Peripezie della conoscenza

di Donatella Bassanesi


foto Monika Bulaj

 

Ogni pensiero è pensato dalle parole con cui si dice, e le parole possono essere oggetto di ‘etimologia filosofica’, possono essere riferite a un fatto originario

Ogni pensiero avviene per tempi diversi ma non consecutivi.
Come intuizione apre il problema, è ipotesi domanda.
Come concetto spinge l’ipotesi verso una soluzione, lo scioglimento del problema, è una strada battuta e in un certo modo rassicurante.

La conoscenza deriva dal pensiero. La possibilità di pensare avviene staccandosi dal momento per rifletterlo, sta in un non-luogo del presente, è partecipare del passato e del futuro, del loro scontro, nei punti di intersezione che chiamiamo tempo – che non scorre, è serie di istanti, punti di contatto che mettono in evidenza tratti di realtà.

Pensare per conoscere è porsi dal punto di vista di un progetto. Guardando il mondo (che è l’insieme delle cose, considerare un progetto gettato. Esso si caratterizza come eredità storicamente determinata, costituisce identità interessata, muove da aspettative intorno alle quali si definiscono sistemi di coordinate che producono il progetto.
Partire da un progetto gettato, da una condizione per la quale l’essere dell’essere ha un legame con l’essere dell’esserci (M. Heidegger).

Conoscere va facendosi. Non sta come un punto fisso a cui si ritorna sempre. Non è come l’idea di origine: non-luogo pensato (che vede nella terra come è inscritto nel suo nome ma che non si costruisce).

Conoscere è prodotto di uno scontro. È negazione dell’idea di un luogo dell’uguale a cui riferirsi e di una incarnazione insieme arcaica e dominante.

Provoca cambiamenti di punti di vista, perciò mostra il problema o il fatto in modo differente. Così la conoscenza stessa diventa conoscenze, si moltiplica, in un certo senso cambia  perché risulta dallo scontro, è il risultato più di opposizioni che di somme, muta la ragion d’essere.

Non è fondativa come la sapienza che intende risalire a un punto originario e perciò immutabile, la conoscenza si pone tuttavia in un percorso che necessariamente da qualche punto è iniziata, anche se può essere impreciso nascosto sconosciuto. 

La conoscenza deve essere legata all’azione. e la storicità della nostra gettatezza rende a noi il limite e la possibilità (M. Heidegger).

È attenzione al momento, all’istante fissato dal pensiero e dalla parola che definisce i contorni dell’accadere, nei limiti dell’iniziare e del finire.

É l’attimo dell’azione rivoluzionaria. Il fatto di progettarlo e anche di pensarlo possibile fa saltare “il continuum della storia” (W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955, tr. it. Angelus Novus, Einaudi, 1962, p. 80).
Una rivoluzione origina un tempo perché vuole liberazione dalla tirannia, dalle prepotenze, dalle ingiustizie, pone come possibilità l’irrealizzato (giustizia, parità sociale). É passaggio che abbatte il continuum della storia, ed è traccia di una possibilità che evidenzia la frammentarietà come condizione dell’esserci.

È possibilità del passo tra passato e futuro ossia spostamento (non ripetizione dell’uguale, il tempo “omogeneo e vuoto”), sono i frammenti che costituiscono i confini della conoscenza della ‘nostra’ storia.

È azione che sposta, rende differenti. È forse più determinante della sopravvivenza del singolo. Conduce alla consapevolezza della differenza, nessuno uguale e nessun altro, che è principio ed è anche sofferenza della differenza.
Partire dal differente, dall’altro, dall’estraneo, straniero, la stranezza. Contro le guerre e i totalitarismi.
Un punto di vista (e di partenza) per riuscire a contrastare la tradizione delle soggezioni, delle abitudini, segnando un punto a capo. 

L’angelo della storia
L’angelo della storia vede “una sola catastrofe” dove noi vediamo “una catena di eventi” e vorrebbe ricomporre le parti spezzate.
Ma noi costituiamo le parti spezzate, siamo il cumulo di rovine prodotti producenti la tempesta che chiamiamo progresso.
Noi responsabili – vittime del progresso.

Un pensiero, una meditazione per liberare “l’infante politico mondiale” dai “politici” che “giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa” con “la cieca fede nel progresso”, il “servile inquadramento in un apparato incontrollabile”, la “fiducia nella loro ‘base di massa’”. E dunque anche non lavoro che sfrutta la natura ma che la sgrava “dalle creature che dormono latenti nel suo grembo”. Perché è l’oppresso ad essere “il soggetto della conoscenza storica” (W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955, tr. it. Angelus Novus, Einaudi, 1962, pp. 76, 77, 78, 79).

La luce della pura lingua
Il linguaggio è la casa dell’essere (M. Heidegger).
“L’essenza linguistica delle cose è la loro lingua” (W. Benjamin,  Angelus Novus, cit. p. 54). In parole, nominando, nel nome si trova “l’essenza spirituale che si comunica” (ibid. p. 55) ed è la lingua. Dunque l’essenza linguistica delle cose è la loro essenza spirituale.
Pensare che “il problema originario della lingua è la sua magia” che è “incommensurabile e specifica infinità”, è “immediatezza di ogni comunicazione spirituale” che è “magica” (ibid. p. 53), porta a dire che anche in tutto ciò che è vivo o morto, anche nelle cose si trovano aspetti magici che riconducono ad amore, indifferenza, odio...
Perciò in ogni lingua, in ogni discorso o scrittura oltre il comunicato c’è l’inespresso (che non si è voluto, saputo, dire o che realmente non si riconosce).

“Ciò che cerca di esporsi” è il “nucleo della pura lingua”, “fare del simboleggiante il simboleggiato stesso” (ibid. p. 47).
Fare del significante il significato perché il significante è la materia del linguaggio a partire dal quale l’interprete espone la parola che perciò si mostra “nucleo della pura lingua” (ibid.). Perciò nella traduzione non bisogna “attenersi allo stadio contingente della propria lingua” piuttosto è necessario che la propria lingua sia “potentemente” scossa, risulti approfondita dalla lingua straniera, addentrandosi nella quale risulta che “parola, immagine e suono si confondono” (ibid. p. 48) – come per la “versione interlineare del testo sacro” che “è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione” (ibid. p. 50).
Così si riconoscono i grandi scrittori perché contengono “fra le righe la loro traduzione virtuale” (ibid.).

Nominando
Nominando porsi lungo parallele componendo così quella ‘peripezia’ per la quale le parole si richiamano sfiorandosi, e costituiscono allegorie.
Lasciando un tra, un luogo intermedio – perché la forza del significante sta nell’oblio, il dimenticato emerge dalle rovine – le rovine, che sono rimaste oscurate dai falsi miti della modernità, sopravvivono nella pura lingua, che è lingua originaria, perciò non è intenzione verso ciò che sta fuori è piuttosto rapporto tra sé e sé, ha a che vedere con l’urlo, il canto, la poesia.

Affrontare la pura lingua come morte dell’intenzione, movimento del pensiero come esperienza e come shoc, patire l’ignoto, la partenza.
Seguire la lingua come commento che cerca la descrizione, oggettiva. Per altro verso porsi individualmente, con un proprio punto di vista.

Riconoscere due lingue, quella della comunicazione e quella della menzogna possibile e permessa – “impunità della menzogna” (ibid. p. 17). 

Peripezie
Affrontare la conoscenza come peripezia quando l’attraversamento non ha un centro a cui rifarsi, quando i soggetti si affrontano e anche quando soggetto e oggetto si affrontano non nella forma della subordinazione (l’individuo il soggetto – e il fatto la cosa).
Due linguaggi, due tempi.
La materia della ricerca è il linguaggio.

Sono fatti che pongono la doppia questione della contraddizione e dell’analogia. Analogia che consiste in un legame tra i fatti che rimane indiretto, è il senso nascosto, transita dal passato al presente, si colloca nel presente e mostra ciò che rimane di una certa esperienza, una tensione verso la verità che è la filosofia.

Riconoscere come ogni “documento di cultura” è “nello stesso tempo, documento di barbarie” (ibid. p. 76), perché “la preda” “è trascinata nel trionfo” ed è definita “patrimonio culturale” (ibid. p. 75), risultato della “fatica dei grandi geni” e della “schiavitù senza nome dei loro contemporanei” (ibid. pp. 75-76).
L’esempio della violenza.
“La critica della violenza è la filosofia della sua storia”, apre una prospettiva critica” (ibid. p. 27).
“La violenza mitica è violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della violenza; la pura violenza” è “divina sopra ogni vita in nome del vivente. La prima esige sacrifici, la seconda li accetta” (ibid. p. 25), è rivoluzionaria e creatrice (mentre la violenza conservatrice “indebolisce, a lungo andare” (ibid. p. 27).

L’esempio della giustizia e del diritto.
Distinguere la giustizia che “è il principio di ogni finalità divina”, dal potere che “è il principio di ogni diritto” (W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, cit. p. 23) che “limita l’uso dei mezzi interamente non violenti, poiché essi, per reazione, potrebbero ingenerare violenza” (ibid. p. 18). Perché la “creazione di diritto è creazione di potere” e perciò la “violenza” è la “sola” che “può garantire il diritto”, e dunque non c’è mai uguaglianza, ma unicamente, nel migliore dei casi, “poteri egualmente grandi” (ibid. p. 24). E d’altra parte, l’ “impiego della violenza come mezzo a fini giuridici” è “creatrice di diritto; “la sottomissione dei cittadini alle leggi” il diritto “lo conserva” (ibid. p. 12).
“C’è un solo destino”. Ciò che esiste, e soprattutto ciò che minaccia, appartiene irrevocabilmente al suo ordinamento. Poiché “il potere che conserva il diritto è quello che minaccia” (ibid. p. 13). Così la polizia (che si assomiglia ovunque) ha un potere “informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove, nella vita degli Stati civilizzati” (ibid. p. 15). E “ogni violenza come mezzo partecipa, anche nel caso più favorevole” (la rivoluzione), “alla problematicità del diritto in generale” (ibid.). Ragione per cui “la domanda se per comporre interessi umani in contrasto non vi siano altri mezzi che violenti” (ibid. p. 16) sembra dover rimanere senza risposta.
Rimane tuttavia che la violenza è pericolosa per il diritto (e per la giustizia), anche tenendo presente che “la simpatia della folla” spesso è “contro il diritto”. Infatti “quante volte già la figura del ‘grande’ delinquente, per quanto bassi potessero essere i suoi fini, ha riscosso la segreta ammirazione del popolo” e ciò non “per le sue azioni, ma solo per la violenza di cui esse testimoniano”? (ibid. p. 9).

Per un verso noi vediamo un mondo finito, per un altro l’isolamento dell’individuo totale.
Per un verso la società capitalistica, per un altro l’impotenza dei partiti. Tra l’uno e l’altro, uno spazio che è del richiamo e definisce (separa) le due parti , e può essere della solidarietà elementare (apre una qualche possibilità di giustizia e di bene comune) o dell’indifferenza (che comporta la libertà di violenza per il possessore di un potere assoluto).
E tuttavia: sopravvive la possibilità di “puri” “mezzi non violenti”?
L’esempio migliore è “la conversazione” che è la “tecnica di civile intesa” (ibid. p. 17). Per arrivare a questo è necessaria la presenza di una concezione profondamente morale.
E anche perché lo sciopero abbia successo è necessaria una concezione profondamente morale, quali nella storia sono stati gli scioperi proletari che intendevano raggiungere “la distruzione del potere statale” (ibid. p. 19); mentre quando puntarono a realizzare un potere forte centralizzato e disciplinato esso fu indifferente alle critiche e furono emanate “per decreto le sue menzogne” (Sorel, Réflexions sur la violence, Paris, 1919, p. 250).
E d’altra parte anche un contratto tra le parti si riferisce a un potere che l’ha reso possibile. Ma sembra difficile che gli stessi parlamenti ricordino l’importanza delle “forze rivoluzionarie a cui devono la loro esistenza” (W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, cit. p. 16).

 

5-01-2010

 

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