Aung e le altre coraggiose paladine di libertà
Intervista a Dacia Maraini di Umberto De Giovannangeli

Il regime birmano colpisce Aung San Suu Kyi perché sa di avere di fronte una donna politica con uno straordinario patrimonio di credibilità. Per questo fa paura. E nel colpire lei s’intende anche lanciare un monito a tutte le donne che incarnano quello spirito di libertà che vive anche nelle società e nei Paesi più chiusi, come, ad esempio, l’Iran». La persecuzione della premio Nobel per la pace birmana vista con gli occhi di una grande scrittrice italiana: Dacia Maraini.

Le autorità birmane hanno incarcerato Aung San Suu Kyi. Come leggere questa decisione?
«È il tipico comportamento di un regime dittatoriale che, da una parte, non osa eliminare fisicamente una persona divenuta famosa in tutto il mondo per la sua battaglia di libertà.
Il regime birmano, sanguinario quanto cinico, sa di non potersi permettere questo assassinio, pena un isolamento totale dal consesso internazionale.
Al tempo stesso, continuamente tentato di intervenire sulle piccole libertà che le sono rimaste.
AungSan Suu Kyi è costretta da anni agli arresti domiciliari. La sua casa è stata trasformata in una prigione.
Una prigione che può risultare una “conquista” rispetto ad una cella.
Questa è la tortura psicologica a cui da anni è sottoposta questa straordinaria donna. Vivere una condizione atroce che potrebbe però divenire ancora più insopportabile. Questo è il ricatto a cui è sottoposta Aung San Suu Kyi.
Ho letto che si sono alzate voci nella comunità internazionale per chiedere che la premio Nobel per la pace potesse essere visitata da un medico.
Ma la vicenda di Aung non è un problema umanitario. È un grande, enorme problema politico che interroga le coscienze di ogni cittadina e cittadino democratico e di ogni governo che si ritenga tale. È una condizione atroce togliere ad una persona la possibilità di avere un qualsiasi rapporto esterno, impedirle di comunicare, costringerla al silenzio. E oggi Aung è portata via dalla “prigione-casa» per essere rinchiusa in una cella...».

Ritiene che la comunità internazionale abbia fatto tutto il possibile per ridare libertà alla leader dell’opposizione democratica birmana?
«Direi proprio di no. Si poteva, si doveva fare di più. Si può, si deve fare di più. C’è stato un periodo in cui le tragiche vicende della Birmania hanno conquistato le prime pagine dei giornali. Poi è calato il silenzio.
L’”innamoramento” è finito. È una vicenda che ha riguardato, solo per fare un altro esempio, anche il Tibet. Tutti parlano e poi si dimentica troppo facilmente».

Perché le donne sono divenute oggi in tante parti del mondo il «volto» della libertà negata?
«Perché le donne esprimono un desiderio di libertà che serpeggia anche nelle società più chiuse, bloccate.
Pensiamo all’Iran. Una punizione come quella inflitta ad Aung San Suu Kyi ha un valore esemplare per tutte le donne, anche di altre società e Paesi».

Aung come simbolo...

«Si ha paura della simbolicità dell’agire di Aung, una donna politica con una forte, possente credibilità. E i simboli, nella loro capacità di divenire un modello, sono visti come fumo negli occhi dai regimi dittatoriali.
Ed è proprio la sua credibilità che ha fatto divenire Aung un simbolo e poi un modello a cui riferirsi».

Cosa «racconta» Aung San Suu Kyi, la sua esperienza, a noi italiani?

«Racconta agli italiani che la politica è prima di tutto credibilità. E dice che una persona che ha l’ambizione di rappresentare gli altri, deve essere prima di tutto trasparente e ogni sua azione deve essere chiara e accettabile. Un“racconto” di un’attualità sconvolgente».

 

da l’unità del 15 maggio 2009

 

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