di Angela Azzaro
Avevano detto di essere le fuori programma e lo sono state. Per i cartelli, per gli slogan, per la radicalità nella radicalità. Sono entrate e uscite dal corteo le femministe che ieri hanno partecipato alla manifestazione con una serie di richieste che non erano rivolte tanto e solo al governo Prodi - a cui però hanno urlato più volte «vergogna» - ma ancora prima alla sinistra. «Cosa rossa è femminista o nata morta» diceva un cartello centrando la questione del futuro immediato. Cioè il fatto che se la sinistra (accusata di sessismo) affronta l’unità e l’innovazione con un patto solo tra uomini e tra leader non va da nessuna parte. Nasce morta, appunto. Ora la sfida è già rivolta al domani, ma con una piattaforma molto chiara e molto netta che ieri è stata evidenziata dall’eccentricità dei corpi, delle voci, dalla loro totale dissonanza.
Il no a una politica monosessuata è
infatti pieno di contenuti che sono la laicità, il rispetto delle
libertà individuali, il no alla precarietà di vita e negli affetti.
Come è possibile che questi temi siano ancora considerati secondari?
Questioni da mettere come corollario alla contraddizione capitale e
lavoro? La manifestazione di ieri è dentro
questa contraddizione: da una parte un blocco «storico» di militanti e
dall’altra le schegge di una soggettività più aperta, complessa, che
rompe con l’identità del maschio comunista eterosessuale. Le fuori
programma e la partecipazione del movimento lgbtq hanno lanciato
questo segnale, hanno portato dentro il discorso dominante sul welfare
le loro storie di vita, la loro sessualità, la loro critica a un mondo
machista. Il grande successo della
manifestazione da questo punto di vista non ci deve ingannare. Bisogna
stare attenti a non prendere scorciatoie e a non tradire la ricchezza
rappresentata dalla pluralità di soggetti che hanno firmato l’appello
iniziale e che hanno organizzato la giornata.
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