Stupri, la trappola della sicurezza
di Angela Azzaro


Artemisia Gentileschi


La campagna mediatica estiva sulla violenza sessuale ha ottenuto i suoi primi effetti. Effetti voluti, evocati, costruiti a tavolino: chiedere più repressione e controllo per le strade, maggiore severità nelle pene. Insomma, usare le donne, ancora una volta e nel modo peggiore, per giustificare che la società diventi sempre più chiusa, asfittica, punitiva e razzista. Nel profondo e nella superficie nemica della libertà femminile.

La proposta di modifica della legge sulla violenza sessuale avanzata dalla ministra per le Pari opportunità, Barbara Pollastrini, che chiede l’aumento delle pene per gli stupratori, e le iniziative della sindaca di Milano, Letizia Moratti, per predisporre, tra le altre cose, i taxi rosa vanno nefastamente nella stessa direzione. Non solo perché spostano il problema della violenza sessuale dal rapporto tra i sessi in ambito parentale e amoroso alla minaccia che verrebbe dalla strada. Ma soprattutto perché vanno a rafforzare i due fattori che più mettono la donna in reale pericolo: le strutture di potere patriarcali, per loro natura intrinseca coercitive, e l’idea che la donna sia, non soggetto autonomo, ma vittima da tutelare, soggetto che non gode appieno delle proprie facoltà.

Perché una donna dovrebbe sentirsi risarcita o protetta dallo stesso sistema che prima crea lo stupratore e poi lo mette qualche anno in galera lavandosi così la cattiva coscienza? Altra cosa è la critica con cui si sono contestate alcune sentenze degli ultimi anni, in cui la riduzione della pena è stata motivata con ragionamenti offensivi della dignità della donna. Obiettivo in quel caso non era l’atto di clemenza di per sé ma la cultura giuridica maschilista sottesa.

Il meccanismo che unisce la violenza contro le donne (sessuale e non) e la repressione è antico, ma oggi vive - come dimostra l’attenzione conquistata nel corso dell’estate - una nuova fase: attraverso il discorso sul corpo delle donne, anche quando si dice di farlo per il loro cosiddetto bene, si vuole ridefinire un modello di società che espelle ogni diversità. Si vuole costruire un mondo perfetto: di maschi bianchi etero le cui madri, mogli, figlie e amanti sono una proprietà intoccabile. Il dispositivo messo in atto in questi giorni è evidente.

Da una parte - come ha spiegato, su queste pagine, Annamaria Rivera - parlare di stupri serve per esprimere al meglio la discriminazione razziale: il singolo è stato usato per attaccare un intero gruppo, responsabile in quanto espressione di un certo colore della pelle, di una certa lingua, di un certa religione. Dall’altra si tenta di fare un passo avanti nella strategia della guerra permanente contro le libertà individuali che alcuni governi hanno condotto a livello locale per tentare di arginare ogni forma di cambiamento del sistema, per annientare il “nemico” interno.

Si chiama società del controllo. Un controllo sempre più pervasivo che è arrivato fino ai corpi: li ha brevettati, normati, ha tentato di dirgli che cosa fosse giusto o sbagliato desiderare. La legge italiana sulla fecondazione assistita fa parte a pieno titolo di questo quadro. Ma non è bastato. Si pretende di andare oltre.

Si chiede alle donne, in nome della loro incolumità, di rinunciare alle libertà che hanno conquistato: non uscire se non sotto tutela, non vestirsi in un certo modo, non dare confidenza se non agli italiani buoni, che poi sono quelli che in percentuale di più le uccidono e le violentano. Si chiede loro anche di rinunciare al bene più importante: ai loro valori politici.

Oggi più che mai è fondamentale non cadere nella trappola della sicurezza come risposta al conflitto con gli uomini. E’ invece importante rivendicare la libertà. Anche quella vissuta nella quotidianità. La libertà di uscire senza taxi rosa o gialli o blu. Quella di sentirsi cittadine a tutto tondo, sempre e comunque, senza bisogno che un giudice punisca, un giornalista ci esorti, un poliziotto ci controlli. La prima, più importante, risposta è la nostra autonomia, la nostra passione, i nostri desideri.

La questione è e resta la libertà femminile. Ma è evidente, come dimostrano gli stupri, che non c’è liberta femminile senza un cambiamento del maschile. Alcuni uomini, pochi e illuminati, ne parlano come la conquista anche della loro libertà: dai ruoli, da un desiderio ingabbiato, represso, che non trova parole per dirsi se non con gli stereotipi, le frasi fatte.

Nei diversi articoli scritti ultimamente sui grandi quotidiani a nessuno è venuto in mente di dire la cosa più banale: gli stupri finiranno quando gli uomini smetteranno di farli. Se la sono presa con i migranti in quanto stranieri, non in quanto maschi. Maschi come molti dei giornalisti intervenuti per esprimere il loro sdegno o, come Francesco Merlo su La Repubblica, per prendersela con il presunto silenzio delle femministe.

Nessuno di loro ha interrogato la sua identità di genere come quella degli stupratori, ha chiesto agli uomini di cambiare. Finché questo non accadrà non ci saranno mai né strade né piazze abbastanza illuminate, né case - come si sa il luogo più minaccioso - in cui sentirsi “sicure” nella maniera evocata dalla sindaca di Milano. Né ci saranno pene sufficienti a spingere gli uomini a non stuprare più. Fino a quando non ci sarà la rivoluzione copernicana del maschile, la vera, unica, sicurezza resta quella di credere in noi stesse.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 1 settembre 2006