Laura Capobianco e Maria Antonietta Selvaggio (cura)
Luoghi della memoria, memoria dei luoghi
Le donne di Bacoli ricordano e raccontano

Iaia de Marco


Questo numero della rivista “Meridione” raccoglie i materiali della Scuola estiva delle donne, tenutasi a Bacoli nel settembre 2016. Il nome stesso della Scuola ci dice molto sulla interrelazione tra i luoghi e chi li abita trasformandoli e facendosene trasformare. Ci dice di quanto, senza arrivare a considerarli un destino, né tantomeno voler alludere a un qualche determinismo geografico, i luoghi in cui si nasce o si vive segnino le persone, almeno quanto generazioni di esse - nel tempo, nella Storia, quindi - abbiano segnato e segnino loro. L’influenza del luogo non è estranea neanche alla sfera emotiva, a un certo modo di sentire e di sentirsi. È questo un aspetto col quale, da lusitanista, sono in confidenza e che ho sentito echeggiare sonoramente nei contributi e nelle testimonianze raccolte in questo numero della rivista “Meridione”.

Penso a quello che Eduardo Lourenço, intellettuale, critico letterario e pensatore portoghese, definisce “il trauma della perdita del passato mitico”. Un passato che, per la sua terra, è l’epoca delle cosiddette scoperte geografiche, dei portoghesi che tra il XV e il XVI secolo “aprono il mondo al mondo”. Per Bacoli, una storia lunga di centralità e prestigio che “va dall’arrivo dei primi coloni greci all’insediamento dei Romani che qui costruirono palazzi imperiali, nobiliari, infrastrutture, porti commerciali e militari”, come ricorda Adelaide Miriana nel suo articolo Bacoli, splendori e miserie di un luogo antico, cui fa eco Oscar Poerio (Tra mito e storia) che cita nel novero di questi splendori la Piscina Mirabile, “simile a una cattedrale a quattro navate”.

Una ricchezza materiale e culturale cui ha dato il suo contributo anche la precoce e lunga presenza di ebrei di cui sono ancora ben riconoscibili le tracce in nomi, cognomi e in alcune tradizioni, puntualmente esposti da Elio Guardascione nel suo Tradizioni e usi degli ebrei di Bacoli.


Per riprendere la simmetria con il Portogallo, dobbiamo considerare ora un altro aspetto, quello della “distanza fisica” dai centri; in scala, per il Portogallo, estremo lembo occidentale, di cui si dice che dia le spalle all’Europa, e per Bacoli, raggiungibile “a fatica dagli stessi abitanti della città di Napoli” nelle parole di Adelaide Miriana, (ma il ragionamento vale per tutta l’area, la regione, il Meridione, l’Italia intera). Questa distanza genera fenomeni tipici, quali un sentimento fortemente e gelosamente identitario e, al tempo stesso, un sentimento di minorità, dovuto all’attenuazione dell’onda d’urto di modernizzazione e sviluppo che si è prodotta altrove e arrivata qui debole, insufficiente.

Questo sentimento è una sorta di nostalgia per quanto avrebbe potuto essere e non è stato, rimpianto immedicabile del passato e rammarico per un futuro inadeguato, che è poi la perifrasi con cui rendiamo l’intraducibile parola portoghese “saudade”.


Le intermittenze della Storia, qui nei Campi Flegrei, oltre alle congiunture economiche internazionali, sono dovute a cause inerenti alla loro stessa natura fisica. Già nell’Alto Medio Evo, Bacoli attraversa una fase di decadenza, anzi di vero e proprio abbandono, a causa dell’impaludamento delle coste, effetto del bradisismo discendente, e dell’inselvatichimento del territorio.

Una certa ripresa si avrà tra il XV e il XVI secolo; “nel periodo del Viceregno spagnolo il territorio si rianima, le terme tornano a fungere da attrattore, in verità più Baia che Bacoli” nota Guido D’Agostino nel suo contributo che, non a caso, intitola “Bacoli: una storia difficile”, nel quale ricorda anche due momenti particolari: nel 1799, all’epoca della repubblica giacobina di Napoli “i bacolesi, con misenesi, cappellesi, procidani, vengono implicati negli scontri con la Marina inglese , battendosi con coraggio e abilità guidati dall’ammiraglio Caracciolo […]”.

Il mare è, con tutta evidenza, un elemento profondamente legato alla vita e alle vite di questi luoghi.

Per secoli, riassume Adelaide Miriana, “l’economia di Bacoli è rimasta legata al mare e all’agricoltura: un mare pescosissimo e un terreno particolarmente fertile hanno permesso agli abitanti di vivere e costruire radicate tradizioni marinare e contadine, che hanno preservato la bellezza del paesaggio e le preziose testimonianze dell’antichità”, malgrado la pratica diffusa della “copertura” con cui piccoli e grandi costruttori hanno occultato emergenze archeologiche, nel timore di vedersi confiscata la proprietà. I grandi insediamenti industriali e lo sfrenato abusivismo edilizio, hanno alterato un paesaggio di rara bellezza, una bellezza che qui è più fragile e instabile, bisognosa di tutela e rispetto che un turismo consumistico, come quello che ne assalta vie e spiagge periodicamente, non sembra essere in grado di riservarle.

Eppure, la vocazione turistica è richiamata in tutte le interviste, dai ricordi delle proprie abitazioni lasciate libere d’estate per affittarle ai villeggianti, al costo (nel ricordo, non particolarmente gravoso) di dormire sulla spiaggia o tra i ruderi della tomba di Agrippina, fino alla speranza che il turismo possa diventare il motore di sviluppo per la città e il futuro dei giovani.

D’altra parte, il tema è evocato già nell’introduzione della rivista, dai ricordi di Laura Capobianco che confida di aver scelto Bacoli come sede della scuola estiva nel 2016 “per un antico rapporto di affetto e di passione che legava alcune di noi docenti al territorio flegreo: parliamo, infatti, del luogo ameno della villeggiatura della nostra giovinezza, un tempo che non conosceva ancora il chiasso e il consumismo attuale”.


Poi c’è una storia trasversale a tutta la Storia, la storia delle donne di cui, molto opportunamente, Maria Rosaria Pelizzari ricostruisce il cammino lungo due secoli, che vede al centro la relazione donna-lavoro, come determinante nel processo identitario femminile e da cui deriva il tema, altrettanto centrale, della faticosa conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, questione che il titolo del suo contributo rende icasticamente: La doppia vita delle donne.

Vorrei raccomandare la lettura di questo articolo in particolare alle ragazze e ai ragazzi, perché, a mio avviso, fornisce le coordinate necessarie alla comprensione di processi complessi, per loro natura, e complicati da una pervicace ostilità di genere, più o meno consapevole.

Mi sono servita della metafora “coordinate” per coerenza con la categoria spaziale dei luoghi in cui la lettura di questa rivista ci immerge, e perché mi sembra adeguata a rappresentare la funzione di orientamento preciso che il saggio di Pelizzari svolge, eguagliando l’indicazione di latitudine e longitudine.

Tuttavia, le coordinate, pur rappresentando esattamente un punto, non ci mostrano i colori, la natura, i profumi, la “polpa” dei luoghi. Per conoscerli davvero dobbiamo raggiungerli, entrarvi dentro.

Ed è ciò che fanno le storie di donne (anziane e molto anziane) raccolte da giovani ricercatrici e raccontate nel volume. Accade così che i movimenti globali si traducano in storie incarnate nei volti, nelle mani, nelle anime, che prendono forma nei ricordi delle protagoniste.

A guidarci nella lettura di questa particolare storiografia che definirei biografica, è Maria Antonietta Selvaggio che, pur mettendo in guardia dagli inganni della memoria con le sue scrupolose avvertenze metodologiche, evidenzia il potenziale cognitivo della soggettività, come “luogo” dove la storia si traduce in esperienza concreta, materiale, eppure emotiva, razionale, spirituale.

Nel suo Memorie biografiche tra tempo vissuto e tempo raccontato Selvaggio commenta e interpreta il corpus delle interviste, ordinando i materiali raccolti in categorie sociologiche che, grazie a una prosa felice, perdono la freddezza scientifica per parlarci di queste vite connotate da “un’infelicità contenuta, imbrigliata, disciplinata” da un’attitudine al sacrificio di sé che ci colpisce per la ricorrenza costante. E ci interroga, anche. Per quanto, nel ricordo di Angela, un lampo di sana ribellione graffi il quadro raggelato della sottomissione, quando, in reazione a un tentativo di aggressione del marito, la donna racconta di avergli sbattuto la testa contro il frigorifero. Con sollievo dei figli e immediata riduzione del coniuge a miti consigli.

Altra costante è la fatica fisica che a Selvaggio sembra l’ecfrasi di “Bestie da soma” un dipinto del 1886 di Teofilo Patini che ritrae, appunto, alcune donne sfiancate dal duro lavoro. Un’immagine forte e necessaria per dar conto di una condizione di sfruttamento che perdura, da un secolo che sembra lontano all’altro.

Un’ultima notazione prima di chiudere, cito dal contributo di Maria Antonietta Selvaggio che, commentando le parole irridenti di un’altra intervistata nei confronti del marito, osserva: “Espressioni, queste, in cui risuona la subalternità di un’antica cultura popolare (non solo femminile) che nella satira e nel dileggio trova sfogo senza scalfire l’ordine stabilito, anzi rinsaldando la propria complicità e dipendenza rispetto a quell’ordine”.

Analisi che, ovviamente, condivido, ma che vorrei problematizzare, proponendo una domanda: c’è davvero solo uno sfogo dentro l’espressione irrisoria e sminuente del dominante, o non c’è forse, anche, l’oscura consapevolezza di appartenere a un altro ordine? Quello di chi si occupa delle cose davvero importanti come riprodurre, quotidianamente, la vita?



Laura Capobianco e Maria Antonietta Selvaggio (cura)

Luoghi della memoria, memoria dei luoghi Le donne di Bacoli ricordano e raccontano

“Meridione. Sud e Nord nel Mondo”

Rivista trimestrale diretta da Guido D’Agostino

Anno XIX Numero 1, 2019

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