Le donne, i medici, la vita


di Ritanna Armeni


Com'è difficile parlare con serenità, consapevolezza, razionalità dell'aborto. Lo è ancora oggi, a trent'anni da una legge con la quale molte di noi pensavano di aver risolto almeno una parte dei problemi. Invece no. Ancora oggi è complicato e doloroso.
Le nuove frontiere della scienza pongono problemi diversi, i mass media con una forsennata ricerca di sensazionalismo confondono e non informano, i toni da crociata che si usano sull'argomento bruciano ogni possibilità di dialogo, la difesa estrema di quelle che vengono definite conquiste o diritti o libertà sconfina qualche volta in un'ottusità che impedisce di andare avanti proprio in quelle libertà che si vogliono difendere.
Tutto questo mi pare di vedere in queste ultime settimane e mi provoca un sentimento di disagio, come capita a chi assiste ad un rito barbarico, in cui movimenti, azioni e simboli richiamano alla violenza, alla morte, alla ostilità.
La violenza ri-comincia con un documento di alcuni ginecologi di quattro grandi ospedali romani. Non per quello che contiene, per carità, dirò dopo perché è ovvio condividerlo quasi completamente, ma per il modo e la tempistica con cui viene gestito. Viene reso pubblico in un giorno simbolico, il giorno dedicato alla vita, quello in cui il papa lancia l'ennesimo appello contro l'aborto, nel pieno di una battaglia politica e culturale sulla quale si dovrebbe esercitare il massimo di attenzione, evitare le provocazioni, rifuggire dal sensazionalismo. Invece no.
Andare sui giornali, provocare scandalo sembra più importante che aiutare a capire, a produrre un dibattito fecondo. E non mi si dica, per favore, che i mezzi non sono importanti quando i contenuti sono giusti. I metodi rivelano i contenuti e, in questo caso, un contenuto non detto, ma decisivo che posso solo definire "ostilità", "inimicizia" nei confronti delle donne.

Guardate - si manda a dire alle donne con quella voluta esposizione mediatica - che quando il feto è vivo, voi non contate più niente. Tanto più se avevate deciso di interrompere la gravidanza. Siamo noi, solo noi medici a decidere.  
Il rito barbarico va avanti con i giornali che aprono polemiche, fanno titoli ad effetto, aprono scenari cruenti senza alcun reale legame con le parole di chi viene intervistato. Le parole dei ginecologi diventano parole contro la legge 194, anche se questa prevede esattamente quello che loro hanno detto. Le parole del papa si congiungono con quelle dei ginecologi.

Le donne, nei commenti, sono potenziali assassine per alcuni, vittime indifese delle ingerenze dei medici e della Chiesa per altri. Nessuno fa un paragone, una semplice operazione di accostamento fra due testi. Dice il documento dei ginecologi: "Un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente. L'attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell'Unità ed i genitori. Se ci si rendesse conto dell'inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico".   
Esattamente quello che prevede la legge  194 che dice testualmente “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione di gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Niente da fare.
Il rito barbarico va avanti. I prolife inneggiano ai medici coraggiosi che si sono schierati dalla parte dei feti indifesi e vitali. Ecco, finalmente, anche la scienza, anche la medicina dà torto alle donne, umilia la loro pretesa libertà, pone un limite. Ecco la trappola. Se le donne dicono di voler superare quel limite affermando di volere avere voce in capitolo anche sulla rianimazione di un feto vitale e già staccato dal loro corpo, è evidente che sono pronte a commettere un omicidio. E se sono capaci di assassinio dopo la ventiduesima settimana diventa evidente che è assassinio anche quello perpetrato entro i primi novanta giorni.

Così le donne si difendono, rispondono, sono arrabbiate perché la loro voce arriva molto debolmente, non scalfisce i mass media, si sentono vittime di una campagna che le accusa, le vuole colpevoli, le ha già condannate. Perché – è evidente – nell’immaginario la contrapposizione è fra la donna cattiva e il medico buono, chi vuole uccidere e chi vuole salvare la vita. Loro, noi, la vediamo con chiarezza l’intenzione ostile, l’inimicizia dichiarata.

Ma la risposta che diamo è quella giusta? E’ giusto contrapporre a chi dice che la decisione spetta al medico che, invece, deve essere la donna a decidere sempre e comunque? Ma in questo modo, stremate da una campagna che non ci aspettavamo, non cadiamo anche noi nella trappola dei proclami reattivi, del colpo su colpo? Fino a quando durerà il rito barbarico?

Non lo sappiamo, ma vorrei provare ad uscire dalla caverna, discutere nella luce del giorno, allontanare da me il pregiudizio e far vivere solo l’esperienza che ho avuto la fortuna o la sfortuna di fare, e la conoscenza che da essa è derivata. Scrivendo, forse, cose che non coincidono con le idee di Liberazione.
Io so che chi interrompe la gravidanza dopo venti faticose e amorose settimane quel figlio lo aveva voluto. La decisione di abortire è una scelta doppiamente dolorosa e può essere fatta in presenza di gravi malformazioni del feto. Venti settimane significa fra il quarto e il quinto mese , il bambino si sente, anche se fuori da quel grembo non può vivere.

E’ evidente, se si esaminano i fatti alla luce, fuori dalla caverna del pregiudizio, che il problema di una rianimazione di quel feto non si pone. Ma la scienza oggi ci dice che dopo la ventitreesima settimana c’è qualche possibilità che il feto possa vivere e dalla ventiquattresima settimana in poi queste possibilità aumentano. Che deve fare il medico in questo caso? Lui sa che la donna ha rifiutato quella maternità, e con lei, probabilmente, anche il padre. Solo lui è in grado di sapere con qualche certezza fino a che punto c’è speranza per quella vita. Sa anche quanto quel feto soffre o soffrirà ancora. Si chiede se quella sofferenza abbia un senso. Può ragionevolmente prevedere se morirà e in che tempi. Io voglio sperare che quel medico parli con la madre, e con il padre, per quanto possa essere doloroso e straziante. Sono sicuri di non volerlo accogliere? Non hanno cambiato idea? Lo so, è terribile, ma le situazioni anche le più terribili vanno guardate in faccia.

Vorrei che quel medico rispettasse, con le parole e con gli atti, con tutta l’umana comprensione di cui è capace, la decisione di quella donna, di quella coppia. Ma sapesse spiegare – questo è il punto - che non volere quel figlio malato non equivale necessariamente a volere la sua eliminazione. La libera scelta della donna di fronte a una maternità non voluta prevede l’aborto, quando il feto è ancora parte della madre, quando l’uno e il due sono ancora intrecciati. Quando invece l’altro c’è, e, forse, per quanto malato, e forse destinato a morire, può vivere senza la madre, quella logica non vale più. Vale un’altra logica e un’altra scelta etica.

La libertà della donna può essere solo, a quel punto, libertà di rifiutare, di restituire alla comunità una nascita che non si accetta. E il rifiuto della maternità – ricordiamolo - è contemplato dalla legge. Quante volte lo abbiamo sentito evocare quando venivano trovati neonati nei cassonetti delle immondizie. Alla donna che non vuole riconoscere il figlio è garantito l’anonimato e il rispetto. Così è stato promesso. Capisco che per una donna sapere che quel figlio prima desiderato, poi rifiutato possa essere vivo, o possa vivere anche per poco, possa soffrire, è devastante. Sapere che quel feto è vitale e soffre, apre abissi di infelicità e disperazione. Ma la libertà, purtroppo, è spesso libertà di scegliere fra due infelicità, due disperazioni. La libertà è anche accettare il fatto che la legge, anche la migliore delle leggi, si fermi – si deve fermare - ad un certo punto. E lasciare la donna di fronte alla propria scelta. Senza colpevolizzarla, senza demonizzarla, per un’accoglienza che non si sente di dare. Va nominato il suo dolore e le va dato conforto. Se conforto ci può essere.

 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 6 febbraio 2008


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