I diritti delle bambine: oltre il
politicamente corretto
di Cristina Degan
Nel corso del
tempo la rivendicazione dei diritti è andata estendendosi. Le Carte si
sono precisate, ma i principi, di volta in volta riaffermati, non hanno
dato, e non danno molti frutti, come se le parole siano destinate a
riempire un vuoto, a tranquillizzare le coscienze con delle buone
intenzioni a cui non importa seguano trasformazioni reali dell’esistente.
Va così
diffondendosi una certa sfiducia sul tema dei diritti in generale, perché
le affermazioni di principio continuano a scontrarsi con una pratica
opposta.
A cominciare
dagli Stati promotori e firmatari ogni giorno si verifica che il diritto
alla vita, alla libertà, all’uguaglianza, dati per scontati in una
tradizione ormai secolare, scompaiono dalla scena ogni volta che entrano
in gioco interessi di parte. Puntualmente i più deboli hanno la peggio.
Di volta in
volta si negano i diritti dei paesi meno sviluppati, delle minoranze,
delle donne, dei bambini, in una gerarchia di rapporti che provoca la
sopraffazione di chi non è in grado di difendersi. In tal senso la
questione dei diritti va ripensata per evitare che diventi una
celebrazione dell’impotenza.
Quando si
riaffermano i diritti delle donne, piuttosto che dei bambini o dei
disabili, si rischia di ripetere cose già dette con un tocco di
gentilezza, di correttezza politica in più: dovremmo invece provare a
rimettere in discussione il punto di partenza, lavorando perché i diritti
siano veramente ‘di’ e non degli auspici ‘per’, costruendo pazientemente
percorsi che abbiano come principio irrinunciabile la consapevolezza di
sé, della propria individualità.
Raramente si
arriva a praticare un diritto senza ricorrere ad una prova di forza,
spesso si dimentica che tale forza è nella coscienza della propria
irripetibile identità, costituita dall’essere una persona, un individuo
che ha un corpo ed un sesso e non sta nell’apparato militare. Quali sono,
allora, i diritti delle bambine che stanno inevitabilmente nel punto più
basso della scala su cui si misura il potere grazie al quale si pretende
di ottenere il rispetto dei diritti stessi?
In una vecchia
canzone di lotta del secolo scorso il ritornello ripeteva “Sebben che
siamo donne paura non abbiamo, abbiam delle belle e buone lingue, abbiam
delle belle e buone lingue”: era un invito deciso, diretto a far uso
della potenza della parola capace di render forte il sesso debole!
E’ proprio sul diritto ad esercitare la
parola, ma soprattutto ad appropriarsi delle parole, ad inventare un
linguaggio nuovo, il punto su cui provare a riflettere come condizione
perché chi è più debole, e le bambine lo sono, abbiano diritti su cui
possano davvero far affidamento.
Forse sembra
fuori posto mettere al primo posto il diritto ad un altro linguaggio,
quando le statistiche ci ricordano come in numerosissimi Stati nascere
femmina, anche nel tempo presente, è una vera disgrazia. Sfruttamento,
prostituzione, stupri dall’Africa all’estremo Oriente, dal Nord al Sud del
mondo: ma sono proprio le nostre parole che devono denunciare e possono
cambiare.
In nome di
tradizioni e usanze insostenibili, che violano e fanno scempio del corpo
di bambine e giovani donne, altre donne compiono orrende mutilazioni.
Eppure solo con le parole ‘giuste’, non certo con l’uso delle armi,
aggiungendo sofferenza a sofferenza, si può spiegare – e abolire - la
vergogna di tanti riti che affondano le radici in una realtà primordiale;
si può provare a influire sulle politiche di paesi che opprimono donne
grandi e piccole.
In Cina sono centinaia di migliaia di
bambine abbandonate per strada: le giovani coppie, condizionate dalla
necessità politica di esercitare il controllo delle nascite, possono avere
al massimo due bambini, perciò, quando il primo è femmina preferiscono
liberarsene per lasciare posto al secondo che – sperano – maschio, solo
lui, potrà lavorare nelle risaie ed avere, credono, contatti spirituali
con gli antenati, mediante il culto dei morti. Non ci sono luoghi di
accoglienza per le bambine a cui la riduzione delle spese pubbliche nega
anche il sostentamento da parte degli orfanotrofi. Le piccole che hanno la
colpa si essere nate femmine vengono eliminate oppure sono costrette ad
una vita di abusi e sofferenze.
Ed ancora accanto alla terribile realtà
delle bambine cinesi ci sono le infinite storie di sfruttamento e miseria
che riguardano i bambini, i ‘children’ di tutto il mondo, ma che – ovunque
- trovano una specifica sofferenza di genere: sono le piccole prostitute
tailandesi, le raccoglitrici di rifiuti filippine, le bambine senza tetto
di Calcutta oppure di Lima: tutte quante aggiungono alla loro condizione
diseredata, l’aggravante dell’essere femmine. Dove non si fa una politica
di contenimento delle nascite, si ripetono i comportamenti di sopruso e
violenza del debole sul più debole. Si tratta di orrori e barbarie che
infieriscono sulle bambine, perché indesiderabili.
Anche in Italia, che pure appartiene
all’area dello sviluppo, dove si fanno campagne in difesa della vita e
continuamente viene ribadito che non ci sono differenze di trattamento tra
maschi e femmine, in nome delle ‘pari opportunità’, vediamo che la
facciata cela una realtà diversa, ma che perfino il vissuto individuale,
dei genitori e dei parenti, non solo quello sociale è estremamente
contraddittorio.
Nel nostro paese, afflitto da scarsa
natalità, quando ci annunciano una nuova nascita qual è l’augurio che
segretamente formuliamo: “Speriamo che sia femmina…oppure…auguri
e figli maschi”?
Che posto
occupa nelle aspettative dei futuri genitori il desiderio di una figlia?
Ancora oggi se nasce una bambina a molti
sembra un obiettivo mancato, un ripiego cui fare buon viso: il patriarcato
va finendo, così si dice, e sicuramente ha perso prestigio e autorità, ma
continua a lasciare ampie tracce.
In fondo in
fondo resiste la convinzione che avere un bambino sia preferibile: il
mondo, si sa, va in un certo modo, e anche là dove si è evoluto è ancora
profondamente convinto che maschio sia meglio.
Vale la pena richiamare alla memoria le
frasi della nostra infanzia, non del tutto passate di moda che, pur con
un’analisi superficiale, rivelano in molte espressioni dedicate alle
bambine una forma ricorrente di rammarico, di svalutazione se non di
misoginia, dal già ricordato ‘Auguri e figli maschi’… a ‘Nottata persa e
figlia femmina…
Se la parola ci permette di comunicare e le
nostre differenze si rivelano nei termini che scegliamo per esprimerci,
per descrivere i nostri sentimenti, per dar voce ai nostri pensieri allora
non è indifferente, anzi è un diritto rivendicare parole precise, ‘al
femminile’.
Potremmo indire
un concorso (oppure accontentarci di una gara fra amici o di un gioco in
famiglia) per premiare chi trova nel minor tempo possibile il maggior
numero di modi dire o espressioni proverbiali condite con il pregiudizio
sessista.
Vale la pena
cimentarsi nella prova…e regione per regione, paese per paese, continente
per continente… il materiale a disposizione continuerà ad aumentare...
Possiamo
provare anche con i passatempi, ad esempio con quelli delle carte: fra i
più comuni e più semplici, adatti a grandi e piccini, occupa un posto
importante la Pepa tencia, che ‘tradotto’ sta per la Giuseppina sporca,
che equivale a brutta e, di conseguenza cattiva, nonché vecchia.
Se ci
ritroviamo in mano l’orribile carta non solo abbiamo la prova che la
sfortuna ci perseguita, ma alla fine del gioco, quando ancora non ci siamo
liberati della Pepa (raffigurata dalla donna di picche, immagine simbolica
di un mondo definito, da tempo indefinito, dall’appartenenza di genere)
veniamo eliminati.
Un gioco che
prepara ad accettare un modo d’intendere la vita, che riassume tanti
luoghi comuni e ripropone, in controluce, il mito classico della prima
donna, quello di Pandora.
All’inizio
c’era Pandora, fanciulla bellissima…che già nel suo nome si porta la
condanna a cui il suo genere sarà destinato, infatti Pandora significa
‘tutti i doni’. La giovane recava con sé la ricchezza della realtà, la
molteplicità e la diversità di ciò che esiste, il positivo e il negativo:
la vicenda umana per cui ogni dono si trasforma nel suo contrario e il
bene non si divide dal male.
Nel mito
affondano le radici di un pregiudizio di cui si nutre l’immaginario
tramandato di generazione in generazione e alimenta i peggiori luoghi
comuni…”chi dice donna…”
L’immaginario comune, i richiami simbolici –
anche quando vengono votate le carte più solenni, a partire dalla
dichiarazione dei diritti dell’uomo e poi tutte le altre - non se ne va,
si allontana soltanto e immediatamente dopo esercita nella pratica
l’opposizione più dura alla solenne definizione teorica dei diritti in
questione.
Pertanto parlare di diritto ad un altro
linguaggio come del primo diritto da rivendicare per le bambine, significa
sottolineare che il diritto alla vita non riesce ad essere pienamente
realizzato se è solo biologico e non si precisa nell’identità di un
individuo unico e originale.
Nella lingua
inglese esiste uno slogan ‘save the children’ , ma è un’ambiguità
lessicale che in italiano viene subito evidenziata perché non abbiamo il
genere neutro. Al posto di un soggetto indifferenziato usiamo un maschile
oppure dobbiamo mettere due diversi soggetti, di genere maschile e
femminile, perché il neutro non è tale se non per la grammatica…le
parole si appropriano delle cose e il genere che dà il nome esercita la
sua potenza.
Infatti in una
serie di termini ne basta uno solo maschile per prendere il sopravvento: è
il più importante, mettiamo che si parli di mele, pere, e uva, se ci sono
fichi, sono tutti dolcissimi!
Quella
concordanza è l’unica corretta (e anche se ci sono spiegazioni convincenti
per la grammatica) per la pratica una considerazione si impone: maschile è
meglio, si afferma prepotentemente anche in presenza di frutta di genere
prevalentemente femminile.
Finalmente
quando nel compito di italiano la maestra non si indignerà se troverà
scritto “Lia e Luca sono andate”, ed invece con pazienza si metterà
a parlare della lingua, chiedendosi come faceva Alice nel paese delle
meraviglie “Chi è il padrone della lingua?” forse ci sarà una diversa
visione del diritto che ciascuno ha di essere se stesso, cominciando dalle
bambine, cominciando dalla modalità di indicare il plurale fra generi.
Non ci deve
essere più posto per l’identità neutra: l’identità è sessuata in quanto
diritto all’identificazione con se stessi, scoprendo il proprio corpo e le
sue caratteristiche, nominando tutte le sue parti senza falsi pudori.
Un cammino
difficile, per assenza di genealogia femminile che faccia da riferimento a
chi cresce e si trova a che fare con mamme spesso avvilite dal senso di
inadeguatezza nello sforzo di soddisfare ogni richiesta.
Come ritrovare
la rotta?
La pratica del
movimento femminista ha insegnato e insistito sul partire da sé: ora
dobbiamo riconoscere lo stesso diritto a bambine che crescono in un ambito
in cui sono stati rifiutati i vecchi schemi. Quando donna era sinonimo di
moglie, madre, angelo del focolare, risultava più facile prendere
posizione, dire di sì o di no, ma quel modello per le bambine non c’è più
.
C’è la libertà
di scegliere, ma anche la paura, lo sconcerto, l’incertezza.
Resta il
diritto di scoprirsi sole e nello stesso tempo il diritto ad avere un
grembo materno che faccia da culla accogliente e calda, il diritto ad un
confronto appassionato e critico ‘Voglio stare con te, ma non voglio
essere come te perché tu sei irripetibile come lo sono io’.
Il diritto a
conoscere, per prove ed errori, il senso e il significato dell’avventura
di vivere.
Il diritto di
mettersi alla prova per costruire una mediazione col mondo che
sappia scoprire figure simboliche femminili; il diritto a rifiutare e a
reinventare le fiabe tradizionali.
Il diritto ad
essere se stesse, senza qualità precostituite, ma capaci di far proprio il
senso di responsabilità e la dolcezza: non perché “sei una donnina”, ma
semplicemente perché sono ‘io’.
Né piccole
donne né donne in piccolo, il diritto di essere solo piccole,
faticosamente determinate ad avere coscienza di sé, per riuscire a
ricucire pensiero e affettività, per ottenere consenso, ma rivendicare
divergenza e non accontentarsi di ogni facile omologazione.
Il diritto a
rendersi visibili senza essere oggetti, dando parole alle riflessioni e ai
pensieri.
Il
diritto a entrare in contraddizione con se stesse, provando a misurarsi
con la fatica di diventare grandi in autonomia e libertà.
Insomma – come
diceva una grande scrittrice, Virginia Woolf – basterebbe vedere
realizzato il diritto ad avere una stanza tutta per sé, se ciò
significa avere uno spazio proprio, inviolabile, per entrare in colloquio
con se stesse e trovare le parole ‘giuste’ e scoprire il percorso da
seguire senza dover accettare una pianificazione voluta per il ‘tuo bene’
- che fa di te una donna in carriera o una brava mogliettina - ma una
persona che si inventa il progetto di vita, per affrontare la pluralità
del mondo con tutti i suoi colori – senza escludere il rosa.
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