Beslan, la strage dei bambini

di Lea Melandri


Carla Accardi

 

C'è un modo, silenziosamente condiviso, di sopportare l'orrore, che è il confronto: "che cosa è peggio?".
E' preferibile, per una madre, morire dopo aver coperto e salvato col proprio corpo dei bambini, o sopravvivere avendo dovuto scegliere quale di due figli portare con sé?
Sono più da compiangere le morti anonime di civili sotto i bombardamenti in Iraq, o i volti riconoscibili degli ostaggi del terrorismo, comparsi sui teleschermi del mondo per annunciare la loro decapitazione?
E' meno doloroso seppellire i propri morti, o annaspare tra le macerie avendo ancora nel cuore l'attesa di un famigliare sopravvissuto? E' più criminale il silenzio dei potenti, che nascondono dietro il rifiuto a trattare una lunga storia di conquiste, oppure la teatralità omicida dei più deboli?

Le domande spostano pietosamente il confine tra terre ancora abitabili e il deserto. Ma con la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia, il 3 settembre 2004, è come se fosse sparito anche l'ultimo lembo di "innocenza" che gli uomini hanno creduto di isolare dalla furia distruttrice della loro storia pubblica.
Il mito del femminile, come riserva di "umanità", si poteva già considerare eclissato per effetto di una emancipazione che non riesce a nascondere il desiderio di identificarsi con l'antico oppressore, e, oggi, per opera di una virilità guerriera capace di volgere a proprio vantaggio ciò che essa ha imposto alle donne come destino: il disprezzo di sé, la dedizione all'altro fino al sacrificio della propria vita.

La caduta delle frontiere tra eserciti e popolazione civile è il frutto avvelenato del potenziamento senza limiti delle armi, ma, nel medesimo tempo, la forma più arcaica con cui i gruppi umani si sono difesi dal "nemico" e dal "diverso", distruggendone la progenie. Nella scuola di Beslan c'era, insieme a una maggioranza di bambini, un'intera comunità.

Il modo con cui si è infierito sui corpi, prima ammassati e poi in fuga, porta il segno della radice remota e più inconfessabile dell'odio: la volontà di sterminio, la cancellazione di ogni promessa di nuova vita. E non c'è dubbio che la scuola rappresenta l'inizio di una convivenza allargata, una società che si costituisce ogni volta nella consapevolezza dei legami collettivi che la precedono. La profondità del male ci coglie sempre di sorpresa, ma è sorprendente anche l'incapacità o il diniego a coglierne i segnali, a scoprirne le ragioni, a prevenirne la catastrofe.

Come si può pensare che chi è disposto a farsi esplodere possa tenere in considerazione le altre vite, distinguere tra colpevoli e innocenti? Chi vive, reale o immaginaria, una condizione di impotenza, è come se fosse già consegnato alla morte e avesse, come ultimo desiderio, solo quello di trascinare con sé chi gliel'ha procurata. Una strage di bambini ci proietta fuori dalla storia, ma la resa alla barbarie comincia prima, col seppellimento delle ferite che i popoli si sono inflitte, di possibili gesti riparatori, delle prove d'amore che a Beslan sono state, non solo metaforicamente, corpo a corpo con la crudeltà.

questo articolo è uscito in Carnet – ottobre 2004