Saggio
pubblicato sul numero 11 della prestigiosa rivista di poesia e filosofia
La Mosca
di Milano
La
parola che semina il drago
Ingborg Bachmann
tra metafore e silenzio
di Paolo Rabissi

Ingeborg
Bachmann
Non conosco mondo migliore è il titolo dato dalle sorelle di
Ingeborg Bachmann a un volume contenente versi scritti dalla poeta tra
il 1962 e il 1964 (perlopiù, poche sono più tarde), circa
dieci anni prima della sua morte dunque, e che, come viene detto nella
prefazione, la Bachmann "non aveva pensato di pubblicare"
anche se li aveva conservati. Non sapremo mai se la poeta avrebbe messo
ancora mano a questi versi, tanto meno sappiamo quanto avrebbe eliminato,
quanto conservato e quanto modificato. Resta però il fatto che,
al momento della sua tragica morte, avvenuta nel '73, il silenzio della
sua poesia durava quasi ininterrottamente sin dalla pubblicazione della
sua seconda raccolta, Invocazione all'Orsa maggiore, del 1956 (fatta
eccezione per qualche poesia pubblicata su riviste). In un abbozzo di
risposte a una intervista, scritto agli inizi degli anni sessanta ,
dopo aver dichiarato di essersi proibita di fare ancora qualcosa che
potesse chiamarsi poesia, così continua: "Non ho nulla contro
le poesie, ma lei deve pensare che improvvisamente si può avere
tutto contro, ogni metafora, ogni suono, ogni obbligo di far avvicinare
le parole, si può avere contro questa apparizione simultanea,
assolutamente felice di parole e immagini". E poco oltre dichiara:
"So ancora poco di poesia, ma di quel poco che so fa parte il sospetto.
Sospetto le parole, il linguaggio
". Pur tenendo fede alla
sua posizione tuttavia Ingeborg Bachmann continuerà a scrivere
versi in silenzio, in una sorta di diario intimo, ora reso pubblico.
Vi compaiono pagine di versi ripetuti e ripresi in contesti diversi,
variazioni sullo stesso tema, poesie titolate ma incompiute, versi interrotti
su una virgola o bloccati su un articolo. Progetto segreto di una terza
raccolta o tentativo disperato e fallimentare di recuperare a sé
la ricerca poetica? Un luogo comunque interdetto. Il risvolto di copertina
avverte che stiamo per entrare in un laboratorio. Ma la definizione
è insoddisfacente. Chi entrasse nel laboratorio di un artigiano
qualsiasi sarebbe sempre accolto con piacere. Lì attrezzi, materiali,
opere incompiute o rifinite sarebbero sempre liberamente esposte allo
sguardo altrui. Qui invece entriamo in una intimità che non prevedeva
ospiti improvvisi. Ci si può entrare in punta di piedi ma resta
un po' il disagio di trasgredire a una volontà. Si tratta di
un territorio di confine dunque tra il silenzio cui era destinato e
la tensione lirica, impegnata a rintracciare la stessa forza evocativa
delle immagini presente nelle due raccolte che avevano fatto della Bachmann,
sin dall'inizio, una delle voci più alte della poesia del Novecento
in lingua tedesca. Per la natura stessa di questo territorio di confine
il lettore di poesia viene così contemporaneamente sollecitato,
più che altrove, a una riflessione sulle forme del linguaggio
poetico e sul destino della poesia nella nostra età .
Una pepata
metafora.
"Sono scomparse le mie poesie./ Le cerco in tutti gli angoli della
stanza./ Per il dolore non so come si scriva/ un dolore, non so in assoluto
più nulla.// So che non si può cianciare così,/ dev'essere
più piccante, una pepata metafora./ Dovrebbe venire in mente. Ma
con il coltello nella schiena."
Una metafora pepata ti trascina con sé. E' solo un altro modo per
dire una cosa? La metafora non eccede forse il senso altro, quello nascosto?
Chi interpreta ha il suo compito. Proverà a dire qual è
il senso nascosto. Analizzerà tutti i dati soggettivi dell'autore
( i movimenti del suo corpo, delle sue emozioni, delle sue relazioni)
e accanto ad essi quelli oggettivi (il contesto ambientale, storico, politico,
culturale, ecc.) e legittimerà la sua interpretazione, aiutandoci
a leggere nel poeta. Così ancorata la metafora sembrerà
avere detto tutto. E tuttavia non avrà esaurito la serie di associazioni
liberate nel singolo lettore, al di là delle intenzioni dell'autore.
Possiedono una forza, le parole messe una accanto all'altra, che eccede
testo e contesto, apre su territori ancora spopolati nei quali siamo chiamati
a rintracciare segni di vita. E' una forza vitale che appare immanente,
quasi 'naturale', ma un po' misteriosa. Il linguaggio poetico attiva questa
forza con sue forme specifiche. Se deve dire il dolore dirà semplicemente
'dolore'? "So che non si può cianciare così/ dev'essere
più piccante, una pepata metafora" risponde I. Bachmann. E
subito dopo aggiunge: "Dovrebbe venire in mente. Ma con il coltello
nella schiena".
Il linguaggio poetico ha le sue forme specifiche ma anche le sue condizioni.
Dev'essere sempre consapevole di operare dentro una condizione di necessità
e di non libertà. Solo dentro questa consapevolezza può
liberare spazio e tempo. Il mondo mira a distruggere il linguaggio poetico
pur senza riuscirci mai completamente. E' come avere un coltello nella
schiena. E non si può dimenticarsene o fingere di non averlo. Il
rischio, dice la Bachmann in una poesia pubblicata nel 1961 interrompendo
il silenzio con chiari intenti poetologici , è quello di costruire:
"
immagini/ tessute nella polvere, vuoto rotolare/ di sillabe,
parole di morte". Piuttosto che correre questo rischio, quando venisse
a mancare o 'tutto' fosse contro quella assolutamente felice capacità
di associare parole a immagini, la scelta che s'impone è quella
del silenzio. Per la poeta che questo silenzio ha scelto tutte le parole
sono ormai sospette, infedeli, compromesse. Tutte le parole seminano il
drago . Tutte le parole ormai proteggono con sangue di drago i nemici
della parola poetica. Sono le parole morte di un linguaggio composto solo
di frasi fatte, parole cattive, indegne di essere usate, svuotate del
loro senso e diventate diceria e chiacchiera.
Ciò che appariva solo come una minaccia in una delle poesie della
seconda raccolta del 1956, tanto che essa si conclude con una invocazione
alle risorse ancora intatte della parola poetica di fortificare e salvare,
è divenuto invece realtà nei versi privati, destinati al
silenzio. La parola poetica "grazia di suono e di fiato", quella
che salva con la ferita mortale del coltello, a metà degli anni
sessanta sembra perduta definitivamente. "Parole non ne ho più/
soltanto rospi che schizzano/ fuori e fanno paura" . Così
come è perduta la fiducia nell'accoglienza del mondo: "sono
in questa carta e nella/ parola, che do/ e svolazzo a brandelli/ nelle
strade, di qua, di là/ qualcuno/ allora vi riavvolge il coltello/
insanguinato, perché nessuno lo/ veda" . La salvezza potrebbe
forse venire dal recupero di una maggiore aderenza della parola alle cose
dalle quali la parola che semina il drago si è allontanata: "
troppi
soli/ troppi sistemi non permettono a niente di star dritto perché/
le vie lattee e stelle e soli sempre più grandi/ rendono poco atto
ciò che siamo a farsi cosa."
La parola
e la cosa.
"Tra una parola e una cosa/ ti ci infili da sola,/ rimani stesa tra
loro come accanto a un malato/ poiché nessuna si stringe all'altra/
assapori un suono e un corpo,/ e gusti entrambi.// Ha un sapore di morte."
Le parole non sono le cose. Ma per la nostra mente le cose non sono solo
cose. Le cose hanno una loro dimensione concreta e materiale, quella che
chiamiamo il reale, ma per noi questa dimensione non è unica. Ogni
cosa vive simultaneamente dentro di noi nella dimensione che si è
convenuto di chiamare del simbolico (i significati, i valori che noi attribuiamo
alla cosa) e quella che si è convenuto di chiamare dell'immaginario
(le emozioni, i desideri, le fantasie alle quali per noi è legata
la cosa). Ed è questo intreccio di reale, simbolico e immaginario
che viene sempre evocato dalla parola, dimodoché essa rappresenta
un intero mondo di relazioni legate al nostro corpo, ai nostri valori,
alle nostre emozioni. Ogni parola è un universo. Il nostro sguardo
coglie il fiore nella sua cosalità ma lo investe contemporaneamente
della nostra soggettività. Non siamo osservatori neutrali. Il fiore
non è solo 'natura' ma è anche la nostra cultura con tutte
le sue determinazioni di spazio, di tempo, di sesso, di classe. Il fiore
è anche storia. Le forme del linguaggio poetico trovano la strada
per dire quell'intreccio tra parola e cosa. Ma se il poeta percepisce
una frattura insanabile in quell'intreccio, la parola da una parte e la
cosa dall'altra, può perdere la sua voce. Se parola e cosa non
stanno più abbracciate tra loro, come se una malattia le tenesse
separate, il poeta può solo tentare, infilandosi tra loro, di ricucire
lo strappo, di gettare un ponte, di farsi traghettatore. Certo la parola
e la cosa, separatamente, potranno continuare a esprimere una loro concretezza
materiale. E questa loro individuale materialità, la parola con
il solo suono, la cosa con la sua sola corporeità, potrà
anche essere assaporata e gustata. Ma avrà un sapore di morte.
E le parole andranno per il mondo seminando il drago.
Il riso
chiaro/scuro.
"Incrociare le razze/ perché il bianco diventi chiaro/ e il
nero scuro/ e il riso chiaro scuro" .
Il riso chiaro/scuro è quello degli dei. Un riso terribile e rasserenante.
E' quello di Apollo e Zeus. Il linguaggio poetico non tende forse ad assomigliare
a quel riso chiaro/scuro? E' il riso della simultaneità di bene
e male, luce e buio, maschile e femminile, finito e infinito, unico e
molteplice. La ragione, all'opposto, ha avuto bisogno sin qui, per orientarsi
nel mondo, di fissare schemi e categorie, organizzare ordini ma soprattutto
distinguere principi su versanti rigorosamente opposti. Tutto il bianco
da una parte, tutto il nero dall'altra. La luce da una parte, il buio
dall'altra. E così per il bene e il male, ecc. Le coppie oppositive
che fondano la logica binaria del razionalismo da Pitagora a Hegel formano
lo schema collaudato con il quale impariamo a organizzare il mondo. Un
sistema che, da metodo per orientarsi, rischia sempre di indurre la mente
a fondare separatezze definitive e totali. Con ricadute nefaste nella
nostra cultura. L'arte greca, che ha fissato nelle statue degli dei quel
riso chiaro/scuro, e la poesia stessa non continuano forse a dire l'intreccio,
la compresenza di bene e male, luce e buio, maschile e femminile? Non
dicono forse che ciò che la ragione fissa come unico e finito è
anche molteplice e infinito? Esse superano le divisioni che la ragione
pone e introducono a una dimensione che può apparire misteriosa
e oscura. Il chiaroscuro moltiplica realtà e differenze. L'arte
e la poesia esplorano il paradosso. Ma c'è da chiedersi che cosa
sia più paradossale, se esplorare la compresenza, l'inclusione,
la contaminazione oppure praticare la divisione, la separatezza, l'esclusione.
Stanno dentro queste ultime dimensioni le parole che seminano il drago.
Verrebbe da dire che l'arte e la poesia prospettano all'umanità
un diverso modo di relazionarsi. Utopia o istanza etica? Forse un po'
l'una e l'altra. Nei versi silenziosi e urlanti dell'io lirico della Bachmann
che si interroga sulle possibilità di sopravvivenza della sua poesia
sono tensioni ugualmente presenti. Non a caso i versi citati a inizio
paragrafo portano il titolo Terra nova.
E del resto anche la scienza esplora il paradosso. Esplora il sogno, dove
io e tu, prima e dopo, l'al di qua e l'al di là da un punto possono
coincidere. Dove cioè il tempo, da linea retta unidirezionale si
fa spirale, dove l'identità si fa molteplice, dove la geometria
euclidea mostra limiti. Viene in mente quella pagina dello Zibaldone dove
il più grande poeta e pensatore dell'Ottocento ci avverte che il
suo modo di pensare, la sua filosofia, lo ha portato a mettere in dubbio
persino la validità del principio di identità e di non contraddizione,
quello secondo il quale la stessa cosa non può essere e non essere
nello stesso tempo. La poesia, viene da dire, incrocia i postulati della
ragione. La poesia è esperienza di una soglia, dello stare sui
difficili confini del chiaro e dello scuro.
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