La
banalità del male
di Donatella Bassanesi

Abbiamo sentito
usare comunemente in queste giornate della memoria la definizione di banalità
del male per lo sterminio nei campi di concentramento nazisti.
È una definizione che dobbiamo all'analisi a cui Hanna Arendt è
arrivata seguendo nel 1961 il processo Eichmann come corrispondente del
giornale The New Yorker (pubblicata come libro nel 1963 col titolo Eichmann
in Jerusalem. A Raport on the Banality, of Evil, tr. It. La banalità
del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1964).
Hanna Arendt,
osservando attentamente l'imputato, si direbbe raccolga prove intorno
alla banalità e al suo trasformarsi nel male, del male come derivato
della banalità. Eichmann, che si evidenzia non per eccezionalità
ma per medietà, diventa esempio di come il male, quando risulta
da conformismo, non sia meno ma molto più pericoloso, diffuso,
proprio perché è generalmente accettato come normalità,
e in quanto tale ritenuto accettabile, in certi casi considerato segno
di comprensibile debolezza umana.
Il caso Eichmann, d'altra parte, segnala un punto di arrivo di quella
forma di totalitarismo che fu nazismo e fascismo, va letto sottolineando
le analogie presenti nella società di massa (che proprio nel totalitarismo
ha le sue radici).
Vediamo prima
di tutto il valore dato alla propaganda.
Gli slogan (Himmler li conia per i comandanti degli Einstzgruppen, i comandanti
superiori degli SS e della polizia), l'apparato e il linguaggio burocratico
volevano dare il senso di precisione, concretezza e specialmente di necessità
di eseguire gli ordini.
Eichmann
si ritiene concreto e oggettivo. Parla dei campi di concentramento con
il termine 'amministrazione', dei campi di sterminio con il termine 'economia'
- la 'concretezza' "era tipica della mentalità delle SS, ed
era una cosa di cui Eichmann, al processo, si mostrò ancora quanto
mai fiero. Grazie ad essa, le SS si distinguevano da certi tipi 'emotivi'
(
), 'poveri idioti' che non avevano una visione realistica, e anche
da certi 'pezzi grossi teutonico-germanici' del partito, che 'si comportavano
da caproni'" (H. Arendt, ibid. p. 77).
Bisognava
impressionare gli uomini, da trasformare in assassini, con "l'idea
di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo".
"Questo era molto importante, perché essi non erano sadici
o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzavano sempre, sistematicamente,
di mettere in disparte tutti coloro che provavano un godimento fisico
nell'uccidere". "Perciò il problema era quello di soffocare
non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva,
animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica
degli altri. Il trucco usato da Himmler (che a quanto pare era lui stesso
vittima di queste reazioni istintive) era molto semplice, e, come si vede,
molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti, per così
dire, verso l'io. E così, invece di pensare: che cose orribili
faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo
vedere nell'adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle
mie spalle!" (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 113-114).
Così si camuffavano. L'orrore veniva occultato attraverso un processo
di autorappresentazione come artefice in un certo senso chiamato a una
causa superiore. Una finzione di sublimazione, una esaltazione dell'io,
valevano a fare accettare l'esercizio di comportamenti assolutamente disumani,
servivano infine a nascondere all'individuo che esiste la possibilità
di 'non partecipazione' (decisiva quando si comincia a giudicare non il
sistema, ma l'individuo, le sue scelte e le sue ragioni).
Dice Eichmann:
'Aver resistito sino alla fine ed essere rimasti puliti, questo è
quello che ci ha induriti. È una pagina di gloria che non era mai
stata scritta nella nostra storia e che mai più lo sarà'.
'L'ordine di risolvere la questione ebraica: questo era l'ordine più
spaventoso che un'organizzazione potesse ricevere'. 'Un compito gravoso,
che si presenta una volta ogni duemila anni'. E sottolinea che ciascuno
sembrava diventare indifferente alla morte, anche alla propria. 'Non ci
importava morire oggi invece che domani, e talvolta maledivamo la luce
del nuovo giorno che ci trovava ancora in vita' (cit. in H. Arendt, ibid.
p. 114).
Così "soltanto tra di loro i 'depositari di segreti' potevano
parlare liberamente, senza ricorrere al linguaggio convenzionale".
Nella corrispondenza veniva usato un gergo. Che "fu di enorme utilità
per mantenere l'ordine e l'equilibrio negli innumerevoli servizi la cui
collaborazione era essenziale".
"Invece di dire uccisione si dovevano usare termini come 'soluzione
finale', 'evacuazione' (Aussiedlung) e 'trattamento speciale' (Sonderbehandlung);
invece di dire deportazione bisognava usare parole come 'trasferimento'
o 'lavoro in oriente' (Arbeitseinsatz im Osten), oppure, se si parlava
di persone dirette a Theresienstadt ( il cosiddetto 'ghetto dei vecchi',
per categorie privilegiate di ebrei), si doveva dire 'cambiamento di residenza",
in modo da dare l'impressione che si trattasse di provvedimenti temporanei".
(ibid. p. 93).
Eichmann
si considera idealista.
"I suoi primi contatti personali con funzionari ebrei, tutti sionisti
di vecchia data, furono pienamente soddisfacenti. Eichmann spiegò
che la ragione per cui la 'questione ebraica' lo affascinava tanto era
il proprio 'idealismo'. Anche quegli ebrei, a differenza degli assimilazionisti,
da lui sempre disprezzati, e degli ortodossi, che lo annoiavano, erano
'idealisti'. Essere 'idealisti', secondo Eichmann, non voleva dire soltanto
credere in un''idea' oppure non rendersi rei di peculato, benché
questi fossero requisiti indispensabili; voleva dire soprattutto vivere
per le proprie idee (e quindi non essere affaristi) ed essere pronti a
sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti. Quando in
istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a morte suo padre se così
gli fosse stato ordinato, non intese soltanto mostrare fino a che punto
era soggetto agli ordini e pronto a obbedire; volle anche mostrare fino
a che punto era sempre stato 'idealista'" (H. Arendt, ibid. p. 49).
Non si sente
antisemita.
Dice di non nutrire sentimenti di avversione verso le sue vittime, e non
ne fa mistero. Racconta come ancora nel 1944 si fosse trovato ad aiutare
amici ebrei: 'La figlia nata da questo matrimonio, mezza ebrea secondo
le leggi di Norimberga,
venne a trovarmi per ottenere da me il
permesso di emigrare in Svizzera; e anche quel mio zio venne a trovarmi
per chiedermi d'intervenire in favore di alcune coppie di viennesi ebrei.
Accenno a questi fatti soltanto per mostrare come personalmente non odiassi
gli ebrei, giacché tutta l'educazione che avevo ricevuto da mia
madre e da mio padre era rigorosamente cristiana; mia madre, che aveva
parenti ebrei, aveva idee diverse da quelle che dominavano negli ambienti
delle SS' (cit. in: H. Arendt, La banalità del male, cit. p. 38).
E questo non gli impedisce nel febbraio del 1939 di convocare a Vienna
(per spiegare il suo metodo di 'emigrazione forzata') i capi ebraici tedeschi
(con i quali aveva in precedenza tenuto un comportamento corretto) ricevendoli
in modo estremamente arrogante: Franz Meyer racconta: "dissi ai miei
amici che non ero certo che fosse proprio lui. Tanto terribile era il
cambiamento
qui trovai un uomo che si comportava come il signore
della vita e della morte. Ci ricevette con fare insolente e rude. Non
permise che ci allontanassimo dal suo tavolo. Dovemmo restare in piedi"
(cit. in: H. Arendt, La banalità del male, cit. pp. 72-73).
Vediamo che
Eichmann ha mentalità da gregario.
Così l'8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania,
"fu per lui un tragico giorno soprattutto perché da quel momento
non avrebbe più potuto esser membro di questo o di quell'organismo.
'Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei
più ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più
stati trasmessi ordini e comandi, non avrei più potuto consultare
regolamenti - in breve, mi aspettava una vita che non avevo mai provato'"
(H. Arendt, Eichmann in Jerusalem A Raport on the Banality of Evil, 1963,
tr. it. La banalità del male Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli,
1964, 1993, p. 40).
Ne consegue che "era veramente incapace di pronunziare frasi che
non fossero clichés". Disse: "il linguaggio burocratico
(Amtsprache) è la mia unica lingua" (ibid. p. 56).
È
quasi totalmente incapace di vedere le cose dal punta di vista degli altri.
"A questo proposito dichiarò che lui, i suoi uomini e gli
ebrei 'si appoggiavano' a vicenda, e che i funzionari ebrei, quando incontravano
qualche difficoltà, correvano da lui per 'sfogarsi', per riferirgli
tutte le loro preoccupazioni e per chiedergli aiuto. Gli ebrei 'desideravano'
emigrare, e lui, Eichmann, era lì ad aiutarli, dato che le autorità
naziste, dal canto loro, avevano espresso il desiderio di vedere il loro
Reich judenrein, 'ripulito dagli ebrei'. I due desideri coincidevano,
dunque, e lui poteva 'render giustizia a entrambe le parti'" (ibid.
pp. 55-56).
Tutto ciò concorre a legittimare la menzogna e si legittima con
uno stato generale di menzogna.
"Ad Eichmann bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro di
non star mentendo e di non ingannare se stesso, e questo perché
lui e il mondo in cui aveva vissuto erano stati, un tempo, in perfetta
armonia. E quella società tedesca di ottanta milioni di persone
si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente con gli stessi
mezzi e con gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la stessa
stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann.
Queste menzogne cambiavano ogni anno, e spesso erano in contraddizione
tra loro; inoltre non erano necessariamente uguali per tutti i vari rami
della gerarchia del partito o della popolazione. Ma l'abitudine d'ingannare
se stessi era divenuta (
) comune, quasi un presupposto morale per
sopravvivere" (ibid. pp. 59-60).
Vuole fare
carriera.
Se per un verso si può cercare di dare una spiegazione con l'incoerenza
e il ricorso a frasi vuote - sosteneva di essere molto diverso dai suoi
colleghi: 'sguatteri' per i quali tutto era deciso 'da paragrafi, ordini,
e non s'interessavano d'altro', ossia erano delle 'rotelle' (ibid. 65),
che è propriamente la tesi della sua difesa - per un altro la molla
sta nell'esaltazione di sé, che passa attraverso il far carriera.
Nel febbraio del 1939 "a Vienna aveva dato prova di decisione, e
ora veniva riconosciuto non solo un 'esperto in questioni ebraiche', cioè
negli intrighi delle organizzazioni ebraiche e dei partiti sionisti, ma
anche una 'autorità' in fatto di emigrazioni e di evacuazione,
il 'maestro' che sapeva come va smistata la gente" (H. Arendt, La
banalità del male, cit. p. 73).
E la carriera, le quattro promozioni che ebbe tra il 1937 e il 1941, accresce
l'immagine che ha di sé. Dirà, quando la guerra stava per
finire: 'salterò nella tomba ridendo'; e, al momento del processo
"sarò lieto quando mi impiccherete in pubblico, come monito
per tutti gli antisemiti di questa terra' (ibid. p.61).
Sempre per fare carriera si adopera per la risoluzione della questione
ebraica che doveva avvenire con l'evacuazione dagli Stati di provenienza
e la concentrazione in una terra che sarebbe diventata lo 'Stato ebraico'.
Individua prima 'una zona più vasta possibile, in Polonia, da staccare
e costituire in uno stato ebraico autonomo, in forma di protettorato'
(cit. in: H. Arendt, La banalità del male, cit. p. 82) (di cui
presumibilmente avrebbe voluto diventare governatore).
Poi sostiene il progetto del Madagascar (che confonde con l'Uganda). "Il
piano di evacuare quattro milioni di ebrei dall'Europa e di trasportarli
nella grande isola francese al largo delle costa sud-orientale dell'Africa
(592.353 kmq di terra povera, con una popolazione indigena che era allora
de 4.370.000 abitanti) era stato elaborato dal ministero degli esteri
del Reich e poi trasmesso all'RSHA perché (
) soltanto la
polizia 'possedeva l'esperienza e i mezzi tecnici per effettuare un'evacuazione
in massa di ebrei e per garantire la sorveglianza degli evacuati'"
(H. Arendt, La banalità del male, cit. pp. 83-84). Quando poi il
progetto del Madagascar fu abbandonato Eichmann rimase 'amareggiato e
deluso'.
Eichmann, diventato esperto in materia di emigrazione, nell'ottobre del
1939 è chiamato a Berlino come capo del Centro nazionale per l'emigrazione
degli ebrei. Ma non fu una promozione, al contrario.
"Nessuna persona di buon senso poteva più pensare di risolvere
la questione ebraica con l'emigrazione forzata; a prescindere dalla difficoltà
di trasferire gente da un paese all'altro in tempo di guerra, il Reich,
con l'occupazione dei territori polacchi, si era venuto a trovare con
quasi due milioni e mezzo di ebrei in più. È vero che il
governo hitleriano era sempre disposto a lasciar partire i suoi ebrei
(l'ordine che arrestò definitivamente l'emigrazione ebraica venne
solo due anni più tardi, nell'autunno del 1941; ed è vero
che, ammesso che già fosse stata decisa una qualche 'soluzione
finale', nessuno aveva ancora impartito ordini in questo senso, sebbene
nelle regioni orientali gli ebrei già fossero concentrati in ghetti
e già venissero liquidati dagli Einsatzgruppen" (H. Arendt,
La banalità del male, cit. p. 75). L'estinzione dell' emigrazione
è definita da Eichmann come "l'estrazione indolore di un dente
:
da parte ebraica era ormai veramente difficile trovare dove emigrare,
e da parte nostra tutto era fermo, non c'era più gente che andasse
e venisse. Noi ce ne stavamo lì, seduti in un grande imponente
edificio, ma attorno a noi c'era un vuoto inerte" (cit. in: H. Arendt,
La banalità del male, cit. p. 75).
Col profilarsi
della sconfitta si rivela la sostanziale inconsistenza del totalitarismo.
Sia appartenenti alle SS, sia persone iscritte al partito, o che avevano
cariche governative, persone anche implicate in gravi crimini del regime
"vedevano in Hitler un 'impostore', un 'dilettante' che sacrificava
intere armate contro il consiglio di esperti, un 'folle' e un 'demone',
l' 'incarnazione del male', espressioni che per la mentalità tedesca
significavano però che egli era qualcosa di più, ma insieme
anche qualcosa di meno che 'un pazzo criminale'" (ibid. pp. 107-108).
"Non c'è dubbio che questi uomini che sia pur tardivamente
si opposero a Hitler pagarono con la vita e fecero una morte atroce; il
coraggio di molti di loro fu ammirevole". E tuttavia, furono mossi
dalle ripugnanti violenze inflitte a altri esseri umani? "essi furono
mossi quasi esclusivamente dalla certezza che ormai la sconfitta e la
rovina della Germania erano inevitabili" (ibid. p. 108). E ci furono
di quelli che pensavano "di avere il diritto di negoziare una 'pace
giusta' con il nemico, 'su un piede di parità', benché sapessero
fin troppo bene quanto ingiusta e completamente non provocata fosse la
guerra che Hitler aveva scatenato" (ibid. p. 109).
C'è
un'ultima questione, che Hanna Arendt non volle occultare. Questo amore
(filosofico e politico per la verità) le valse aspre critiche da
parte delle comunità ebraiche, e l'isolamento. È una questione
su cui ancora oggi si direbbe non si torni facilmente.
C'è un ruolo dei governi-fantoccio nei territori occupati. "Senza
l'aiuto degli ebrei nel lavoro amministrativo e poliziesco (i rastrellamento
finale degli ebrei a Berlino, come abbiamo accennato, fu effettuato esclusivamente
da poliziotti ebraici), o ci sarebbe stato il caos completo oppure i tedeschi
avrebbero dovuto distogliere troppi uomini dal fronte.
('È fuori di dubbio che senza la collaborazione delle vittime ben
difficilmente poche migliaia di persone, che per giunta lavoravano quasi
tutte al tavolino, avrebbero potuto liquidare molte centinaia di migliaia
di altri esseri umani
Lungo tutto il viaggio verso la morte, gli
ebrei polacchi di rado vedevano più di un pugno di tedeschi'. Così
dice R. Pendorf, e ciò vale ancor più per quegli ebrei che
erano portati a morire in Polonia da altri paesi)" (ibid. 125).
"In fatto di collaborazione, non c'era differenza tra le comunità
ebraiche dell'Europa centro-occidentale, fortemente assimilate, e le masse
di lingua yddish dei paesi orientali. Ad Amsterdam come a Varsavia, a
Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilarle
liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati
il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di
tenere aggiornato l'elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze
di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni,
e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei
beni della comunità per la confisca finale". (ibid. pp. 125-126)
"Nei manifesti che essi affiggevano - ispirati, ma non dettati dai
nazisti - avvertiamo ancora quanto fossero fieri di questi nuovi poteri:
'Il Consiglio ebraico centrale annunzia che gli è stato concesso
il diritto di disporre di tutti i beni spirituali e materiali degli ebrei,
e di tutte le persone fisiche ebree", diceva il primo proclama del
Consiglio di Budapest" (ibid. p. 126). Divenuti strumenti nelle mani
degli assassini, "si sentivano come capitani 'le cui navi stanno
per affondare e che tuttavia riescono a condurle sane e salve in porto
gettando in mare gran parte del loro prezioso carico' (
). Per non
lasciare la selezione al 'caso', occorrevano 'principi sacrosanti' che
guidassero 'la debole mano umana che scrive sulla carta il nome di una
persona sconosciuta e così decide della sua vita o della sua morte'".
Ma, allora, si domanda Hanna Arendt, chi si sceglieva di salvare? Quelli
'che avevano lavorato per tutta la vita per lo zibur', cioè per
la comunità, vale a dire i funzionari e gli ebrei 'più illustri',
come dice Kastenr nel suo rapporto" (ibid. p. 126).
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