Messico 1600: tutte le donne in convento
Nunzia Augeri

Il turista che girando Città del Messico volesse discostarsi dagli itinerari abituali ed esplorare le antiche e strette vie del centro storico, potrebbe imbattersi in una stradina chiamata “calle de Belen”, via di Betlemme. Il richiamo alla religione cattolica non è inusitato, e per noi il nome di Betlemme evoca solo liete immagini di presepi natalizi. A Città del Messico quel nome è tutto quanto resta di un sogno utopico che qualcuno osò concepire nella seconda metà del XVII secolo: il sogno della reclusione totale in convento di tutte le donne.
I conventi femminili erano molto diffusi nel Messico coloniale; anche là come in Italia l’esigenza di mantenere integro il patrimonio familiare destinava alla vita religiosa molte delle figlie. D’altra parte, molte giovinette preferivano il convento e il voto di castità al destino di sposa e madre, che al primo parto rischiava la morte. Il convento di Belen aveva peraltro caratteristiche molto particolari. Infatti i suoi fondatori, due sacerdoti che si chiamavano Domingo Perez de Garcia e Juan de la Pedroza, avevano concepito un disegno grandioso: in quella che era una cittadella fortificata, più che un convento, volevano rinchiudere tutte le donne della città, senza eccezioni, cominciando dalle più giovani e belle che, in quanto tali, più di altre facevano sorgere pensieri peccaminosi nel cuore degli uomini.
Siamo verso la fine del Seicento. La Controriforma faceva sentire i suoi effetti anche nelle lontane colonie del nostro continente. La Chiesa si era proposta un piano universale di conquista il cui primo punto era la conversione degli infedeli delle Indie e delle altre terre d’oltremare, oltre che una riconquista al cattolicesimo di vaste masse delle campagne, cadute preda di superstizioni ed errori non minori di quelli degli infedeli. Nel quadro di questo fervore missionario si inserisce l’attività dei nostri due sacerdoti, i quali peraltro nel Vicereame del Messico agivano su un terreno favorevole. Città del Messico contava allora quindici monasteri di frati, sedici di monache, e vi avevano sede la Compagnia di Gesù, l’Oratorio dei Filippini e altre istituzioni ecclesiastiche che insieme occupavano circa un quarto delle costruzioni esistenti in città.
Le istituzioni religiose – maschili o femminili che fossero – erano centri di vita culturale ed economica: non solo si occupavano di istruzione primaria, di musica, teatro, canto, ma anche – quelli maschili – di educazione superiore. Gli ordini religiosi erano inoltre proprietari di vaste tenute agricole, di edifici, e a volte di interi quartieri nelle città, e poi vendevano frutta e verdura prodotte negli orti interni, nonché dolci, tessuti e ricami prodotti dalle monache: vere e proprie aziende dai ricchi profitti.
Tutte insieme tali istituzioni coinvolgevano circa otto o diecimila persone – uomini e donne – che non erano necessariamente pervase di spirito religioso, ma che avevano scelto il chiostro come una professione qualsiasi, pur facendo voto di povertà, castità e obbedienza. Le comunità che così si formavano non erano peraltro pacifiche e serene: i conventi più grandi erano paragonabili a villaggi popolosi, dove le monache vivevano in un regime che non prevedeva alcuna uguaglianza: chi era povera, restava povera ed era destinata a servire; chi era ricca restava ricca e poteva disporre di un alloggio vasto e confortevole, con giardino e stanza da bagno, con la compagnia di cameriere e schiave indie, che non di rado tentavano di fuggire per sottrarsi alla tirannia delle padrone monache. A volte poi tali serve potevano diventare intermediarie con un uomo, cui non sarebbe stato difficile avvicinare una monaca passando inosservato nel brulicare di familiari, mendicanti e venditori che si affollavano intorno al convento.
La vita interna del convento era molto articolata, con amicizie e inimicizie, rivalità e complicità che in determinate occasioni – per esempio la scelta di una nuova badessa – potevano dar luogo a conflitti aperti e perfino armati, combattuti magari a colpi di padella in testa. Una vita che dava luogo a squilibri psicologici e sociali di una certa gravità, che le autorità riuscivano a controllare solo grazie al vincolo dell’obbedienza, intesa in maniera ferrea sia nella vita religiosa che in quella civile.
Il primo protagonista della storia è il gesuita Domingo Perez de Barcia. Nato nella regione delle Asturie, in Spagna, intorno al 1650, si trasferisce giovanissimo in Messico presso uno zio. Studia prima a Puebla, dove prende gli ordini minori, poi a Città del Messico segue la facoltà di diritto e poi di filosofia. Caratteristica principale del suo carattere è quella di portare tutto alle estreme conseguenze, di occuparsi di tutto con grandissima passione. Nel 1680 diventa sacerdote, ma è già noto per l’appassionata pietà e per la capacità di infiammare gli animi con la sua predicazione. Si appassiona soprattutto alle donne, di cui conosce bene il potere irresistibile e l’influsso che sono capaci di esercitare sull’uomo. Le considera tanto pericolose per la virtù maschile che concepisce il disegno di rinchiuderle tutte, tenendole nascoste in una specie di mistico harem di cui egli sia l’unico signore.
Sul suo cammino incontra un giorno Juan de la Pedroza, sacerdote dell’oratorio di San Filippo Neri. Juan era nato in Messico nel 1654 e dopo un’infanzia considerata quasi miracolosa era diventato un giovane fatuo, più interessato alle donne e al teatro che alle opere di pietà. Riesce però a riprendere il retto cammino e diventa sacerdote. Un religioso molto apprezzato dalle donne che in gran numero lo eleggono a confessore. La vita precedente e il fervore delle fedeli provocano l’inimicizia di buona parte dei colleghi, che si sforzano di rendergli la vita difficile. Del mobbing non esisteva la parola, ma certamente la realtà, che peraltro in quel contesto diventava un avvio sulla strada della santità.
A questi due si unisce un altro sacerdote, Pedro Arellano y Sosa, dalla personalità altrettanto appassionata e portata al misticismo. Si citavano addirittura i suoi miracoli, fenomeni di levitazione e di trance quando diceva messa. Anche Sosa è convinto che la castità sia un cristallo tanto delicato che un alito lieve è sufficiente ad appannarlo; che le donne siano serpi maligne che vanno redente, soprattutto quelle più giovani e belle. Pare che per un periodo almeno sia stato confessore di Sor Juana Ines de la Cruz, la poetessa messicana famosa già in vita e nota perfino in Europa. Sosa, al pari di Juan de la Pedroza, faceva parte dell’oratorio di San Filippo Neri e veniva anch’egli perseguitato dai colleghi, a riprova che la vita in comune nei monasteri aveva momenti particolarmente conflittuali.
Su tutti i religiosi del Vicereame dominava l’arcivescovo di Città del Messico, Francisco Aguiar y Seixas. Era nato in Spagna, là aveva studiato e aveva abbracciato la vita religiosa, ed era diventato un canonico assai rispettato nel celebre Santuario di Santiago de Compostela. Giunto in Messico con una leggendaria “flotta del miracolo” nel 1678, divenne arcivescovo del Michoacan, una regione del centro del paese. Qui cominciarono i suoi problemi perché mai aveva trattato con donne, mentre la sua nuova carica poteva obbligarlo a frequentarle. Convinto comunque ad accettare la mitria, usava rimproverare aspramente chiunque osasse presentarsi accompagnato dalla moglie. Trasferito poi a Città del Messico nel 1682 e obbligato a render visita alla moglie del viceré, si propose di evitare tutte le altre donne, verso le quali manifestava un orrore e un’avversione proporzionali forse allo sforzo che gli costava mantenere la castità. Di lui si raccontavano vari episodi sempre legati alla sua feroce misoginia.
Non solo non sopportava che una donna ponesse piede in arcivescovado, ma se si trovava fuori non sopportava neppure la vista delle donne eventualmente addette alla pulizia e alla cucina, e non voleva che toccassero le sue cose o gli servissero i pasti. Uomo di grandi passioni, dovette praticare la castità in maniera eroica, facendola diventare carcere e tortura: dormiva per terra, si fustigava e portava regolarmente più di un cilicio.
L’incontro fra questi uomini fu fatale: avvenne nel 1682. Il vescovo Aguiar desiderava ripulire la sua vasta archidiocesi soprattutto dalle donne, causa principale di peccato. Convinse padre Barcia ad accollarsi l’impegno di costruire un “castello della purezza” e allo scopo gli mise a disposizione una cifra assai notevole che in quel tempo equivaleva a un patrimonio, cioè sessantamila pesos. Pochi decenni prima l’erezione del convento di San Jeronimo – una fabbrica poderosa che ancor oggi si erge ben salda, a dispetto del tempo e dei terremoti – era costata ventiduemila pesos. Barcia rifiutò: era un’impresa santa e Dio stesso avrebbe provveduto al necessario. La grande impresa ebbe inizio e fu il convento di Belen.
In un primo momento, sui terreni intorno all’attuale via che ne conserva il nome, ci furono solo alcune stanzette che vennero subito occupate da donne povere, anziane e senza protezione, ben felici di assicurarsi vitto e alloggio in una situazione di decenza. Agli inizi, ciò che preoccupava soprattutto padre Barcia era raccogliere i fondi sufficienti per proseguire la costruzione della cittadella: non solo denaro ma anche materiali per l’edilizia e inoltre tutto quanto necessario – alimenti, legna, abiti – per il mantenimento delle sue pupille. Più tardi si trovò alla disperazione e allora si rassegnò a fare ricorso all’arcivescovo che gli aveva offerto la sua munificenza, ma il buon Aguiar lo mandò via con quel Dio in cui aveva riposto tanta fiducia. La fabbrica comunque cresceva, in certi periodi così rapidamente che la gente diceva che gli angeli stessi provvedevano a edificarla. Presto fu pronta anche la cappella, cosicché le pupille di padre Barcia non dovettero più uscire neppure per andare a messa. Il convento, costruito secondo i canoni dell’architettura coloniale che prevedeva le chiese-fortezza, cresceva possente e imponente. Lungo le alte mura non esistevano finestre, le poche porte erano rigorosamente tenute chiuse e dal 1683 si stabilì la clausura più rigida. Nessuno tornò più a vedere le donne che vi erano entrate.
Le prime donne che avevano accettato di seguire padre Barcia lo avevano fatto volontariamente, a erano per lo più anziane e povere: quelle più “pericolose” restavano fuori, irraggiungibili. Allora i tre religiosi idearono una crociata speciale da realizzarsi in città, allo scopo di avvicinare le donne che normalmente restavano fuori dalla portata degli uomini di chiesa: prostitute, attrici, ragazze abbandonate, figlie di famiglie malvage che le indirizzavano sulla strada del peccato. I tre religiosi, la sera, tolto l’abito, indossavano le vesti di cittadini normali e frequentavano teatri, sale da gioco, arene dei galli, perfino i bordelli: avvicinavano le donne, dispiegavano tutta la loro eloquenza e la loro capacità di persuasione, prospettavano una vita di virtù e di agi, le convincevano ad abbandonare la vita peccaminosa che conducevano. Per quelle che accettavano si aprivano le porte del convento di Belen. Le più riottose, le “vipere colme di veleno”, vi venivano trascinate a forza con l’intervento dell’autorità civile. A poco a poco scomparvero non solo i bordelli, ma anche teatri, sale da gioco, taverne. I buoni padri avevano spie dappertutto e riuscivano perfino a sapere quel che succedeva nelle case private, perseguendo adulteri o semplicemente incontri di amanti non sposati.
Il convento di Belen si riempì di una moltitudine di donne che erano autentiche incarcerate, obbligate a una vita claustrale ancor più rigorosa di quella dei normali conventi femminili. I tre religiosi pretendevano che vivessero come monache sante senza essere né monache né tanto meno sante. La vita quotidiana si articolava intorno ai momenti della devozione: le donne si alzavano alle cinque del mattino, andavano in cappella per la messa e altre preghiere, quindi al lavoro. Alle dodici tornavano in chiesa per la meditazione, il rosario, l’esame di coscienza. Dopo il pranzo, ancora un rosario e poi di nuovo al lavoro. Il pomeriggio terminava con la lettura di libri di pietà, preghiere e ancora rosario. Tutti i lunedì, mercoledì e venerdì le variazioni includevano flagellazioni, fustigazioni e digiuno.
Il convento era retto direttamente da padre Barcia, che non vi aveva voluto alcuna badessa; era prevista però una preposita, coadiuvata da tre “ministre”. Si trovavano poi due infermiere, varie sagrestane e lettrici, una maestra e quattro portinaie, oltre a due guardiane interne e due pubbliche: una piccola truppa in grado di tenere a bada eventuali disordini o tentativi di fuga.
Il padre Barcia stava coronando il suo sogno ed era molto soddisfatto, al pari degli altri due, Pedroza e Sosa. L’arcivescovo Aguiar era al settimo cielo; in pochi anni, con l’aiuto dei suoi fedeli sacerdoti, era riuscito a eliminare ogni incentivo al peccato: balli, teatri, sale da gioco, corride, circhi, bordelli, tutto era sparito. Belen si ergeva come fortezza inespugnabile della virtù e lanciava la sua sfida contro il Maligno.
Ma i nostri uomini accecati dalla loro misoginia non riuscivano a vedere che la loro fortezza custodiva proprio nel suo interno gli elementi che l’avrebbero portata alla disgregazione. Pretendere che giovani donne di origine spesso india, semplici e analfabete, provenienti altresì da una cultura che ignorava quella fobia per il corpo e per il sesso di cui erano portatori i conquistadores, sopportassero una vita che sarebbe stata gravosa perfino per le monache di famiglia spagnola, significava restare ciechi di fronte alla realtà e condannarsi quindi al fallimento.
Dapprima fu un solo caso: una giovane riuscì a fuggire con la complicità del suo innamorato, e non fu mai più ritrovata. Poi cominciarono a farsi più frequenti i piccoli incidenti della vita in comune – litigi, insulti, offese – che provocavano interventi repressivi da parte dei sacerdoti. I castighi fecero divampare la ribellione. Le donne cominciarono a rifiutarsi di andare in chiesa e confessarsi, mentre le più ardite osavano ingiuriare i santi padri. Si moltiplicarono i tentativi di evasione organizzati dall’esterno, le donne diventarono sempre più insolenti, lanciando contri i padri bestemmie e oscenità da bordello. La collera delle donne prigioniere trovava riscontro in quella degli uomini, furibondi per essere stati privati delle loro compagne e dei loro divertimenti: ogni giorno gruppi di uomini inferociti circondavano Belen aspettando i religiosi per aggredirli a sassate. Un giorno riuscirono a prendere Barcia e lo buttarono giù da un ponte, ma si salvò. Anche padre Pedroza sfuggì a ben tre tentativi di assassinio.
Di fronte ai ripetuti tentativi di ribellione e di fuga da parte delle donne, Barcia divenne sempre più duro. Cedere alle rivendicazioni di libertà equivaleva a dichiararsi vinto dal demonio, ad ammettere che il male era più forte del bene, e perciò giudicò non opportuno addolcire il rigore della disciplina interna. La ribellione tornò a divampare per lunghi mesi, si scatenavano autentiche battaglie interne fra le donne recluse e le guardiane; ci furono anche alcuni suicidi che non si riuscì a mantenere segreti. La battaglia si faceva sempre più aspra, assumeva i contorni di una lotta fra il cielo e l’inferno.
Si arrivò infine a un punto di non ritorno. Un pomeriggio, quando il momento peggiore sembrava passato e ormai una certa stanchezza pesava sulle donne prigioniere, propiziando la calma, il convento fu sconvolto da un episodio che segnò per sempre la vita e la mente di padre Barcia. In chiesa, mentre si disponeva alla predica consueta, dalla folla delle fedeli si staccò una donna che si avvicinò all’altare. Nuda. Il religioso cercò subito di chiudere gli occhi, ma l’inattesa visione di quella nudità femminile, del sesso oscuro, dei seni erti, dei fianchi che ondeggiavano sinuosi e provocanti, lo lasciò fulminato. Era il diavolo stesso che osava profanare il luogo santo che aveva costruito con le sue mani, era il nefando che cancellava il sacro.
La donna che si era denudata in chiesa venne subito imprigionata in una cella, dalla quale però riuscì a fuggire per fomentare nuove rivolte. Si rese necessario espellerla, ma quel forzato allontanamento era già una sconfitta. La prima.
Poco tempo dopo, una domenica, sempre in chiesa mentre si disponeva alla predica, padre Barcia cadde vittima di un tremendo attacco: cominciò a rantolare come una bestia ferita, il viso si fece paonazzo, gli occhi uscirono quasi dalle orbite, la bocca schiumò insanguinata e il religioso stramazzò fra terribili convulsioni. Doveva sopravvivere così per ben dodici anni, invasato dal demonio – secondo la diagnosi medica del tempo – e curato per questo perfino con tremendi pestaggi, diretti ovviamente al demonio e non a lui. Di fatto cadde in uno stato di completa demenza.
Il convento di Belen rimase affidato a Juan de la Pedroza e proseguì la sua alterna vicenda, con periodi di relativa calma, interrotti da improvvise ribellioni, ma ormai sul sogno di rinchiudervi tutte le donne era calato un sipario che mai più si sarebbe rialzato. Il destino tragico e demoniaco di padre Barcia aveva impresso un segno drammatico e negativo su tutta l’iniziativa. Perfino il vescovo Aguiar ne prese le distanze fino a dissociarsene.
Un destino simile a quello di padre Barcia doveva perseguitare anche Juan de la Pedroza, che finì i suoi giorni nelle tenebre di un delirio persecutorio, schiacciato da un insostenibile sentimento di colpa e convinto di essere destinato alla dannazione eterna.
Il secolo XVII volgeva ormai al termine; rapidamente Belen si trasformò in un convento ordinario che funzionò ancora per vari decenni, proseguendo comunque una vita improntata alla repressione sessuofobica cui solo le rivoluzioni del XX secolo avrebbero posto la parola fine. Di quella lontana utopia che voleva rinchiudere tutte le donne scomparve perfino il ricordo; resta a Città del Messico solo la targa di una breve strada, costeggiata oggi dagli alti e ornati edifici dell’inizio del novecento: calle de Belen, via di Betlemme. La strada che doveva portare al paradiso della virtù e che invece portò all’inferno tutto umano della pazzia coloro che ne avevano concepito il folle disegno.
1-02-2023
Questo scritto è comparso anche su cumpanis.net
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