Questo resta
impresso dopo aver letto questa terza opera di Luciana Bellini. Diciannove
storie di donne che, oltre a subire la millenaria prepotenza - quella
che le accomuna ai mariti e ai figli perché tutti sottomessi allo
stesso padrone, al padrone che ti fa sgobbare solo per quel piatto di
minestra e nient'altro - queste donne subiscono anche un'altra forma d'angheria:
sono sottomesse anche agli uomini (mariti, cognati, padri, fratelli, suoceri).
Quindi, in queste storie d'ingiustizia, le donne sono doppiamente sottomesse.
E Luciana Bellini è stata bravissima nel farlo risaltare con la
sua prosa efficace, spietata: solo ogni tanto ci concede qualche squarcio
di distensione, di pace. Io non conosco i quadernoni in cui l'autrice
ha conservato gli appunti dei racconti di Maria, Carola, Lina, Viola e
tutte le altre, ma so che aveva a disposizione molto materiale da cui
è stata costretta ad estrarne la linfa vitale e raccontarla con
il suo stile, con la sua rabbia e il suo amore, mettendo l'accento su
alcuni dettagli
illuminandoli con il suo vissuto. Ed è riuscita
a dipingere affreschi ricchi dei colori della sofferenza, della lotta,
della speranza (proprio come aveva mirabilmente fatto nelle due precedenti
opere La capitana e C'era una volta la Maremma).
Ognuno dei 19 racconti è quasi sempre storia di distacchi, di separazioni,
di partenze e di ritorni: si cerca e si accetta il terreno da coltivare,
ma quel terreno è lontano dal paese
e allora occorre andare
a vivere in quel casolare diroccato, senza luce e acqua, senza i vicini
con cui poter scambiare una parola, soli.
Ma questa condizione a Lina produce un ragionamento ch'è un vero
pugno allo stomaco del lettore
quando parla del suocero che spartiva
tra tutti i componenti della famiglia i soldi guadagnati
e ne dava
anche a lei, una donna! Certo, per carità, solo la metà
di quelli che davano agli uomini, si sapeva ch'era così, era giusto,
la donna valeva metà d'un uomo
ma la novità è
che il lavoro veniva riconosciuto anche a lei! Suo padre, invece, le aveva
sempre fatto credere che alle donne, vitto e alloggio erano una ricompensa
più che sufficiente
Con quella mezza paga, invece, il suocero
di Lina le aveva fatto capire che - oltre al pane e al companatico - lei
s'era guadagnata la libertà! Il brano di pag. 30 è un autentico
pezzo di bravura stilistica: è magma impastato con rabbia e stupore.
La storia di Lina è così bella nella sua drammaticità
che meriterebbe da sola un'altra biografia romanzata: la forza di questa
donna, la madre che vuol risparmiare il dolore della morte del padre ai
figli (padre ch'era il suo compagno, suo marito!) e per rendere credibile
questa sua rinascita deve soffocare il suo dolore di donna
e sorridere
di nuovo alla vita come madre.
Questi racconti di vita vissuta, uno dopo l'altro, disegnano il mosaico
di quello che voleva significare nascere donna in un mondo rurale fino
a non molti anni fa: già a 5 o 6 anni si era responsabili e le
bambine tiravano su i fratellini più piccoli.
Ogni tanto si produce uno squarcio nel grigiore e nella fatica di questa
carrellata di storie
ed appare una donna un po' diversa, come Ardesia,
che abbellisce la loggia e le scale con ortensie, begonie e gardenie
e il vicolo grigio, così, macchiato di colore, le pare meno vecchio.
E poi arriva la storia di Lucia, povera creatura orfana della madre a
4 anni
ed ha inizio la sua vita di girovaga, ma appena muore anche
la nonna, viene messa dalle suore
e il racconto delle angherie subite
è terribile nella sua crudezza. La povera Lucia viene finalmente
tolta dalle suore e sistemata dalla zia
ma continua a prendere botte.
E poi via in campagna, a vangare con i buoi e l'aratro. Lucia si sposa,
continua a lavorare come una bestia, e il padrone dà qualche soldino
di paga anche a lei
certo, mica la paga come agli uomini! Ma è
proprio qui che nasce il germe per combattere l'ingiustizia, questo denunciare
con semplicità il più evidente dei soprusi. Anche la storia
di Lucia merita da sola un romanzo.
Continuano le storie di distacchi, separazioni e addii.
Poi, a pagina 130, c'è Alduina, ed uno di quei brani ch'è
pura poesia: E quando scesi, tutto 'ntorno vidi 'na campagna bruciata
e la strada era 'na carrareccia, però via via che si saliva, 'ste
casine bianche rallegravano l' cuore. Non è solo il cuore di Alduina
a gioire, ma anche il nostro che abbraccia il mondo dalla stessa altezza
raggiunta da lei in quel momento. E questa gioia mette in moto - due pagine
dopo - una mano che conserva forze nascoste dopo ore ed ore di fatica
e col grammofono a manovella s'inventa 'na festicciola da ballo.
Ma ecco lì, spersi tra cielo e terra, giungere la storia di Livia,
nemmeno quattro pagine
ma quale profondità di riflessioni:
E pensai ch'ero una stupida: se loro, du' omini, erano d'accordo
Ma Livia aveva capito che le cose non stanno così. E infatti, poche
righe dopo, ci racconta che al podere, tutte, anche sposine giovani come
l'acqua lavoravano come e più dell'òmini, c'erano donne
che rivoltavano 'l mondo
E poi Caterina che ci narra del padre contadino invecchiato sotto padrone
ma con una storia a lieto fine: finalmente gli era stata assegnata la
terra
e lui quella terra l'avrebbe baciata! Fatto questo, quello
lassù lo poteva anche leva' subito dal mondo! E dal padre di Caterina
ascoltiamo la rabbia repressa che carica il grido di rivolta verso i farabutti
sfruttatori dei padroni!
Questa terribile carrellata d'oppressione e libertà ci lascia con
la storia di Argia, che a 11 anni prova e riprova sulle bambole ad imbastire
i vestitini
per poi riuscire a cucire quello vero della sorellina!
E qui Luciana Bellini sfodera una di quelle descrizioni che ti lasciano
senza fiato per la sua bellezza: Ultimamente era sola Argia, e la casa
pareva muta e buia senza 'l va' e vieni de le ragazze come noi, ma s'entravi
'n quella stanza
ti pareva che tutte quelle bambole che ridevano
zitte facessero 'n gran chiasso.
Ecco, mi piace calare il sipario su questa immagine evocata da Argia-Luciana:
questa bambina di 11 anni, nascosta sotto al letto in attesa delle inevitabili
botte della madre perché lei aveva osato cucire il vestitino della
sorella. Sapeva che le avrebbe buscate, ma sapeva anche che quella era
l'occasione della sua vita
per dimostrare che poteva cambiare il
suo destino, sperare in un mondo migliore. La madre si avvicina, Argia
è rannicchiata sotto al letto, il cuore le trema
ma le bambole
che lei ha vestito di carta con i modelli di prova, sorridono, perché
esse possono osservare il volto rugoso della madre distendersi, gli occhi
sorridere.
"La terra delle donne" assume la funzione di scrutare nelle
radici della donna italiana, radici recentissime, nel dopoguerra, quando
il 90% della popolazione era contadino, senza terra, senza diritti. E
i contadini venivano sfruttati
ed essi vivevano con il sogno di
un'assegnazione da parte dello stato d'un pezzetto di terra da coltivare
in proprio. Le condizioni di vita erano quasi sempre disumane. E padri
e mariti non ce l'avrebbero mai fatta senza le loro donne, senza la donna.
Perché anche quando era distrutta dalla fatica, la donna conservava
quelle briciole di forze residue per cercare di preparare una pietanza
un po' diversa anche con quei pochi ingredienti a disposizione, di mettere
una piantina di fiori sulla porta della masseria diroccata, di far pulire
ai mariti e ai figli gli scarponi imbrattati di fango prima di entrare
in casa
per attendere un altro giorno di speranza, "soli, io,
mio marito e i nostri bambini, in quella casetta che odorava di nuovo
come la nostra vita".
* Adriano
Petta e Luciana Bellini
Luciana Bellini ed io siamo autori pubblicati da STAMPA ALTERNATIVA e
ci siamo conosciuti due anni fa a Pitigliano, in questo crogiolo di culture
del Magazzino Giustacori e ci siamo scambiati i nostri libri con
quel gesto ch'è curiosità di sapere cosa ne pensa uno come
te, abituato al lavoro più duro che l'uomo abbia inventato - che
non è quello di zappare la terra arida e rocciosa
ma scrivere
romanzi.
Leggendoci ci siamo stimati, abbiamo saputo apprezzare le nostre rispettive
fatiche
e capire - forse come nessun altro - quanti sacrifici ci
sono costati i nostri libri. Entrambi siamo autodidatti, non abbiamo fatto
studi classici: Luciana ha frequentato solo la quinta elementare, io l'istituto
tecnico, entrambi siamo nati contadini. Ma io lasciai il mio paesino d'origine
a dieci anni e giunsi a Roma praticamente analfabeta, frequentando la
quinta elementare
suscitando gli sfottò e l'ilarità
dei miei compagni di scuola quando chiesi in prestito al mio compagno
di banco l'appizzutalapiso (il temperamatite): avevo dimenticato questo
particolare, ma Luciana me l'ha richiamato alla mente a pagina 174 de
La Capitana, con il racconto di Edo che chiede in prestito l'appuntalapise.
Centinaia di chilometri di distanza hanno separato la nostra infanzia
ma il nostro vissuto è stato terribilmente e meravigliosamente
simile: affamati di libri abbiamo saziato la nostra fame da soli, in modo
disordinato ma libero, con umiltà ma sotto la spinta del vento
della fantasia.
......
Luciana, per accedere alla storia del mondo, non si è mai saziata
della sua sete di conoscenza "curiosa di scoprì quel che c'era
scritto dentr'a que' libri gonfi di parole"
anche per riscattare
la sua condizione e quella dei suoi genitori, quella di tutti i contadini.
Ha capito che per dispiegare le ali della giustizia c'era bisogno non
solo di fare delle lotte
ma di saper parlare, altrimenti i padroni
ci avrebbero sempre tenuti sotto. E c'è riuscita. Ma poi, quando
la sua vita si è sistemata, quando ha trasmesso ai suoi figli la
tenacia, la determinazione della nostra generazione
ha sentito il
bisogno di non dimenticare, affinché tutto il patrimonio accumulato
durante l'infanzia e la gioventù non andasse perso. E ridendo delle
sottolineature in rosso dei calcolatori, ha raccontato le sua storia in
un maremmano esplosivo, musicale
donandoci dei piccoli capolavori...
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