Quattro scritti attorno a Foucault

di Donatella Bassanesi


Debora Hirsch

Desiderio di verità

Il desiderio di conoscenza è desiderio di pensare la verità – ossia desiderio di verità.

Affrontare la storia del pensiero filosofico, ciò che ha lasciato/lascia passando (attraversando), è affrontare l’ “apertura di una vibrazione indefinita” che è “eccedenza della filosofia ad ogni possibile filosofia”, (M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità – interventi 1969-1984, Torino, Einaudi, 1972-1977-2001, p. 4), ed è è riconoscere i limiti della sua fondazione (cosa circoscrivendo evidenzia), la finitudine  che sono i “limiti della conoscenza” (ibid. p. 5).

Ciò che sta ai limiti della finitezza (e della conoscenza) è la domanda filosofica e l’eterno ricominciare, l’impossibile conclusione, l’impossibile singolare nella risonanza.

Il presente pensiero è l’ombra di un pensiero che lo precede, lo denuncia, lo dichiara.
Nell’essere parola sta tra l’uno e l’altro come forma, possibile discorso, rapporto di prossimità e distanza, la danza figura dell’origine, ripresentazione dell’inizio e del suo svolgersi.

“I discorsi che, indefinitamente, al di là della loro formulazione, sono detti, restano detti, e sono ancora da dire”(ibid. p. 18) possono ripetersi, commentare, essere creatori.
La ripetizione e il commento stesso possono produrre tipi di discorsi differenti, “il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno” (ibid. p. 19).

L’inquietudine, cancellata dalla ripetizione dello stesso che è aspirazione alla sicurezza ed è controllo di ciò che si trova intorno come isolamento e rafforzamento dell’identità, è l’evento del ritorno (o la percezione della sua mancanza), sono esistenze in equilibrio tra se stesso e l’altro, tra vita e morte.

L’inquietante del linguaggio è l’inquietudine delle esistenze, ed è il terreno all’interno del quale si possono formulare “nuove proposizioni”(ibid. p. 21) nel gioco ambiguo del segreto e della rivelazione /del silenzio e della parola.


Il silenzio

Il silenzio è prima del tempo?
È vuoto di tempo?

Le domande chiave che si riferiscono alla natura del silenzio, ai caratteri che lo contraddistinguono lo definiscono stanno tra tempo e non-tempo.

Del silenzio conosciamo le “peripezie”. Nel silenzio avviene l’apparizione “senza intermediario né durata, nella lacerazione della storia”, si riconosce “grazie a una cifra misteriosa (M. Foucault, Follia, scrittura, discorso 1. 1961-1970, Milano Feltrinelli, 1996, p. 62).

Il silenzio testimone di un doppio movimento (o senso di marcia) dello svelare e del nascondere, anche a sè, appartiene al relativo (contrapposto ad assoluto) all’essere in relazione e alla mancanza di tutto ciò, l’assoluto-il nulla.

Il silenzio (al contrario del suono, di cui si avverte l’avvicinarsi e l’allontanarsi) generalmente non lo percepiamo come movimento verso il mondo, piuttosto come concentrazione e ritorno a sé che non è realmente un movimento, piuttosto scavo-scava, è silenzio interiore, spinta a svelare ciò che sta nel nascosto, voce del nascosto in noi che apre vuoti, è vuoto.

Avere esperienza del silenzio è “attraversare la (...) prova del segreto”, “con la corazza nera e la visiera abbassata”, “come l’eroe” (ibid.) che non possiamo né dobbiamo vedere.

Ascoltare il silenzio è attraversare il segreto, un vuoto non indifferente.
Necessita di un esercizio dei sensi.
Alterazioni come lacerazioni, grida.

Grido che è l’opposto del silenzio eppure è strappato al silenzio come una ribellione del silenzio stesso, la sua voce svelata, la sua indignazione.

Osservare i corpi devastati delle discariche odori di putrefazione vite trapassate devastate segni rimossi.
Lo strapotere umano sugli equilibri di natura cancella quella sottile linea di continuità tra specie animali e gli umani, ed è un rumore sordo e continuo da cui è impossibile distrarsi.
Così non ci è possibile riconoscere il vero silenzio che è assoluto, perché l’assoluto è il vuoto ed è l’anima del silenzio, suo carattere più profondo.
E insieme non possiamo avvicinarci né all’assoluto né al vuoto i non-luoghi da cui deriva il pensiero.

L’evento

Tra l’uno e l’altro c’è l’evento, che “non è tanto un segmento di tempo, quanto, in fondo, il punto d’intersezione tra due durate, due velocità, due evoluzioni, due linee storiche” (M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 1972, 1977, 2001, p. 224).

L’evento è ciò che interviene tra l’uno e l’altro.

La necessità di uscire allo scoperto, interessarsi a ciò che avviene fuori, tra l’uno e l’altro è la questione dello sguardo verso le cose, e verso l’altro, va in un senso e in doppio senso, per reciprocità.

Corrisponde al fatto di essere uno (unico) ed essere altro – essere altro da ciò che sta di fronte al di là, altro per chi sta di fronte al di là.
Perché è l’altro a interrogarci, ponendoci domande ci spinge a guardarci, riconsiderarci-riconsiderare, giudicarci-giudicare.

Ciò che produce, provoca il movimento sono gli eventi, quelli “sotto il cui segno siamo nati”, quelli che continuano “ad attraversarci” (ibid. 216), “ancora segnano il nostro presente”, “eventi segreti che scintillano nel passato e che ancora segnano il nostro presente” (ibid. 217). 

Pensando che nella parola evento c’è la parola vento, l’evento si mostra nel suo carattere tumultuoso trascinante improvviso sconvolgente.

L’evento che nel XVIII sec. in Occidente ha modificato radicalmente le cose è stata la fine di uno Stato fondato sulla religione e la formazione di uno Stato ateo che è la condizione per la possibilità di uno Stato filosofico (M. Foucault), quello in cui spostando lo sguardo è possibile rendere visibile ciò che non vediamo ma è visibile.

L’evento come rappresentazione, implica la questione della scena. L’interesse per la messa in scena si colloca in quella zona intermedia che sta tra il vedere e l’essere visti. Di questo generalmente la filosofia non si è occupata. Osserva Foucault: “credo che la svalutazione del teatro all’interno della filosofia occidentale e un certo modo di porre la questione dello sguardo siano (...) tra loro collegati” (ibid. p. 213).

Gli eventi interessano gli storici, raramente i filosofi. È Nietzsche a collegare la storia alla filosofia nel pensare la filosofia come “attività che serve a sapere quel che accade, e quel che accade adesso” (ibid. p. 216). E quel che accade (intorno a noi, altrove) è l’evento.

Foucault si rifiuta di soffermarsi al campo simbolico e all’ambito delle strutture significanti, privilegia un’analisi che tenga presenti “rapporti di forza”, “sviluppi strategici”, “tattiche” (ibid. p. 215), dunque non relazioni di senso ma di potere. Intende “cogliere un evento (...) importante per la nostra attualità, anche se si tratta di un evento già verificatosi” (ibid. p. 216).

Importanza della ripetizione e del ritorno. Perché “non esiste una sola e unica storia, (...) ve ne sono innumerevoli, con molteplici tempi, molteplici durate, molteplici velocità, che si concatenano (...), che giungono ad incrociarsi, formando proprio così gli eventi” (ibid. p. 224).
Così gli eventi “si fanno insensibilmente discorso dispiegando il segreto della propria essenza” (ibid. p. 28), gioco di segni, brusio confuso che nasconde e insieme rivela, che nel nascondere rivela, cancellando giochi della lingua, passaggi,  sovrapposizioni, salti di pensiero.

La mancanza

La mancanza è l’introvabile centro che l’individuo non sa di sé, strada del desiderio.

La mancanza è il contrario dell’evento ma realmente non gli si oppone, è ciò che lo richiama, anche disperatamente, a ragione di una distanza che può essere definitiva e incolmabile.

Intorno alla mancanza si avvicina il perduto, il dimenticato si rende visibile.

Quando la mancanza è incolmabile allora è perdita di ciò che non è più, il passato, i morti che tuttavia entrano nel presente silenziosamente quasi inavvertitamente. Il loro silenzioso ritorno è la loro santità pur non essendo in loro alcuna soggettiva bontà, anche se mancano nella storia della loro vita momenti di bontà.

La mancanza è attesa-timore del ritorno come dell’incontro perché l’incontro è sempre rito di ritorno nella somiglianza di un passato.

La mancanza sa di non potersi tradurre in ricerca di esaudimento, sarebbe realizzazione dell’impossibile, perché la mancanza ha il tratto dell’assoluto del desiderio – che è l’impossibile del suo esaudimento.
Così la mancanza è opposta al bisogno (che può essere appagato).

La mancanza suscita impressioni che indefinite prendono rilievo, un profilo, possono diventare mancanza di qualche cosa che prende corpo, sono la cosa che prende corpo.

Intorno alla mancanza si avvicina il perduto, il dimenticato si rende visibile.
La mancanza arricchisce il presente che è il tempo, è il vuoto che rende l’immagine del tempo come s-fondo, dà consistenza rilievo.

La mancanza provoca paura del vuoto che è paura del presente (del tempo), del suo passaggio rischioso quando la materia consumata nell’essere viva diventa motore, il fare, l’agire.

La mancanza si mostra nel discorso come ricerca della verità, nei vuoti del discorso.
Così “un’etica della conoscenza (...) non promette la verità” solo “il desiderio della verità”, “il potere di pensarla” (ibid. p. 27).
Può disporre “di segni, di impronte, di tracce” (ibid. p. 28) che producono il riconoscimento di una primaria appartenenza al mondo, aprono la strada alla conoscenza, che è approssimazione alla verità, il mormorio delle cose.

Vuoti, incongruenze nel discorso alludono a un percorso vietato, impossibile da raggiungere o da compiere. Quando l’assoggettamento del discorso a una qualche costrizione, potere implicito di chi lo detiene – di chi lo subisce (lo assorbe) costituisce un sistema insieme occludente e invalicabile – con assegnazioni di ruoli che determinano categorie di soggetti e forme dell’essere.

 

3-03-2010

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