi messa ad arredare casa o troppo presto a crescere figli non avrei potuto coltivare altre passioni, non sarei stata libera di disporre di me, non sarei stata autonoma, autosufficiente, indipendente. C’è tempo, pensavano. Verrà il tempo, intendevano.
Era un’epoca – non sono passati secoli, sono passati solo altri vent’anni – in cui i ragazzi avevano la certezza che il nostro futuro, nostro dei figli, sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Che ciascuno avrebbe avuto dalla vita quel che era stato capace di investire in termini di sacrificio, di dedizione, di talento: più o meno, certo. Di sicuro però avrebbe dovuto rispettare un paio di regole: primo, il tempo della semina è lungo e spesso faticoso. Secondo, ciascuno è responsabile delle conseguenze delle sue azioni, è da lui medesimo che dipende il raccolto. Mai fummo sfiorati, in quegli anni, dal dubbio che il destino di una ragazza dovesse per qualche ragione essere diverso da quello di un ragazzo: avevamo avuto in dono decenni di battaglie che non avevamo combattuto, era del tutto normale che si fosse diversi, sì, ma uguali. Felicemente diversamente uguali. Eccoci qui, dunque. Eccoci oggi. Come non detto.

Questa raccolta di storie di Anaïs Ginori rivela sottotraccia, come un filo rosso, una specie di composto stupore. Una nota di incredulità a volte divertita, a volte amara, a volte spazientita. E’ come se l’autrice cercasse attraverso i tasselli che compongono questo libro la risposta alla domanda: come è potuto succedere? E quando? E perché? In effetti: dove si è interrotta la storia che stavamo tutti insieme scrivendo? Come si è riprecipitati in un mondo peggiore di quello da cui siamo partiti, un Paese dove il maschilismo che non conoscevamo è diventato cultura diffusa. Diffusa e condivisa al punto che diventa difficile persino parlarne: come dici “donne” ecco un moto di fastidio, di discredito, di diffidenza. Farete mica le femministe? Oppure, al contrario, le battute sulle belle ragazze che quelle sì vogliamo che sbarchino dall’Albania, così poi trovano lavoro nei centri benessere dove le mettiamo in bikini a far spettacolo la sera, l’occhio vuole la sua parte il guerriero ha diritto a un bel riposo. Una delle mie storie preferite, in questo libro, è quella che racconta Valentina Maran sul suo spot per un detergente intimo. Fa veramente ridere ed è veramente triste. La seconda è quella di Andy Casanova regista di film porno. E’ veramente triste e fa, purtroppo, veramente ridere. L’incesto e lo stupro vanno molto, ma c’è di peggio, si vanta lui. La fidanzata si guarda le unghie.

La domanda dell’anno è stata: dove siete, dove siamo? Dopo aver visto la ragazza che si faceva foto nel bagno della camera dal letto del presidente del Consiglio e telefonava alla madre felice dicendole “Indovina dove sono?” è venuto proprio spontaneo chiedersi: e le altre dove sono? Le donne italiane, e i loro figli compagni fidanzati fratelli padri, dove sono? Tutti nel bagno del premier, o ansiosi di entrarci? Ho aperto per tutta l’estate il giornale che dirigo alle possibili risposte: centinaia di persone hanno scritto. Molte delle donne che trovate anche qui, Lorella Zanardo ed Emma Bonino, Luisa Muraro per esempio. No, non sono tutti nel bagno di palazzo Chigi o in coda per entrarci. Al contrario. E’ che mancano nuove parole per dirlo. Le vecchie si sono consumate e le nuove non “arrivano” a destinazione: non attraversano – non abbastanza – la gelatina televisiva che si è fatta apparato e cultura di potere. Le piazze, il web, il passa parola? Non è abbastanza. Bisogna trovare il modo per rideclinare da capo la cultura dell’uguaglianza dei diritti, della uguale dignità. Il danno è stato spaventoso, ci vorrà tempo. Bisogna cominciare dalla scuola, credo. Dalle bambine. Di nuovo dalla parte delle bambine.

La preside dell’Istituto d’arte del Tiburtino terzo, periferia di Roma, dice in queste pagine: “Nel ’68 avevo 16 anni, a scuola dovevo mettere il grembiule. La minigonna è stata una liberazione, oggi è di nuovo una forma di oppressione”. La risacca. L’onda che torna indietro e che cancella i segni sulla sabbia. Rewind, riavvolgi il nastro. Il gioco dell’oca, torna al via. Quando per l’Unità ho immaginato una campagna pubblicitaria con una ragazza in minigonna, una giovane studentessa con una minigonna di jeans, pensavo a questo. Bisogna ritrovare il bandolo di quel filo, di quella storia: la minigonna è stata una rivoluzione, una liberazione. Via le costrizioni, le ipocrisie che coprono, le sottogonne e i busti, i grembiuli: un colpo di forbice, un taglio col passato. Ciascuno sia quello che è, non abbia paura né vergogna. Non occorreva allora avere belle gambe per indossare una minigonna, non era un invito: era un proclama di libertà. Mi vesto come voglio, sto più comoda così, mi piace di più: e allora? Hai qualcosa da dire? Oggi non è più possibile, non è addirittura più neanche comprensibile, si è azzerato il pensiero: la minigonna è solo sinonimo di una proposta sessuale. Terribile, no? D’altra parte il senso delle cose è negli occhi di chi guarda. Chi ci guarda è solo questo che vede, offerta sessuale. Chi desidera essere guardata anche, alla fine: se questa è la grammatica la lingua diventa la stessa per tutti. Non c’è modo di rompere il cerchio, il documentario di Lorella Zanardo è lì a dimostrarlo.

Pensavo, quando nella primavera del 2009 ho cominciato ad incontrare ragazze che esibivano al collo la farfallina donata dal Signore col quale erano state gentili: si vergogneranno. Quando si incontrano e si vedono pendere dalla catena lo stesso marchio si sentiranno umiliate. Niente affatto. E’ un motivo di vanto, al contrario. E’ la carta d’oro che segna le elette nel club del credito illimitato. Neppure quando l’estate ha portato la valanga di “donne e coca che facilitano gli affari”  le cose sono cambiate. Padri che si danno fuoco se le figlie non vengono ammesse al circolo, se non hanno accesso al bagno o alla Camera, questa con la maiuscola. Come mai? Perché non c’è altra strada, spesso. Perché è il paese del bingo e del lotto, della ruota della fortuna. Perché non è più vero che avrai un lavoro se lo sai fare e se lo meriti: lavoro per tutti non c’è. L’avrai se segui le nuove regole: alle donne viene più facile se le imparano in fretta. Quale sia il loro posto, quale il loro ruolo. La fortuna se sei carina arriva in fretta, ha la forma dei soldi giganti che si vedono in tv, a volte anche di più.

Forse bisogna parlare con quella stessa lingua. Dire: il credito non è illimitato, finisce. E quando finisce? Quando l’ultimo lifting non basta più allo scopo? Quando il Signore preferisce un’altra, allora che farete? Parlare in termini di convenienza. Mettersi a disposizione alla lunga non conviene. Spiegarlo, mostrare bene perché. Indicare altre rotte possibili e se non ci sono chiederle a gran voce. Pretenderle. Come fa Valeria Valente, assessore a Napoli, mentre allatta suo figlio. Dire: c’è un altro modo per pubblicizzare un traghetto, questo fa schifo. Ricominciare dalle bambine, soprattutto dai bambini: si gioca insieme con gli stessi giochi, anche alla guerra se serve. Non è vero che le donne non sono adatte alla guerra. La disprezzano perché ne conoscono il peso e la stupidità ma se è questo che serve che sia: di nuovo alla guerra. Però mi raccomando che sia una guerra che non si riconosce subito. Che dia il tempo di vincerla, che se ne accorgano quando è troppo tardi. Una guerra che sembri una danza, per esempio. Non sarà difficile. Come dice l’assessore col bambino in braccio: non  lo capiranno se non glielo spieghi, sono uomini.

 

Anais Ginori (Roma, 1975) lavora a la Repubblica dal 1999. È giornalista al servizio Esteri. Con Fandango ha pubblicato nel 2001 “Le Parole di Genova” e, con Sperling&Kupfer, “Non Calpestate le farfalle” (2007).

 

Anaïs Ginori, Pensare l'impossibile
Fandango edizioni, 2010
pag. 154, 14 euro

 

presentazione di Thomas Chabolle (in francese)

 

8-05-2010

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