La libertà di crearsi e inventarsi
oltre il patriarcato

Lucia Beretta

Foto e didascalia di Lucia Beretta:
Queste sono le donne della ong boliviana ECAM con cui ho lavorato in questi mesi e da cui ho imparato davvero tanto.
Lavorano ogni giorno per la protezione e la promozione dei diritti delle donne in Bolivia

 

La semplice distinzione tra i concetti di sesso e genere porta con sé una serie di riflessioni importanti per mettersi in discussione e rivedere modelli talmente interiorizzati che spesso non sono riconosciuti come “opzioni” ma come verità assolute. Tali modelli comprendono una serie di nozioni, insegnamenti, esempi di vita che ci vengono dalla famiglia, dalla comunità, dalla società, e che, a parte qualche piccola eccezione, sono basicamente omologati, in quasi tutto il mondo.

Ma se non fossimo cresciuti con questi esempi di vita che automaticamente ci fanno riprodurre modelli appresi, sarebbe stato possibile creare la nostra identità in completa libertà1? Come si sarebbe formata la nostra identità?

Mi spiego meglio partendo dalla distinzione di base tra sesso e genere. Il concetto di “sesso” indica la forma e l’aspetto fisico del nostro corpo, le caratteristiche fisiologiche e biologiche per cui si differenziano la donna e l’uomo. Fa riferimento agli organi sessuali e ai caratteri sessuali secondari, ossia alle caratteristiche naturali, con le quali nasciamo e che spesso non si possono cambiare. Il concetto di “genere”, invece, fa riferimento alle identità femminile e maschile, ai ruoli e alle responsabilità che storicamente e culturalmente sono state attribuite alle donne e agli uomini. Sono costruzioni sociali e culturali che si apprendono e che per questo possono (e secondo me per la situazione storica e sociale in cui viviamo, devono) cambiare. Il “genere” non è quindi un dato di fatto ma una costruzione storica e socioculturale della femminilità e della mascolinità a partire dalle differenze biologiche, ossia a priori si attribuiscono alla donna e all’uomo determinate caratteristiche, possibilità, valori, ruoli e responsabilità a partire dalle loro differenze sessuali.
La differenza tra i due concetti è quindi sostanziale ed evidente: con riferimento al sesso, si parla di femmine e maschi; con riferimento al genere si parla donne e uomini, le cosiddette “identità di genere”. I ruoli assegnati a ogni donna e a ogni uomo sono decisi, e sono stati decisi, da altri, che sia la famiglia o la società, sono pratiche e valori socialmente elaborati e modellati, nonché creati e riprodotti dalle persone stesse.
La costruzione di genere può cambiare da una cultura a un’altra e all’interno di una stessa cultura può variare secondo l’epoca, l’età, la classe sociale, l’etnia, le credenze religiose e le opinioni politiche, la storia del popolo, della comunità o della famiglia cui apparteniamo. Per questo, da un lato è vero che ogni persona ha una propria esperienza di genere, ma è anche vero che, purtroppo, questa esperienza è simile per quasi tutti e tutte perché nasciamo dentro un gruppo sociale o familiare che determina chi dobbiamo essere secondo il nostro sesso, dal momento in cui veniamo al mondo. Familiari e amici hanno aspettative differenti se nasce una bambina o un bambino. Si prepara il corredino rosa per una bimba e azzurro per un bimbo. Ad una bambina si regalano bambole, gioielli di plastica o giochi con cui possa “fingere” di essere madre, donna o casalinga. Ad un bambino si regalano macchinine, soldatini, trenini o un pallone da calcio perché possa sviluppare il suo “lato maschile”.
Abbiamo mai regalato una bambola a un bambino o un soldatino a una bambina?

Le differenze biologiche in sé non producono disuguaglianza ma nel momento in cui il gruppo (sociale o familiare) attribuisce un valore a queste differenze, la situazione cambia e si produce un disequilibrio tra donne e uomini. È la differenza di valori che produce disuguaglianza. E la disuguaglianza genera a sua volta una relazione di potere tra la donna e l’uomo, determinando la subordinazione di uno dei generi, il femminile, di fronte al dominio e al potere dell’altro, il maschile.

Agli uomini s’insegna che devono imparare a prendere decisioni e a farsi valere, a decidere e ad affrontare le conseguenze di queste decisioni. Godono di riconoscimento sociale, il loro lavoro è valorizzato e visibile, soprattutto perché genera remunerazione economica. Per questo, il ruolo maschile tradizionalmente ha a che fare con l’ambito produttivo2 e trova legittimità nell’ambito pubblico. 
Le donne, invece, spesso imparano che altre persone decidono e agiscono per loro. Essere donna, nella maggior parte delle culture, significa “essere per gli altri”, lavorare, pensare, accudire gli altri. Per questo, il ruolo femminile tradizionalmente ha a che fare con l’ambito riproduttivo e corrisponde all’ambito privato, dove è composto da attività non remunerate e poco valorizzate, se non del tutto invisibilizzate, a livello sociale.
Questa diversa scala di valori varia nelle diverse culture del mondo, in alcune la subordinazione delle donne è più evidente, in altre è più sottile, meno visibile. Ma comunque esiste, anche se si manifesta in diverse misure, in diversi ambiti e in modi differenti.
È vero anche che gli stereotipi offerti non aiutano neanche gli uomini a essere felici o a raggiungere benessere e sviluppo. Essere uomo significa anche rinunciare alla sensibilità, al pianto, alla tenerezza, per mantenere un comportamento “maschile”, duro, una facciata di competenza e capacità, troppo spesso legate all’aggressività, significa stare sempre all’erta per difendersi e difendere ciò che è proprio, significa non esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni per non rischiare di essere additato come “femminuccia”. 

La costruzione dell’identità di genere così come la conosciamo oggi è una delle, purtroppo, tante costruzioni del patriarcato. Cos’è il patriarcato? Tra le moltissime definizioni che le femministe nel corso degli anni hanno dato del patriarcato, la più completa è forse quella di Marta Fontenla, che riunisce il pensiero di differenti correnti femministe.

“...il patriarcato può essere definito come un sistema di relazioni sociali sesso-politiche che prendono vita da differenti istituzioni pubbliche e private e sono basate sulla solidarietà interclasse e intragenere instaurata dagli uomini, che come gruppo sociale, in forma individuale e collettiva, opprimono le donne, in maniera individuale e collettiva, e si appropriano della loro forza produttiva e riproduttiva, dei loro corpi e dei loro prodotti, che sia con mezzi pacifici o attraverso l’uso della violenza3”.

Più semplicemente, si può intendere il patriarcato come un sistema gerarchico di relazioni di potere in cui appunto il patriarca, non solo l’uomo, è l’unico soggetto. È un sistema che giustifica il dominio, lo sfruttamento, l’oppressione e la discriminazione delle donne sulla base di una loro presunta inferiorità biologica. Il sistema patriarcale ha origine nella famiglia4, il cui capo è il patriarca e le cui dinamiche sono state trasposte, nel corso degli anni, a tutto l’ordine sociale, culturale, politico, religioso ed economico, dove esiste un insieme di istituzioni articolate per mantenere e rafforzare il consenso sulla subordinazione delle donne rispetto agli uomini. È stato la prima struttura di dominio e subordinazione della storia e ancora oggi continua a essere un sistema base di dominio, il più potente e duraturo di disuguaglianza e quello che meno si percepisce come tale perché nel definire i ruoli e gli stereotipi di genere li fa apparire come naturali e universali.

L’ordine disuguale creatosi quindi tra donne e uomini ha contribuito e contribuisce a costruire le nostre identità, ed era già strutturato quando siamo nati.
La nostra identità, coscientemente o meno, si forma a partire da quello che DOBBIAMO sentire, fare, pensare, essere secondo i modelli che la cultura e la società hanno costruito e stabilito per noi. Nessuno rimane fuori da questo processo di formazione dell’identità. Un processo che ci definisce come persone e come membri della società e che viene definito col termine di socializzazione: gli esseri umani si costituiscono come tali mediante processi psicosociali nei quali il genere è una determinante fondamentale della nostra identità. In questo processo di socializzazione, ci vengono trasmetti codici di comportamento e valori di disuguaglianza che interiorizziamo perché ci hanno insegnato che era “naturale” comportarsi in una determinata maniera. Ci rimproveravano ogni volta che cercavamo di uscire da questi schemi e ci premiavano ogni volta che ci comportavamo secondo i modelli stabiliti per il nostro genere.
Le pratiche di genere si osservano all’interno della famiglia, nelle scuole, al lavoro e in molte istituzioni sociali, pubbliche e private.  Guardiamo e ascoltiamo per tutto il tempo frasi con messaggi su quello che il genere femminile e maschile devono fare; i luoghi dove possiamo andare e quelli in cui non possiamo andare, le ore in cui possiamo uscire, la maniera in cui ci dobbiamo vestire. Ci insegnano come dobbiamo essere a partire dalle nostre differenze fisiche, ci separano e ci obbligano a imparare un’identità predeterminata che costruisce disuguaglianze che ci impediscono di vederci come esseri umani uguali, con le stesse opportunità, le stesse possibilità di pensare, sentire, fare cose, anche se siamo fisicamente diversi.

Ma se non avessimo interiorizzato modelli prestabiliti, se fosse possibile allontanarsi, soprattutto mentalmente ed emotivamente, dalla nostra cultura, da quello che la società ci detta e ci presenta come normale, come avremmo creato o inventato la nostra identità?
L’omosessualità, per esempio, non sarebbe considerata “anormale” perché nessuno ci imporrebbe l’eterosessualità come unica opzione socialmente accettata? Gli uomini si potrebbero tranquillamente vestire di rosa senza per questo essere etichettati come gay? Una donna che ha avuto diverse esperienze con diversi uomini non sarebbe considerata una “di facili costumi” così come un uomo che ha avuto diverse esperienze con diverse donne non sarebbe considerato un “macho”? Un uomo che piange per un film o che esprime i propri sentimenti non sarebbe etichettato come “femminuccia”? Non esisterebbe il concetto di “trasgressione” perché tutto sarebbe possibile, sempre entro i limiti della libertà e del rispetto dei diritti altrui?
Molte domande e speranze sorgono a partire da queste riflessioni: è possibile che l’umanità, in tutta la sua varietà, si debba caratterizzare solo in due generi, donna e uomo5? È possibile che questi due generi non possano essere vissuti secondo coscienza propria ma secondo delle regole che ci vengono dettate? Non è una forma di limitare la libertà di chi non sente di appartenere a queste due categorie o che nno vuole rientrare in nessuna categoria?
E in questa utopica libertà di agire ed essere fuori dagli stereotipi e dalle tradizioni, dove trovare spazio per la cultura, la nostra cultura, che ci è stata tramandata e che definisce quello che siamo oggi? Come trovare un equilibrio tra la nostra cultura e la libertà personale di essere chi vogliamo senza farci intrappolare dagli stereotipi?

Personalmente penso che le poche verità assolute di questo mondo, l’assegnazione dei ruoli e delle identità di genere creatasi fino ai nostri giorni non sia una di queste.
Credo che a partire dall’uguaglianza non delle donne e degli uomini, ma di tutti gli esseri umani, qualsiasi sia il loro genere, si potrebbe creare una società più giusta e più libera.
Un’utopia? Forse!

C’è una frase di George Bernand Shaw, per me molto ispiratrice, che dovrebbe spingerci a voler cambiare le cose, a migliorarle:

“Hay quien observa la realidad asi como es y se pregunta porque
Y hay quien imagina la realidad como nunca ha sido y se pregunta porque no”6

 

Note

1 “Per libertà si intende genericamente la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi e agire senza costrizioni, usando la volontà di ideare e mettere in atto un’azione, ricorrendo a una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a metterla in atto”. Credo però che a questa definizione di libertà si debba aggiungere una “limitazione” più che necessaria, contenuta già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, dove si enuncia che “la libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce agli altri”. Ossia, agire secondo coscienza e libero arbitrio ma nel rispetto dei diritti della persona, qualsiasi persona.

2 Il lavoro produttivo include generalmente la produzione di beni e servizi. È un tipo di lavoro che genera entrate economiche e viene incluso nei censimenti e nelle statistiche nazionali del PIL. Il lavoro riproduttivo comprende, invece, il mantenimento dell’unità domestica e dei suoi membri, come per esempio l’educazione e la cura dei figli e delle figlie, la preparazione degli alimenti, la raccolta dell’acqua, i mestieri domestici e l’attenzione per la salute familiare. È un tipo di lavoro che non genera entrate economiche e per questo non viene considerato dalla società, non rientra nel PIL ed è altamente sottovalutato. È definitivo riproduttivo perché si riproduce ogni giorno.  

3 FONTENLA, Marta: “Patriarcado” en GAMBA, Susana (Coord.) Diccionario de estudios de género y feminismos, Biblos, Buenos Aires, 2008. In questa definizione di patriarcato, vengono riprese idee del femminismo radicale di Kate Millet, di Gerda Lerner, del feminismo marxista di Heidi Hartmann, di Celia Amorós, di Lidia Falcón, di Christine Delphy. http://es.wikipedia.org/wiki/Patriarcado.

4 Per molte persone, uomini o donne, il matrimonio e la famiglia sono due istituzioni che permettono il perpetuarsi del sistema patriarcale nelle società. Questo avviene soprattutto perché l’ambito domestico è lo spazio sociale in cui sono nate e da cui si riproducono le gerarchie di potere: in quest’ambito il corpo e la sessualità femminile sono diventati gli spazi dove più si è cercato di dimostrare l’autorità maschile, da qui nasce la struttura di dominio oggi conosciuta appunto come patriarcato. Per me molto dipende da come intendiamo il matrimonio e la famiglia. Se limitiamo il matrimonio all’unione di un uomo e di una donna secondo la religione cristiano-cattolica e consideriamo famiglia solo quella composta da una madre, un padre, i figli e le figlie, allora sì, è sicuro cadere nella rete del patriarcato. Ma i concetti possono, e devono, evolversi col tempo. Oggigiorno il matrimonio, come concetto, DEVE comprendere anche l’unione di persone dello stesso sesso, per esempio. Si tratta di un cambio di mentalità che senza dubbio non è facile ma doveroso e necessario. Tale cambio di mentalità tuttavia non deve riguardare solo il concetto di famiglia in sé (ossia il fatto che la famiglia non sia solo quella nucleare, ma anche quella allargata; non solo quella in cui i genitori sono una donna e un uomo ma anche quella omogenitoriale) ma proprio i rapporti di potere e la divisione delle responsabilità all’interno della famiglia stessa.

5 Secondo la Australian Human Rights Commission, in un documento intitolato “Protezione dalla discriminazione in base a orientamento sessuale e identità di sesso e/o di genere”, l’essere umano si distingue in ben 23 generi, non solo due. Oltre a donne e uomini, esistono omosessuali, bisessuali, transgender, trans, transessuali, intersex, androgini, agender, crossdresser, drag king, drag queen, genderfluid, genderqueer, intergender, neutrois, pansessuali, pan gender, third gender, third sex, sistergirl e brotherboy. C’è chi le definisce perversioni sessuali e chi invece le qualifica come legittimi orientamenti sessuali, degni di trovare piena tutela giuridica. http://www.segnideitempi.org/14667/cultura-e-societa/australia-i-sessi-sono-due-i-%c2%abgeneri%c2%bb-23/

6 “C’è chi osserva la realtà così com’è e si domanda perché, e c’è chi immagina la realtà come non è mai stata e si domanda perché no?”La versione originale in inglese è leggermente differente: “You see things; and you say, 'Why?' But I dream things that never were; and I say, 'Why not?'”

 

Lucia Beretta
è attualmente in Bolivia a fare il servizio civile in una ONG che lavora per i diritti delle donne

 

7-12-2011

 

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