Donne
e "articolo 18"
Qualche commento sul referendum
di Tiziana
Tobaldi
L'abrogazione,
richiesta dal referendum del 15-16 giugno, di quei commi dell'art. 18
L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori) e della L. 108/90 che sanciscono, in
caso di licenziamento giudicato illegittimo, la differenza di trattamento
tra lavoratori di aziende con un numero di dipendenti superiore od inferiore
a 15, deve essere per noi ritenuta di grande importanza in quanto il 62%
delle donne lavoratrici Italiane (dato Censis 2000) è titolare
di un contratto dipendente a tempo indeterminato.
Occorre innanzitutto ricordare che questa differenza nella normativa è
stata inserita con la legge n. 108 del 1990, alla quale a suo tempo già
ci opponemmo proprio in nome dell'uguaglianza di fatto fra tutti i lavoratori.
Posto quindi che il primo gradino dello sfruttamento femminile sul posto
di lavoro è ancora quello inquadrato nella tipologia contrattuale
classica, la categorizzazione dei lavoratori in serie A e serie B può
essere salvaguardata solo in virtù dell'accrescimento del profitto.
L'attuale schierarsi per il "NO" di una parte consistente della
sinistra partitica e sindacale dimostra, ancora una volta, come essa abbia
fatto propria la politica governativa relativa all'occupazione che, dalla
stesura del "Libro Bianco" sul lavoro all'approvazione delle
leggi delega in materia, pone come suo primo obiettivo non certo la tutela
dei lavoratori già titolari di contratto e la regolarizzazione
dei precari, ma lo sviluppo generalizzato e rapido dei presupposti per
la creazione di nuovi posti di lavoro al di là degli interessi
dei salariati.
Dalla citata ricerca Censis del 2000 sul lavoro delle donne risulta che
fra i "vecchi" lavori standard ed i "nuovi" lavori
flessibili c'è pochissima comunicazione. Dal 1997 al 2000 è
stata segnalata l'assenza pressoché totale di mobilità fra
donne occupate: chi aveva un contratto a tempo determinato nel 91,6% dei
casi lo aveva ancora tre anni dopo e chi lavorava con contratto atipico
nel 90% dei casi era ancora occupata con la stessa modalità.
Ciò evidenzia che non vi è passaggio di esperienza, o almeno
di comunicazione, fra le donne che sono occupate tradizionalmente e le
altre e che sono oltremodo limitate le possibilità di organizzarsi
per difendere i propri diritti sul posto di lavoro, possibilità
già ridotte perché:
1. le donne sono più a rischio di ritorsioni padronali se impegnate
sindacalmente;
2. hanno meno tempo da dedicare all'attività sindacale perché
il tempo libero è impiegato nell'attività di riproduzione
e cura.
Certo l'estensione dell'art. 18 darebbe alle donne quella possibilità
di diventare anch'esse soggetto interlocutorio individualizzato delle
aziende che ora, posta la debolezza contrattuale dovuta alla flessibilità
e alla maggiore ricattabilità da parte padronale, è loro
di fatto negata.
Inoltre, amplierebbe comunque le possibilità di agibilità
sindacale, poichè un numero rilevante di donne (probabilmente la
maggioranza) è impiegato nelle piccole aziende.
Il referendum per l'estensione dell'art. 18 potrebbe inoltre costituire
un momento di forte aggregazione fra le donne in quanto basato su obiettivi
comuni e praticabili per moltissime lavoratrici, costituendo un tramite
di comunicazione intergenerazionale ed intercategoriale.
MA non basta
estendere l'art. 18 alle piccole aziende perché diversamente si
ridurrebbe ad una battaglia meramente restaurativa di una normativa previgente
il 1990 e relativa solo ai contratti subordinati ed a tempo indeterminato.
Con la balcanizzazione del mercato del lavoro, la lotta delle donne sul
posto di lavoro non può esaurirsi nella difesa delle lavoratrici
più garantite e cioè quelle titolari dei contratti sopra
citati, che pure riguardano ad oggi la maggioranza delle donne italiane,
ma deve coinvolgere le donne inquadrate nelle nuove tipologie lavorative
(contratti a tempo determinato, part time, interinali, collaborazioni
co.co, socie di cooperative, ecc., attendendo i nuovi regali governativi
del leasing di mano d'opera, delle prestazioni ripartite e del lavoro
a chiamata) - spesso meno qualificate, più giovani e straniere.
I soggetti sociali più deboli e naturalmente flessibili (giovani
e donne in cerca di prima occupazione o allontanati dal mercato del lavoro,
ecc., i cosiddetti outsiders) vengono espulsi dai processi produttivi
per primi, non necessariamente subito con il licenziamento ma, per esempio,
attraverso il ridimensionamento dell'orario di lavoro (per esempio, con
la legge delega n. 848 approvata nel febbraio di quest'anno i contratti
possono prevedere prestazioni di lavoro supplementari e collocazioni temporali
indipendentemente dal consenso del lavoratore).
Le donne sono soggetti costretti ad essere socialmente flessibili, per
far fronte alle esigenze di assistenza familiare ed ai compiti sempre
più numerosi che gravano su di loro, e questa loro flessibilità
sociale è stata oggi cannibalizzata dal mercato del lavoro che
l'ha utilizzata come valore aggiunto per l'accrescimento del proprio profitto.
L'alta flessibilità, richiesta dalla società per far fronte
alle funzioni di riproduzione e cura e dall'organizzazione del lavoro
per la maggiore produttività, porta come conseguenza intuitiva
il duplice sfruttamento delle donne, centrale per il permanere dell'attuale
organizzazione socio-economica:
con la prestazione della loro opera, vengono ridotte a forza lavoro interstiziale
per colmare quegli spazi lasciati liberi dalla maggiore rigidità
del rapporto lavorativo maschile, che deve venire salvaguardato per primo;
a questo fine viene anche sfruttata, da parte dell'organizzazione del
lavoro, quella disponibilità al sacrificio individuale che è
propria di molte di noi (un esempio: in molti reparti ospedalieri sono
solo le donne ad assicurare la reperibilità e la pronta disponibilità
fuori dai canoni orari del servizio);
vengono completamente investite dei compiti di riproduzione e cura che
lo stato assistenziale sta dismettendo erodendo poco a poco tutte le infrastrutture
e gli stanziamenti relativi.
Proprio come
donne occorre, perciò, che da questo referendum si parta per opporsi
alla nuova normativa sul lavoro che razionalizza ed istituzionalizza la
nostra subordinazione ed il nostro sfruttamento ingabbiandoci nel doppio
ruolo di custodi e perpetuatrici della famiglia mononucleare e di produttori
di reddito funzionali ai veloci cambiamenti del mercato del lavoro, che
ci vuole sempre pronte, disponibili e disposte a farci da parte all'occorrenza.
|