Pane e anguria a Diyarbakir
di Luisa Morgantini
 


Leyla Zana

E' davvero dolce l'anguria di Diyarbakir.
I palestinesi si offenderanno molto quando raccontando dei miei incontri nel Kurdistan-Turco dirò che mi è sembrata persino migliore di quella di Jenin, e sarà ancora peggio per il pane che mi è sembrato più buono di quello di Nablus.
Pane e anguria, è il pasto che ho condiviso con una decina di ex prigioniere/i curdi, nella loro sede, dove ad una parete, dipinto da una ex carcerata, è appeso un quadro con una donna che guarda l'isola di Imrali, la prigione di Ocalan.

Pane e anguria, per me un pasto eccezionale, per loro la quotidianità, l'unico pasto che possono permettersi  insieme al bicchierino di tè che si servono dolcissimo.
Molte/i di loro hanno sguardi lontani e segnati dalla depressione, i loro volti  e  corpi piagati dalla sofferenza, dalle torture, dalle privazioni.  Mezgin invece ha gli occhi allegri, è bella, ha più di quarant'anni, si è sposata, come succedeva a quasi tutte le donne curde,  in età giovanissima.

Appena la vedo e ci stringiamo le mani non  penso che lei sia stata in carcere, troppo diretta, spavalda. Invece ci è stata tre anni, il marito è in carcere da più di 9 anni, il figlio nella guerriglia è stato ucciso durante un bombardamento dell'esercito turco, la figlia di 22 anni è ancora sulle montagne. Mezgin non sa nulla di lei da lungo tempo, spera che sia viva e intanto organizza l'associazione dei prigionieri, perché quelli ancora in carcere abbiano assistenza e quelli usciti non siano soli, abbandonati agli incubi, alla impossibilità di trovare un lavoro, al riadattamento alla vita "normale". Hanno aperto centri culturali, cooperative, tutte gestite da ex-prigionieri, ma sono una goccia nell' oceano.

Mohammed aveva 17 anni quando è entrato in carcere.
E' uscito lo scorso Aprile dopo 15 anni, ne ha girati parecchi di carceri. Torturato come tutti,   tenuto in piedi per giorni e notti, botte, elettroshock, costretto a mangiare le sue feci, diversi  scioperi della fame, a volte in isolamento, una volta per giorni e giorni ammucchiato con tanti altri in una cella di due metri per due, non riuscivano quasi a sedersi,  ma: "ho studiato, ho imparato molto dagli altri compagni, è stata la nostra università e poi quando c'era una cosa per qualcuno era per tutti".

La prigione come la tortura, sembrano  uguali in tutto il mondo, quante volte l'ho sentito dire da italiani antifascisti, da spagnoli, cileni, brasiliani, argentini, sudafricani e dai palestinesi, penso a Nizar che si è sposato l'anno scorso in Italia con Neta, una pacifista israeliana. Quando lo incontrai a Nablus nel corso dell'Intifadah, nel 91, aveva 19 anni, era appena uscito dal famigerato campo di Ansar tre, nel deserto del Negev. 

Non aveva perso le splendore del suo sguardo verde ma sembrava anoressico tanto era magro. Di fronte alla mia pena per lui, mi disse quasi la stessa cosa: "sì, è stato duro, sotto le tende, caldo, freddo e fame, ma accanto a me c'erano tutti i miei miti, leader che non avrei mai conosciuto, si prendevano cura di me, discutevamo, di questo non mi scorderò mai".

Mentre inghiotto l'anguria, faccio la solita, banale, domanda: come ci si riadatta al fuori? Ridono e raccontano qualche storia, per esempio di un carcerato di Mersin, che non aveva mai visto un ascensore, quando stava per entrarci ha letto "per tre persone", si è fermato in attesa che arrivassero gli altri due.

Si guardano e dicono che non possono fare a meno l'uno dell'altro, solo quando sono insieme si sentono sicuri, fuori "è un mondo in rovina".

E poi arriva da parte loro la solita domanda-invocazione: "perché l'Europa ha abbandonato Ocalan, perché non impone al governo turco la democrazia, perché noi dobbiamo andare in carcere solo perché vogliamo parlare, cantare, amare nella nostra lingua ed essere rappresentati in parlamento?"

Non sono l' Europa, rispondo, faccio parte di quell'Europa che si ribella ai due pesi e due misure, che crede nei diritti umani per tutte e tutti, per questo sono qui, per questo dobbiamo unire le nostre debolezze, per farci forti.

Ci sono ancora più di ottomila prigionieri politici nelle carceri turche. A partire dal 1999 ne sono usciti circa 3000 e, pur restando piene di check point militari turchi, nelle diverse province curde è finito lo stato di emergenza e il coprifuoco.

Ha contato la scelta di pace voluta dal presidente Ocalan ponendo fine alla lotta armata ed  hanno contato le pressioni europee sul governo turco. Il varo di un settimo pacchetto di riforme ha visto sulla carta l'eliminazione dell'art. 8 del codice penale per il quale migliaia e migliaia di curdi, giornalisti, avvocati, insegnanti, donne, parlamentari come Leyla Zana, Hatip Dicle, Sedat Sadak, Orhen Dogan sono stati incarcerati e condannati a decine di anni di prigione.

Ma è solo sulla carta ripetono i curdi, come la possibilità di parlare e scrivere il curdo, le repressioni continuano, le sedi e i giornali chiusi e negli ultimi mesi riprendono le azioni di provocazione per riportare la guerra, si paventa un accordo Usa-Turchia dove a farne le spese saranno ancora una volta i curdi che non possono contare su nessuno tanto meno sul governo curdo- iracheno.

L'associazione dei prigionieri, il partito Dehap, movimenti di donne e di società civile mentre ribadiscono che sono le mobilitazioni pacifiche ad aprire la strada della democrazia, hanno avviato una campagna per l'Amnistia Generale per i prigionieri, i rifugiati e per i militanti del Kadek che sono ancora nelle montagne curde-turche o nei campi del Nord Iraq o in Siria o nella Bekaa e chiedono a tutti i democratici, soprattutto all'Unione Europea, di premere sul governo turco per respingere quella che, presentata dalla Commissione Giustizia e che dovrà essere votata il 31 Luglio dal Parlamento turco, viene chiamata Legge per l'Amnistia parziale e condizionata.

Infatti, malgrado il Ministro di Giustizia Cicek sostenga che non sia una legge per i pentiti, in realtà di questo si tratta.  Si  esclude dall'amnistia chi ha avuto ruoli dirigenti nel Pkk, si prevede la scarcerazione per chi non ha partecipato o aiutato formazioni militari ma previe dichiarazioni di abiura, sconti di pena che variano per chi è già stato condannato ed ha partecipato o aiutato azioni militari ma che si mette al servizio della polizia per collaborare, lo stesso per chi si consegna di ritorno dalla montagna, insomma la delazione.

Il 15 agosto riprende il processo contro Leyla Zana e gli altri parlamentari curdi, il processo è stato riaperto su imposizione delle Corte di Strasburgo, finora si è svolto in modo arbitrario. Se nella prossima udienza il giudice decidesse la libertà per i parlamentari, sarebbe un gesto certamente dovuto al diritto, e segnerebbe una svolta politica per lo sviluppo della democrazia in Turchia.

Non avverrà magicamente, le resistenze kemaliste e i militari fondamentalisti sono ancora molto forti, servono tutte le pressioni della Comunità Internazionale.


di ritorno da Diyarbakir  Luglio 2003
 


Luisa Morgantini,
europarlamentare del gruppo Gue-Negl e delle Donne in Nero, oltre che recarsi nel Kurdistan-Turco, ha assistito ad Ankara all'udienza processuale di Leyla Zana, Hatip Dicle, Orhen Dogan, Sedat Saddak del 18 Luglio con i parlamentari europei Felknas Uca e Luigi Vinci, le parlamentari italiane Elettra Deiana e Silvana Pisa, Silvana Barbieri di Punto Rosso e Nadia Cervoni delle Donne in Nero.
Ritornerà in Turchia per assistere alla prossima udienza processuale che si terrà ad Ankara il 15 Agosto 2003