Perché una donna dovrebbe sentirsi
risarcita o protetta dallo stesso sistema che prima crea lo stupratore e
poi lo mette qualche anno in galera lavandosi così la cattiva coscienza?
Altra cosa è la critica con cui si sono contestate alcune sentenze degli
ultimi anni, in cui la riduzione della pena è stata motivata con
ragionamenti offensivi della dignità della donna. Obiettivo in quel caso
non era l’atto di clemenza di per sé ma la cultura giuridica maschilista
sottesa. Da una parte - come ha spiegato, su queste pagine, Annamaria Rivera - parlare di stupri serve per esprimere al meglio la discriminazione razziale: il singolo è stato usato per attaccare un intero gruppo, responsabile in quanto espressione di un certo colore della pelle, di una certa lingua, di un certa religione. Dall’altra si tenta di fare un passo avanti nella strategia della guerra permanente contro le libertà individuali che alcuni governi hanno condotto a livello locale per tentare di arginare ogni forma di cambiamento del sistema, per annientare il “nemico” interno. Si chiama società del controllo. Un controllo sempre più pervasivo che è arrivato fino ai corpi: li ha brevettati, normati, ha tentato di dirgli che cosa fosse giusto o sbagliato desiderare. La legge italiana sulla fecondazione assistita fa parte a pieno titolo di questo quadro. Ma non è bastato. Si pretende di andare oltre. Si chiede alle donne, in nome della loro
incolumità, di rinunciare alle libertà che hanno conquistato: non uscire
se non sotto tutela, non vestirsi in un certo modo, non dare confidenza se
non agli italiani buoni, che poi sono quelli che in percentuale di più le
uccidono e le violentano. Si chiede loro anche di rinunciare al bene più
importante: ai loro valori politici. Nei diversi articoli scritti ultimamente sui grandi quotidiani a nessuno è venuto in mente di dire la cosa più banale: gli stupri finiranno quando gli uomini smetteranno di farli. Se la sono presa con i migranti in quanto stranieri, non in quanto maschi. Maschi come molti dei giornalisti intervenuti per esprimere il loro sdegno o, come Francesco Merlo su La Repubblica, per prendersela con il presunto silenzio delle femministe. Nessuno di loro ha interrogato la sua
identità di genere come quella degli stupratori, ha chiesto agli uomini di
cambiare. Finché questo non accadrà non ci saranno mai né strade né piazze
abbastanza illuminate, né case - come si sa il luogo più minaccioso - in
cui sentirsi “sicure” nella maniera evocata dalla sindaca di Milano. Né ci
saranno pene sufficienti a spingere gli uomini a non stuprare più. Fino a
quando non ci sarà la rivoluzione copernicana del maschile, la vera,
unica, sicurezza resta quella di credere in noi stesse.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 1 settembre 2006 |